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COVID-19, LA NUOVA RELAZIONE “PAURA E POTERE”

Che cos’è la sterilizzazione sanitaria di una società e come è cambiato il nostro rapporto con la morte

di Gianfranco Blasi

«Se c’è un valore assoluto ancorato nella nostra Costituzione, è la dignità delle persone, che è intoccabile. Ma questo non esclude che dobbiamo morire».

È questo, molto in sintesi, il pensiero di Wolfgang Schäuble, presidente del Bundestag tedesco. Ma lo si comprende meglio aggiungendo quanto detto dallo stesso Schäuble proprio al Parlamento tedesco, in un discorso destinato a restare: «È assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana».

Parecchio radicale. Schäuble, 77 anni, nella fascia d’età a più alto rischio per la pandemia, chiede – mi si perdoni la sintesi – di riaprire le attività economiche e culturali, in una parola

di tornare a vivere e di farlo in fretta. Insiste sulle conseguenze economiche, certo, e anche su quelle psicologiche. Ma soprattutto insiste sul fatto che “tutti lasciamo questo mondo prima o poi“, ragione per la quale, aggiunge, la sua “paura è limitata”.

Ed eccolo prendere forma il dibattito sulla nostra fine, sulla morte, come entità fisica, come chiusura del ciclo vitale. Noi la morte l’abbiamo (l’avevamo) rimossa. La maggioran

za di noi vive senza considerarla. Tanto che, in tempo di Coronavirus, una frase di un cantautore come Pierangelo Bertoli, ci torna a far riflettere: “è  poi così cattiva la morte?”

 

La morte non è né niente né tutto.

Paradossalmente si emargina la morte per due eccessi opposti: o perché la si ritiene un niente, o perché si concepisce tutto come un continuo morire. Questi sono due modi, uguali e contrari, di sfuggire la domanda seria che la morte pone alla vita. E’ come se gli uomini del nostro tempo restino in grave imbarazzo nei confronti dell’ultima data della loro vita. Oppure, è come se, tacendo sulla morte, volessero rimediare a una evidente impotenza nei confronti di essa. Questa timidezza nell’affrontare la morte mostra il lato debole di una cultura a più facce, come la nostra, molto spesso sicura di sé e talora anche spavalda.

La congiura del silenzio.

Nell’odierna situazione l’evento della morte ha finito per perdere di rilevanza e, comunque, intorno ad esso s’è creata una vera congiura del silenzio, appena interrotta da alcune voci più preoccupate, che però hanno il merito di tener desto il problema più serio dell’uomo. Una delle voci che interrompono tale equivoco mutismo sulla morte è la teologia cristiana. Non con questo Papa, troppo teso al tema delle diseguaglianze e della liberazione degli oppressi. Mentre, lo sappiamo, la fede dei padri, primo fra tutti, Paolo di Tarso, si concentra totalmente e misticamente attorno ad un uomo schernito, processato sommariamente, crocifisso e morto sul Golgota. Salvo poi risorgere. Sconfiggere la morte è per i cristiani fisicamente possibile. E’ una esperienza che unisce l’umano e il trascendente.

La società di oggi ha, invece, espulso la morte: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. È vistosa la rimozione della morte o, come è stata anche chiamata, la sua «tabuizzazione». Pensate la morte, “l’unica cosa certa” dicevano gli antichi, che diventa tabù. Una contraddizione in termini. Ma la tabuizzazione è indice soprattutto di un nuovo costume della morte e del morire, un nuovo stile del morire: è uno stile fatto di riservatezza se non di reticenza e di vera “privazione” della morte (chi muore non ge

stisce più la sua morte). L’odierno stile del morire ha ben poco a che fare con l’ars moriendi, che per secoli ha posto il morente al centro del suo estremo atto di vita. Imparare a morire per imparare a vivere.

Ecco, questa centralità ci è stata restituita, come un fulmine a ciel sereno, dalle ambulanze di Piacenza, dagli ospedali di Brescia, Dai camion, in fila, zeppi di morti della bergamasca che marciavano verso i crematoi.

Sulla morte non c’è consenso.

La nostra società scoraggia il pensiero della morte sia a livello dell’adulto che del bambino, sia pure con motivazioni evidentemente diverse. La rimozione della morte, per alcuni, sarebbe il relitto di una cultura arcaica che vuole riproporre oggi i suoi riti ormai improponibili; per altri, sarebbe una proposta ideologica mirante a conservare il carattere repressivo del vivere sociale. Sulla morte non c’è consenso. Non è univoca la sua vi

sione. Essa è vista culturalmente in prospettive diverse: cattolica, ebraica, orientale ecc. Ed è vissuta differentemente anche dal punto di vista psicologico: si parla di morte sfidata, di morte desiderata, di morte curata, di morte elaborata.

La “morte rimossa”. 

 

Tra le diverse ragioni che hanno portato al sorgere di questa nuova mentalità di rimozione e di nascondimento del tema della morte, la cultura spavalda del rifiuto del limite ha certamente un posto notevole. Il veloce e progressivo accrescimento delle risorse conoscitive e soprattutto tecniche ha generato uno spavaldo sentimento di autosufficienza, nonostante la crisi di fiducia che ha investito le scienze nel XX secolo. La diffusa assenza di certezze non ha portato ad un saggio riconoscimento del limite, ma alla convinzione che tutto, in ogni ambito, possa essere ugualmente sperimentabile, senza alcun vero limite: è uno degli aspetti insani del nostro tempo.

 

Il rischio della trasformazione sanitaria della società moderna.

Il covid – 19 ha prodotto un cambiamento radicale negli stili di

vita, che ha riproposto la paura della morte. Anzi l’ha rafforzata. Non a caso il potere politico, un po’ a tutte le latitudini, ha provato ad avvantaggiarsene. Creando un governo illiberale dell’emergenza. Che potrebbe trasformarsi, nei prossimi mesi, in una forma di libertà vigilata dei nostri comportamenti. I quali, si svilupperebbero in funzione di una attenzione ossessiva della salute rispetto a fattori esterni non solo patogeni ma anche ambientali. Esiste un problema filosofico che proviamo a sintetizzare. Il senso del limite deve essere una nostra conquista culturale, non ci può essere indotto da nessuna commissione medica. Il senso del limite ci libera dalla paura e ci rimette a centro nella costruzione dell’universo. La paura ci induce, invece, ad accettare regole, costruzioni, modelli che spesso non perseguono il bene comune, ma la centralità di forme più o meno diverse di potere. La paura è buia, la consapevolezza, una nuova alba.

Wolfgang Schäuble, 77 anni, è un tipo parecchio interessante. Ha il tragico incorporato, sta su una sedia a rotelle. E’ stato il teorico dell’austerità e della troika, due concetti politici tragici. E’ un ordoliberale, il tipo di economista e sociologo decisivo in una fase di ritorno alle prerogative dello stato nell’economia. Un politico di lungo corso della democrazia cristiana e sociale tedesca, che ci sollecita a tornare semplicemente alla vita. Con la giusta equazione fra responsabilità e libertà, fra dignità della vita e rispetto della morte. Accentandola nel tempo, mentre con passione continuiamo a vivere.

 

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