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1ª DOMENICA DI OTTOBRE, PAPA FRANCESCO : PREGHIAMO PER LA COLLABORAZIONE E LA PACE

Educare i giovani alla “globalizzazione della solidarietà”

PAPA FRANCESCO 


Lampedusa, otto anni fa la tragedia.
Don Rizzo: seguiamo il Vangelo con l’accoglienza

È l’anniversario della più grave sciagura dell’immigrazione: il 3 ottobre del 2013 oltre 350 migranti morirono in un naufragio in prossimità della costa siciliana. Il nuovo parroco dell’isola: “Io pastore degli isolani e dei migranti”

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

La differenza la fa una tomba perché, seppur in una terra lontana dalla propria, permette sempre di mantenere un legame con il proprio congiunto e di poterlo piangere, come faranno la decina di mamme tunisine che per il 3 ottobre si troveranno a Lampedusa, per andare sulla tomba dei propri figli, i cui corpi furono ritrovati, tra i 368 migranti morti nel naufragio del 3 ottobre del 2013, in quella che viene ritenuta la più grave tragedia dell’immigrazione, avvenuta nei pressi dell’isola dei Conigli. E poi c’è chi una tomba non ce l’ha, come le decine di dispersi inghiottiti dal mare quel giorno, così come tutte le migliaia di persone annegate durante i loro viaggi verso l’Europa. Per loro verrà lanciata una corona di fiori, come fece Papa Francesco l’otto luglio di quello stesso anno, soltanto due mesi prima della sciagura, quando ne gettò una tra le onde in ricordo di chi muore durante le traversate. 

Mamme in pellegrinaggio

Lampedusa anche quest’anno ricorda i suoi morti, quei figli, quei genitori, quei mariti e quelle mogli che cercavano una nuova vita. Lo farà con il silenzio notturno nell’ora del naufragio, lo farà con la testimonianza di chi quel momento lo ha vissuto e lo farà con la presenza di quelle mamme in pellegrinaggio dopo 8 anni, che verranno accolte dalle famiglie dell’isola, forse il momento più toccante, rivela don Carmelo Rizzo, neo parroco di San Gerlando, la parrocchia di Lampedusa, perché, spiega, “sarà un momento che farà rivivere anche l’esperienza dei lampedusani nell’accoglienza più prossima”.

Ascolta l’intervista con don Carmelo Rizzo

La Giornata della Memoria 

Il 3 ottobre è diventato Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, si ricordano tutti i migranti morti in acqua negli anni, si ricorda quella notte, quando un rogo divampato in un attimo avvolse l’imbarcazione con a bordo circa 500 persone, la maggior parte annegò gettandosi in mare nel tentativo di salvarsi. I superstiti furono solo 155. Lampedusa non ha mai smesso di essere un approdo per i migranti, anche negli ultimi giorni si è registrato quello che è stato ribattezzato come un ‘maxi sbarco’, circa 700 persone arrivate a bordo di un peschereccio partito dalla Libia, al quale poi ne è seguito un altro, con un numero tale di persone da far arrivare al collasso l’hotspot dell’isola.

Acqua ai bimbi assetati 

Testimone dello sbarco più numeroso è stato il vicario parrocchiale, don Salvatore, che con commozione ha raccontato a don Camillo le scene di chi voleva scendere, mentre “la nave ondulava rischiando il capovolgimento”, così come le grida dei bambini “che erano assetati, che strappavano il bicchiere dalle mani per arrivare a berne anche 6 o 7 di seguito”. E i lampedusani lì, con loro, a dimostrare che il popolo è sempre accogliente, pronto a farsi prossimo anche a livello evangelico, concretizzando la massima che ci ricorda che ‘chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa’.

Il ricordo della visita del Papa

Francesco l’8 luglio del 2013, a Lampedusa, primo viaggio dalla sua elezione a Papa, parlò della “globalizzazione dell’indifferenza”, della incapacità degli uomini di versare lacrime sulle vittime del mare e del nostro egoismo. “Ho visto qui tante persone che hanno ancora vivo il ricordo della visita del Papa – racconta ancora don Rizzo – le ho viste piangere, sia per la visita di Francesco, sia per come allora veniva vissuta l’accoglienza, quando gli isolani aprivano le loro case e mettevano a disposizione tutto ciò che avevano”. Quelle lacrime “erano di sofferenza, forse anche miste a gioia, per esser stati utili a persone con storie tragiche”.

