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EGIDIO POMPONIO CI DESCRIVE L’AGRO DI ABRIOLA

“Sarà stato per la benevolenza di don Egidio Sarli che, pur essendo il padrone, a differenza di tanti cafoni proprietari arricchiti, esigeva, ma nello stesso tempo sapeva comandare i suoi fattori”

LA MASSERIA DI DON EGIDIO SARLI


Questa mattina sono riandato a Monteforte, ero solo per strada, non vedevo nessuno, ho pensato che per qualche motivo era stata annullata la messa. Io sarei salito comunque e mi son riproposto che se non vi fosse stato nessuno avrei cantato davanti la chiesa da solo la bella canzone ” Dell’Aurora” che tanto piaceva al nostro vecchio parroco don Luigi.

La chiesa era piena come al solito, ero io in leggero ritardo, quando sono arrivato il prete già stava predicando. Ho ascoltato la messa ,dopo le ragazze che animano la funzione hanno intonato proprio Dell’Aurora, mi sono accodato…. non potevo non cantarla anch’io.

Lungo il percorso ho notata e fotografato dall’alto la bella masseria di mio nonno Egidio, tutti i terreni seminativi circoscritti da alberi nella foto allegata.


Per me è la più bella masseria di Abriola, tanto è vero che nel romanzo storico

Assedio al palazzo Federici” eventi avvenuti a fine settecento, l’ho descritta così:

Il brigante Scozzettino

Lo guardò attentamente negli occhi, era lui, quel bambino che aveva visto la prima volta nel bosco della Serra del Monte.
Rocco non lo notò subito, un po’ per la stanchezza, era quasi una giornata intera che era di guardia; e poi, come faceva a prevedere che in quel gruppo di giovani in tumulto potesse trovarsi anche il figlio del barone del suo paese?
Si guardarono per pochi attimi, ma con tanta intensità che gli sembrò un’eternità. L’incantesimo fu rotto dal provenire prima lievemente, poi con un crescente assordante di un battaglione di guardie a cavallo che irruppero nella piazza disperdendo nei vicoli laterali tutti i dimostranti.
Ritornata la quiete Rocco corse veloce con la mente a quella mattina.

Era quasi l’alba, il sole faceva la sua comparsa sui crinali delle territori a levante, mentre la parte del fosso del bosco della Bufata era ancora in ombra.
I primi raggi di sole facevano brillare come pietre preziose la brina sull’erba che si muoveva danzando ad ogni alito di vento.
I cani avevano puntato la preda e circondavano un folto cespuglio di pungitopo. I cacciatori si avvicinarono con le loro armi pronte a colpire muovendo verso il cespuglio; non vedendo nessun animale uscire, si avvicinarono tanto da poter muovere con le canne dei fucili i rami pungenti della pianta ove, per terra, mastro Nicola che, arrivò più vicino, esclamò:
– Pè la maddonna quist nunnè nu lebbre. Signor barone venite a vedè.

-Si avvicinò anche Tommaso, racchiuso in una mantella di color bleu notte incurante del latrare dei cani e del frastuono causato dalla presenza dei nuovi arrivati, Rocco continuava a dormire tranquillo.
Aveva solo la testa che usciva dal mantello con i riccioli biondo rossiccio, increspati ancor più dalla umidità di quel primaverile mattino.
Mastro Nicola per svegliarlo dovette più volte scuoterlo per la spalla.
Non si rendeva conto di chi erano e cosa volessero, forse ancora stava sognando.
Con il dorso della mano si sfregò più volte energicamente gli occhi prima di riconoscere gli inattesi ospiti.
-Signor barone Vo signoria ma vita scusà si nu v’aggio salutato.
-Come ti trovi a quest’ora in questo posto?-

Con tono interrogativo e paterno nello stesso tempo, chiese il barone.
Il ragazzo non sapeva da dove cominciare, ma, pian piano che la mente continuava a svegliarsi, raccontò la sua disavventura.
La sera precedente aveva perso un gruppo di pecore che stava pascolando.
Si rese conto che stava facendosi tardi, così decise di raggiungere la masseria di cui era il pastore, chiuse nell’ovile il gregge e tornò sui monti in cerca di quelle smarrite.
La caccia si dimostrò infruttuosa e la notte l’aveva sorpreso in quel bosco.
Stanco e con la necessità di ritrovarle la mattina successiva si era accovacciato sotto quel cespuglio.
Ripensò alla masseria, di cui era solo il pastorello, ma ne era fiero, come se ne fosse il padrone.