Pastore di isolani e migranti

La prima cosa venuta in mente a don Rizzo una volta saputo del suo trasferimento a Lampedusa, è stato che “il sacerdote non deve essere altro che pastore”, parole del Papa, e a lui ripetute dall’arcivescovo di Agrigento, monsignor Alessandro Damiano, nell’informarlo della nuova destinazione, quando disse “devi avere il cuore del pastore per tutti, un cuore che si fa prossimo, che si fa padre per necessità, per gli isolani, per i migranti, e anche per i turisti”. Ed è proprio questo che don Carmelo si propone di fare: “Avere un cuore di pastore in mezzo alla gente, a questo popolo che ne ha bisogno realmente”.

Il Papa: un movimento globale contro l’indifferenza per una civiltà dell’amore
In un messaggio scritto in occasione dell’incontro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali con al centro la prima beatitudine, Papa Francesco indica lo spirito di povertà quale via per assicurare la felicità individuale e dei popoli. La ricerca illimitata del profitto e della ricchezza, scrive, genera povertà, disuguaglianza e conflitti. E raccomanda: educhiamo i giovani alla globalizzazione della solidarietà

Adriana Masotti – Città del Vaticano

Il messaggio di Papa Francesco ai partecipanti alla riunione, oggi e domani, promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali alla Casina Pio IV, in Vaticano, apre i lavori che avranno lo scopo di approfondire la prima delle otto beatitudini proclamate da Gesù, quella che dice: “Beati i poveri in spirito perchè di essi è il regno dei cieli”. Titolo dell’incontro è: “Caritas, Social Friendship, and the End of Poverty. Science and Ethics of Happiness”, cioè “Caritas, amicizia sociale e fine della povertà. Scienza ed etica della felicità”.

In che cosa consiste la felicità?

La felicità è il desiderio più profondo di ogni uomo e donna e il Signore la promette a coloro che vivono secondo il suo stile, quello indicato nelle Beatitudini che per sant’Agostino rappresentano “tutta la perfezione della nostra vita”. Papa Francesco parte da qui rivolgendosi ai partecipanti all’incontro della Pontificia Accademia. Tutti tendono alla felicità, ma non tutti hanno lo stesso concetto di felicità, osserva il Papa, esprimendo una prima considerazione:

Oggi ci troviamo di fronte a un paradigma prevalente, ampiamente diffuso dal “pensiero unico”, che confonde l’utilità con la felicità, il divertirsi con il vivere bene, e pretende di essere l’unico criterio di discernimento valido. Questa è una forma sottile di colonialismo ideologico. Si tratta di imporre l’ideologia secondo la quale la felicità consiste solo in ciò che è utile, nelle cose e nei beni, nell’abbondanza di cose, fama e denaro.

L’invisibilità dei poveri e dei più deboli

Questa ricerca della soddisfazione egoistica produce il timore di non possedere abbastanza e porta all’avidità e alla cupidigia nei singoli individui e nei Paesi, ricchi e poveri, oltre che “a un materialismo soffocante e a uno stato generale di conflitto”. Così si lede la dignità delle persone e del pianeta stesso e crescono povertà e diseguaglianza. Papa Francesco scrive:

In questi tempi di opulenza, in cui dovrebbe essere possibile porre fine alla povertà, i poteri del pensiero unico non dicono nulla dei poveri, degli anziani, degli immigrati, dei non nati, dei malati gravi. Invisibili alla maggioranza, sono trattati come usa e getta. E quando sono resi visibili, sono spesso presentati come un peso indegno per le casse pubbliche. È un crimine contro l’umanità che, come risultato di questo paradigma avido ed egoista imperante, i nostri giovani siano sfruttati dalla nuova e crescente schiavitù del traffico di esseri umani, specialmente nel lavoro forzato, nella prostituzione e nella vendita di organi.

Per uscire da questa situazione mondiale, ciò di cui abbiamo bisogno, afferma Francesco, non è disporre di maggiori beni, ma “di attuare il paradigma sempre nuovo e rivoluzionario delle beatitudini di Gesù, a cominciare dalla prima”. Essere poveri di spirito o, come scrive il Papa, “lo spirito di povertà” è allora “quel punto di svolta che apre la strada alla felicità attraverso un completo cambio di paradigma”.
È  “una via sicura per raggiungere la pienezza a cui siamo chiamati” tutti.

Locandina dell’incontro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
La miseria frutto dell’ingiustizia è un inferno

Papa Francesco a questo punto sottolinea la distinzione tra povertà di spirito, di cui parla Gesù, e povertà materiale, cioè la privazione del necessario per vivere, che descrive con parole dure. Si legge nel messaggio:

La povertà come privazione del necessario – cioè la miseria – è socialmente, come hanno visto chiaramente L. Bloy e Péguy, una specie di inferno, perché indebolisce la libertà umana e mette coloro che ne soffrono in condizione di diventare vittime delle nuove forme di schiavitù (lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi e così via) per sopravvivere. Si tratta di condizioni criminali che in stretta giustizia devono essere denunciate e combattute senza tregua. Tutti, secondo la propria responsabilità, e in particolare i governi, le imprese multinazionali e nazionali, la società civile e le comunità religiose, devono farlo. Sono le peggiori degradazioni della dignità umana e per un cristiano, le ferite aperte del corpo di Cristo che dalla sua croce grida: ho sete.

E’ un dovere, dunque, l’aiuto verso i poveri, per Gesù, scrive il Papa, tutti saranno misurati secondo quanto hanno fatto per aiutare “i loro fratelli bisognosi”. E cita due modelli esemplari: san Francesco d’Assisi e Madre Teresa di Calcutta, ma fa notare anche che molti uomini e donne “hanno ricevuto grazie dai poveri, perché in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciamo la carne del Cristo sofferente”.

Sono forse il guardiano di mio fratello? 

Il Papa prende poi in considerazione il crescente divario tra ricchi e poveri causa di disordini sociali, di conflitti e di messa in pericolo della democrazia. E scrive:

Questo è dovuto alla progressiva erosione dei rapporti di fraternità, amicizia sociale, armonia, fiducia, affidabilità e rispetto che sono alla base di ogni convivenza civile. Naturalmente, l’avidità che guida il sistema ha da tempo messo da parte la principale conseguenza economica, sociale e politica dello “spirito della povertà”, quella che esige giustizia sociale e corresponsabilità nella gestione dei beni e dei frutti del lavoro umano. “Sono forse il guardiano di mio fratello?

Papa Francesco vuol chiarire una possibile obiezione e per far questo cita il Catechismo della Chiesa Cattolica che sul tema della proprietà privata afferma: “La destinazione universale dei beni rimane prioritaria, anche se la promozione del bene comune richiede il rispetto della proprietà privata, del suo diritto e del suo esercizio”. Il Papa quindi afferma nel suo messaggio: “i possessori di beni devono usarli in spirito di povertà, riservando la parte migliore per l’ospite, il malato, il povero, il vecchio, l’indifeso, l’escluso; che sono il volto, così spesso dimenticato, di Gesù”.

“Scrive san’Ambrogio: quello che dai ai poveri non fa parte dei tuoi beni; quello che dai al povero appartiene a lui. (…) La terra è stata data per tutto il mondo e non solo per i ricchi”

Educare i giovani alla “globalizzazione della solidarietà”

Accanto alla diffusa globalizzazione dell’indifferenza, più volte denunciata, il Papa fa notare che, benchè essa sia prevalente, “durante tutto questo tempo di pandemia abbiamo visto come la globalizzazione della solidarietà ha saputo imporsi con la sua caratteristica discrezione nei diversi angoli delle nostre città”. E’ bene che essa si diffonda e soprattutto, osserva il Papa, è essenziale che essa si incarni nella vita dei giovani. Occorre dunque impegnarsi per questo. Infine ricorda gli ammonimenti dell’apostolo Paolo che mette in guardia il discepolo Timoteo sui pericoli legati alla ricchezza e all’avidità. In riferimento alla prima Lettera a Timoteo, Francesco scrive:

A molti questo testo sembrerà avere un valore religioso o ascetico, ma non economico. In effetti, sembrerà loro di essere distruttivi per l’economia. Tuttavia, è un testo eminentemente socio-economico e politico, come lo sono le beatitudini di Cristo e specialmente quella dello spirito di povertà a cui si ispira. Perché Paolo individua con estrema lucidità: “innumerevoli sofferenze sono state portate su di loro”, cioè l’avidità non ha portato loro il benessere economico e sociale che cercavano, né la libertà e la felicità che desideravano. Al contrario, l’avidità rende schiavo il potere del giorno senza pietà e senza giustizia nella lotta spietata per il vitello d’oro e il dominio, come dimostra l’economia moderna”.

Cercare insieme la civiltà dell’amore

Lo spirito di povertà, dunque, il limite posto al profitto, è la sola via che può garantire “il benessere stesso dell’individuo, dell’economia e della società locale e globale”. Da qui l’indicazione di un impegno a cui tutti oggi siamo chiamati: “realizzare un movimento globale contro l’indifferenza che – scrive il Papa a conclusione del suo messaggio – crei o ricrei istituzioni sociali ispirate alle beatitudini e ci spinga a cercare la civiltà dell’amore”.

La riflessione di questi due giorni d’incontro

Sul sito della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali si spiega che l’iniziativa che oggi ha preso il via “mira a forgiare una nuova etica globale per il XXI secolo, basata sulla saggezza millenaria dell’Oriente e dell’Occidente, sulle beatitudini e sulla scienza moderna e le aspirazioni del nostro pianeta”.
L’incontro prenderà, dunque, in considerazione le sfide etiche, istituzionali ed economiche dello sradicamento della povertà, per raggiungere la felicità a livello universale.

Tra le domande chiave a cui i partecipanti cercheranno di rispondere: 

Chi sono i poveri in spirito?

Quali sono le cause della povertà e le sue conseguenze?

Quali i diritti economici dei poveri?

Quali sono i nostri obblighi etici e/o religiosi verso i poveri?
Quali possibilità esistono per la ridistribuzione del reddito e la protezione sociale?

 

Messaggio del Santo Padre in occasione dell’Incontro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali “Caritas, amicizia sociale e la fine della povertà”, 03.10.2021

Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti all’Incontro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali “Caritas, amicizia sociale e la fine della povertà”, che si svolge in Vaticano, presso la Casina Pio IV, il 3 e il 4 ottobre 2021:

Messaggio del Santo Padre

Queridos hermanos y hermanas:

Según san Agustín, toda la perfección de nuestra vida está contenida en el “sermón de la montaña” (cf. Mt 5s); y lo demuestra por el hecho de que Jesucristo incluye en ellas el fin al que nos conduce, es decir, la promesa de la felicidad.[1] Ser feliz es aquello que más anhela el ser humano. De ahí que el Señor promete la felicidad a los que quieran vivir según su estilo y ser reconocidos como bienaventurados.

Toda la felicidad está incluida en estas bienaventuradas palabras de Cristo. Ahora, si bien todos los humanos desean la felicidad, difieren en sus juicios concretos sobre ella: algunos desean esto, otros aquello. Hoy nos topamos con un paradigma imperante, muy difundido por el “pensamiento único”, que confunde la utilidad con la felicidad, pasarla bien con vivir bien y pretende volverse el único criterio válido de discernimiento. Una forma sutil de colonialismo ideológico. Se trata de imponer la ideología según la cual la felicidad sólo consistiría en lo útil, en las cosas y en los bienes, en la abundancia de cosas, de fama y de dinero. Ya el salmista lamenta esta tergiversación: «¡Feliz el pueblo que tiene todo esto!» (Sal 144,15). Se aprovecha el miedo de las personas, miedo a quedarse sin lo necesario, porque saben que aterra sufrir carencias en el futuro. Cualquier forma de escasez provoca la avidez. De ahí surge el deseo inmoderado de poseer riquezas, que no es otra cosa que lo que san Pablo llama “avaricia”. Tal avaricia puede apoderarse tanto de las personas como de las familias y de las naciones, especialmente de las más ricas, aunque tampoco están exentas las más desprovistas. También puede suscitar en unas y en otras un materialismo sofocante y un estado general de conflicto que lo único que logra es multiplicar la pobreza para la mayoría. Esta situación es causa de enormes sufrimientos y ataca al mismo tiempo la dignidad de las personas y la del planeta —nuestra Casa Común—. Todo ello, con el interés de sostener la tiranía del dinero que sólo garantiza privilegios a unos pocos. Podemos estar muy agarrados al dinero, poseer muchas cosas, pero al final no nos las llevaremos con nosotros. Recuerdo siempre lo que me enseñó mi abuela: «el sudario no tiene bolsillos».

Hoy vemos que el mundo nunca ha sido tan rico, sin embargo —a pesar de tal abundancia— la pobreza y la desigualdad persisten y, lo que es peor aún, crecen. En estos tiempos de opulencia, en los que debería ser posible poner fin a la pobreza, los poderes del pensamiento único no dicen nada de los pobres, ni de los ancianos, ni de los inmigrantes, ni de las personas por nacer, ni de los gravemente enfermos. Invisibles para la mayoría, son tratados como descartables. Y cuando se los hace visibles, se los suele presentar como una carga indigna para el erario público. Es un crimen de lesa humanidad que, a consecuencia de este paradigma avaro y egoísta predominante, nuestros jóvenes sean explotados por la nueva creciente esclavitud del tráfico de personas, especialmente en el trabajo forzado, la prostitución y la venta de órganos.

Habida cuenta de los enormes recursos disponibles de dinero, riqueza y tecnología con que contamos, nuestra mayor necesidad no es ni seguir acumulando, ni una mayor riqueza, ni más tecnología, sino actuar el paradigma siempre nuevo y revolucionario de las bienaventuranzas de Jesús, empezando por la primera que ustedes están considerando con tanta atención: «Felices (μακάριοι) los pobres de espíritu (οἱ πτωχοὶ τῷ πνεύματι), porque a ellos les pertenece el Reino de los cielos» (Mt 5,3). Paradójicamente el espíritu de pobreza es aquel punto de inflexión que nos abre el camino hacia la felicidad mediante un giro completo de paradigma. Este, mientras nos despoja del espíritu mundano, nos conduce a usar nuestras riquezas y tecnologías, bienes y talentos en pro del desarrollo humano integral, del bien común, de la justicia social y del cuidado y protección de nuestra casa común. La paradoja de la pobreza de espíritu, a la que somos llamados, consiste en que siendo la llave de la felicidad para todos —individual y socialmente—, no todos quieren escucharla: «¡Qué difícil es para los ricos entrar en el reino de Dios!» (Lc 18,24).

La pobreza de espíritu es, entonces, este camino sorprendente e insólito, “estrecho y angosto” (Mt 7,14), pero seguro para alcanzar la plenitud a la que como personas y como sociedad estamos llamados.

Pero atención, Jesús no dice que sea una bendición la pobreza “material”, entendida como privación de lo necesario para vivir dignamente: alimento, trabajo, vivienda, salud, vestimenta, educación, oportunidades, etc. Esta pobreza es causada la mayoría de las veces por la injusticia y la avaricia, y no tanto por las fuerzas de la naturaleza (calentamiento global, calamidades, pandemias, terremotos, inundaciones, tsunamis, etc.), es más en algunas estas últimas no pocas veces también se advierte la manipulación humana. La pobreza como privación de lo necesario —es decir, la miseria— es socialmente, como lo han visto claramente L. Bloy y Péguy, una especie de infierno, porque debilita la libertad humana y pone a los que la sufren en condiciones de ser víctimas de las nuevas esclavitudes (trabajo forzado, prostitución, tráfico de órganos y otras más) para poder sobrevivir. Son condiciones criminales que en estricta justicia deben ser denunciadas y combatidas sin descanso. Todos, según la propia responsabilidad, y en particular por los gobiernos, las empresas multinacionales y nacionales, la sociedad civil y las comunidades religiosas, deben hacerlo. Son las peores degradaciones de la dignidad humana y para un cristiano, las llagas abiertas del cuerpo de Cristo que desde su cruz clama: tengo sed. «¡Felices ustedes, los pobres, porque el Reino de Dios les pertenece!» como lo afirma san Lucas (cf. 6,20) es un llamado a la libertad que prioriza la necesidad de socorrer al enfermo y al pobre con alimento, salud, refugio, vestimenta y otras necesidades básicas. Es más, Jesús proclama que en el juicio final se medirá a todas las personas, a las familias, a las asociaciones, como también a todos los pueblos según el protocolo de ayuda a los hermanos necesitados: «Les aseguro que cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,40).

Los pobres de espíritu son ricos de este “instinto” del Espíritu Santo, son ricos de fraternidad y deseosos de la amistad social. Así lo testimonió el joven Francisco de Asís, hijo de un rico comerciante, en los albores de la era industrial, del capitalismo y de la banca, abandona las riquezas y comodidades para hacerse pobre entre los pobres, testimoniando esta bienaventuranza con el llamado sposalizio con madonna povertà. Movido por el espíritu de pobreza advierte en el sufrimiento del leproso que la verdadera riqueza y la alegría no son las cosas, el tener, el paradigma mundano, sino el amor a Cristo y el servicio solidario a los demás. En un sentido plenamente serio y entusiasta —afirma Chesterton— san Francisco podía decir: “Bienaventurado quien nada tiene ni espera porque poseerá todo y de todo disfrutará”.[2] Asimismo, tocada por el sufrimiento de la multitud de pobres de nuestro tiempo que consideraba como propios, la misericordia ha sido para Madre Teresa de Calcuta el agua viva y el pan vivo que daban primor a cada obra suya, y la energía que saciaba y alimentaba a los que no tenían nada más que “hambre y sed de justicia”. Del mismo modo, muchos hombres y mujeres de fe viva —y no sólo— han recibido gracias de los pobres, porque en cada hermano y hermana en dificultad abrazamos la carne de Cristo sufriente.

Junto al aumento masivo de la pobreza, la otra consecuencia del paradigma materialista predominante es el creciente incremento de la grieta de las desigualdades, lo cual causa el malestar social y generaliza el conflicto, no sólo poniendo en peligro la democracia, sino también debilitando el necesario bien social. Este trágico y sistémico aumento de las desigualdades entre grupos sociales dentro de un mismo país y entre las poblaciones de los diferentes países tiene también un impacto negativo en el plano económico, político, cultural e inclusive espiritual. Y esto a causa del progresivo desgaste del conjunto de relaciones de fraternidad, amistad social, concordia, confianza, fiabilidad y respeto, que son el alma de toda convivencia civil. Naturalmente, la avaricia que mueve el sistema ha dejado de lado ya, desde hace mucho tiempo, la principal consecuencia económico-social y política del “espíritu de pobreza”, aquella que exige la justicia social y la co-responsabilidad en la gestión de los bienes y de los frutos del trabajo de los seres humanos. «Acaso, ¿soy el guardián de mi hermano?» (Gn 4,9). El Catecismo de la Iglesia católica recuerda que: «El derecho a la propiedad privada, adquirida o recibida de modo justo, no anula la donación original de la tierra al conjunto de la humanidad. El destino universal de los bienes continúa siendo primordial, aunque la promoción del bien común exija el respeto de la propiedad privada, de su derecho y de su ejercicio».[3] Y poco después agrega: «Los bienes de producción —materiales o inmateriales— como tierras o fábricas, profesiones o artes, requieren los cuidados de sus poseedores para que su fecundidad aproveche al mayor número de personas».[4] De modo que los poseedores de bienes deben usarlos con espíritu de pobreza reservando la mejor parte al huésped, al enfermo, al pobre, al viejo, al desvalido, al excluido; que son el rostro, tantas veces olvidado, de Jesús, que es a quién buscamos cuando buscamos el bien común. El desarrollo de una sociedad se mide por la capacidad de socorrer premurosamente al que sufre.

Ya en 1967, san Pablo VI escribía en la encíclica Populorum progressio: «Sabido es con qué firmeza los Padres de la Iglesia han precisado cuál debe ser la actitud de los que poseen respecto a los que se encuentran en necesidad: ‘No es parte de tus bienes —así dice san Ambrosio— lo que tú das al pobre; lo que le das le pertenece. Porque lo que ha sido dado para el uso de todos, tú te lo apropias. La tierra ha sido dada para todo el mundo y no solamente para los ricos’».[5] Un nuevo paso importante, en 1987, es dado por san Juan Pablo II, quien introduce por primera vez la noción de “estructuras de pecado” para indicar una de las principales causas de la desigualdad social del sistema capitalista, que produce esclavos.[6]

La buena noticia es que, creado a imagen de Dios, el ser humano está llamado a colaborar libremente con el Creador y a desarrollar sosteniblemente la tierra y, a su vez, a plasmar la sociedad con el carácter espiritual fraterno que él mismo recibió en el programa de las bienaventuranzas. Si bien la globalización de la indiferencia parece ser la voz imperante, durante todo este tiempo de pandemia vimos como la globalización de la solidaridad se pudo imponer con su discreción característica en los distintos rincones de nuestras ciudades. Debemos, por tanto, despojarnos de la mundanidad para que el espíritu de las bienaventuranzas y, en nuestro caso, la pobreza de espíritu, adquiera forma entre nosotros y entre los pueblos. Sin embargo, todos nuestros discursos serán palabras, como dice el dicho, que se lleva el viento, si no logran arraigarse y encarnarse en la vida de los jóvenes. Esto nos exige trabajar con énfasis y esperanza en modelos educativos capaces de promover en las jóvenes generaciones el espíritu de las bienaventuranzas.

Quiero terminar con el eco que tiene en san Pablo el espíritu de pobreza enseñado por Cristo. No se puede dudar que Pablo encuentra legítimo desear lo necesario y, consecuentemente, trabajar para conseguirlo es un deber: «El que no quiere trabajar, que no coma» (2 Ts 3,10). Pero al mismo tiempo advierte a su discípulo Timoteo sobre la avaricia como origen de muchos males personales y sociales: «Los que desean ser ricos se exponen a la tentación, caen en la trampa de innumerables ambiciones, y cometen desatinos funestos que los precipitan a la ruina y a la perdición» (1 Tm 6,9). «Porque la avaricia (φιλαργυρία) es la raíz de todos los males, y al dejarse llevar por ella, algunos perdieron la fe y se ocasionaron innumerables sufrimientos» (1 Tm 6,10). A muchos este texto les parecerá de valor religioso o ascético, pero no económico. Es más, les parecerá destructor de la economía. Sin embargo, es un texto eminentemente socioeconómico y político, como lo son las bienaventuranzas de Cristo y en especial aquella del espíritu de pobreza en la que este se inspira. Porque Pablo individualiza con extrema lucidez: «se ocasionaron innumerables sufrimientos», es decir, la avaricia no les suministró el bienestar económico y social que buscaban, ni tampoco la libertad y la felicidad que deseaban. Al contrario, la avaricia esclaviza al poder de turno sin piedad y sin justicia en la lucha despiadada por el becerro de oro y el dominio, como lo demuestra la economía moderna. Por ello, el bienestar mismo de cada persona, de la economía y de la sociedad local y global exige el espíritu de pobreza, el ser capaces de regular el deseo de lucro y avaricia, de dejarnos guiar por el Espíritu Santo, cuyos frutos de «amor, alegría y paz, magnanimidad, afabilidad, bondad y confianza, mansedumbre y dominio de sí» (Ga 5, 22s).

Para superar esta avaricia, estamos llamados a realizar un movimiento global contra la indiferencia que cree o recree instituciones sociales inspiradas en las bienaventuranzas y nos impulsen a buscar la civilización del amor. Un movimiento que ponga límite a todas aquellas actividades e instituciones que por su propia inclinación tienden sólo al lucro, especialmente las que san Juan Pablo II llamó “estructuras de pecado”. Entre ellas la que definí como “globalización de indiferencia”. Pidamos al Señor que nos dé su “espíritu de pobreza”. Busquemos y nos ayudará a encontrarlo. Llamemos para que se nos abra la puerta del camino de las bienaventuranzas y de la auténtica felicidad.

Roma, San Juan de Letrán, 2 de octubre de 2021

FRANCISCO

______________________

[1] «Si alguien considera piadosa y sobriamente el sermón que nuestro Señor Jesucristo pronunció en el monte, como lo leemos en el Evangelio según san Mateo, creo que encontrará en él, en lo que respecta a la más alta moral, una norma perfecta de la vida cristiana» (SAN AGUSTÍN, Sobre el Sermón de la Montaña, I, 1).
[2]
G.K. CHESTERTON, San Francisco de Asís, cap. 5, El juglar de Dios.
[3]
Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2403.
[4]
Ibíd. n. 2405.
[5]
Cf. n. 23.
[6]
Cf. Carta enc. Sollecitudo Rei Socialis, 36-40.

[01338-ES.01] [Texto original: Español]

[B0625-XX.02]

Angelus
Da Piazza San Pietro, recita della Preghiera dell’Angelus guidata da Papa Francesco

https://youtu.be/BGoTYS85yqw

“Fratelli tutti”, per rendere vita il Vangelo
Pubblicata il 4 ottobre di un anno fa, l’ultima enciclica di Papa Francesco propone la via da percorrere per salvare l’umanità dal baratro dell’odio

ANDREA TORNIELLI

A un anno dalla sua pubblicazione è ancora troppo presto per verificare se l’effetto dell’enciclica Fratelli tutti sarà simile a quello della Laudato si’, l’altro importante documento papale, promulgato nel 2015, che mai come prima ha saputo intercettare l’interesse di persone lontane dalla Chiesa generando iniziative e un impegno concreto dal basso.

Fratelli tutti, come pure Laudato si’, appartengono al magistero sociale della Chiesa e bisogna evitare il rischio “riduzionistico”, come se si trattasse di documenti che si occupano di emergenze e problemi contingenti proponendo vie da percorrere altrettanto contingenti. La difesa della vita, la salvaguardia del Creato che ci è stato affidato, l’ecologia umana e integrale non sono suggerimenti opinabili e accidentali per il tempo presente ma trovano origine e fondamento nella Parola di Dio. Allo stesso modo, anche l’invito alla fraternità, al considerare l’altro – chiunque esso sia e da dovunque provenga – non come “l’altro” ma come un fratello in quanto figlio di Dio, non è una mera contingenza o il particolare interesse di una stagione della vita della Chiesa, ma uno sguardo profondamente evangelico.

Sei anni fa Francesco, con Laudato si’ faceva cogliere le connessioni esistenti tra crisi ambientale, crisi sociale, guerre, migrazioni, povertà. Invitando a costruire un sistema economico e sociale più giusto e rispettoso del creato, che abbia al centro l’uomo e non l’idolatria del denaro. Un anno fa, con Fratelli tutti, il Papa ha indicato la via su cui camminare per raggiungere quell’obiettivo: il riconoscersi fratelli e sorelle, custodi l’uno dell’altro. Non è altro che il Vangelo, come insegna la parabola del Buon Samaritano, così dirompente e fuori dagli schemi, e al contempo ancora così poco compresa e vissuta. Il cristiano riconosce il volto di Gesù “in ogni essere umano, per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati e dei dimenticati di questo mondo, e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi”. Ma anche chi non ha ricevuto il dono della fede cristiana comprende il messaggio della fraternità, unico antidoto alla corsa autodistruttiva verso il baratro dell’odio, della guerra, dell’egoismo, del fanatismo.

Se dunque è ancora presto per verificare i frutti dell’enciclica papale pubblicata un anno fa, i segni e i semi di speranza non mancano. Chi scrive ha avuto la grazia di trascorrere nei giorni scorsi qualche ora con Dale Recinella, un ex avvocato statunitense della finanza di Wall Street che ormai da molti anni, insieme alla moglie Susan, dedica la sua vita ad accompagnare i detenuti in attesa di esecuzione nel Braccio della Morte in Florida. Molti di loro, grazie alla sua amicizia, hanno affrontato il boia riconciliati con Dio. Dale ha riconosciuto Gesù in questi fratelli e per questo, nonostante le difficoltà e le incomprensioni da cui è circondato, ha bisogno di loro non meno di quanto loro abbiano bisogno di lui. Con gli occhi bagnati dalle lacrime ha raccontato che il messaggio dell’enciclica Fratelli tutti, ogni parola e ogni gesto di Papa Francesco, sono per lui come “una trasfusione di sangue, che aiuta a vivere e ad andare avanti”. Ci sono tante persone nel mondo, lontane dai riflettori dei media e dai convegni celebrativi, che guardando in questo modo alla testimonianza del Successore di Pietro rendono vita il Vangelo.

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