Sarà stato per la benevolenza di don Egidio Sarli che, pur essendo il padrone, a differenza di tanti cafoni proprietari arricchiti, esigeva, ma nello stesso tempo sapeva comandare i suoi fattori.

Pretendeva la massima onestà, dedizione e puntualità nel lavoro, ma nel contempo non faceva cadere sui suoi dipendenti eventuali calamità o qualsivoglia altra disgrazia che potessero accadere ai suoi terreni coltivati o alle mandrie di bestiame.

Forse, per questo, Rocco decise di non ritirarsi fin tanto non avesse ritrovate le pecore.

Per sua fortuna dopo una lunga camminata nel bosco della Bufata le ritrovò.
Quando sul tardi pomeriggio tornò in masseria, incrociò il mandriano che quel giorno aveva portato al pascolo oltre alle sue vacche anche le capre e le pecore di Rocco.

Il massaro Valentino fu contento nel rivedere Rocco con le pecore ritrovate, poiché quella settimana già doveva riferire a don Egidio della non buona annata delle vigne in quanto avevano subito una forte grandinata giorni prima ed a questo non voleva aggiungere altre notizie negative.

La masseria, non per vantarsi, era la più bella del paese.

Ubicata non distante dal centro abitato, su una collina esposta a mezzogiorno, con un ampio terreno in leggera pendenza di circa cinquanta tomoli, cosa rara per questi territori acclivi, per coltivare a cereali.

A valle dei seminati, ove il terreno scendeva al torrente Jumariello, a quota collinare e con inclinazione più accentuata erano state piantate circa quattro mila viti, la bellissima vigna ch’era l’orgoglio di don Egidio.

I filari scendevano dritti a valle con le viti alloggiate a distanza di una canna, così come aveva visto nel napoletano, a differenza della distanza di tre palmi usata in zona.

Fra i filari poteva tranquillamente passare un mulo con aratro.
Le viti erano state selezionate da vitigni locali per le qualità che meglio attecchiscono, ma l’orgoglio del padrone era nell’aver fatto arrivare alcuni vitigni anche dalla Francia, tramite un commerciante Napoletano, padre di un suo amico che aveva conosciuto a Napoli da studente ed ancora in corrispondenza.

A ridosso della masseria era un ampio orto che si poteva vedere dal paese, nella stagione vegetativa per il suo verde cupo a contrasto del giallo dei seminati in maturazione.

La masseria era costituita da un’ampia corte, delimitata a monte da querce secolari del boschetto di proprietà, che finiva quasi in vetta della collina, da cui scaturiva una freschissima sorgente denominata l’acqua della corte.

La sorgente incanalata con un acquedotto costituito da embrici posti uno sull’altro e interrati per pochi palmi, ma sufficienti a portare acqua fresca accettabile alla fontana. Il rivolo perenne alimentava una sottostante vasca di raccolta, utilizzata per irrigare l’orto.

La masseria era costituita da un piano seminterrato, ove si trovavano le stalle ed un ampio granaio, raggiungibile attraverso una piccola scala esterna, posta su un lato a ponente, che finiva su un terrazzino si accedeva alla masseria.

Si entrava in un ampio salone illuminato da un balcone con sporgenza appena accennata.

Questa era la vita della masseria, ove si lavorava il latte e si effettuavano tutte le lavorazioni per conservare i prodotti della terra.
Dalla sala si accedeva, superando due gradini posti nello spessore della muratura, ad un piccolo vano disimpegno su cui affacciavano tre porte delle camere da letto per ospitare don Egidio e famiglia quei pochi giorni all’anno che decidevano di fermarsi, per lo più durante il tempo della mietitura.

Con accesso dalla parte a monte erano ubicati due vani, uno per il massaro, l’altro per il mandriano, o come riportato sulle carte, armentista, con le rispettive famiglie. Più avanti, a ridosso del pagliaio, vi era una stanza dove potevano dormire i pastori e altri fornitori di servizi forestieri.

Nella masseria per lo più regnava sempre una buona allegria, anche nelle giornate più faticose.
Alla bontà e signorilità del padrone s’era associata la bontà paternalistica del massaro Valentino che, ad un primo imbatto, sembrava una persona burbera, ma era di una tale comprensione che, a volte, Rocco si rammaricava perché non fosse suo padre.

La vera proprietaria della masseria era la moglie, zia Fnozza, diminutivo di Serafina, a cui era demandata tutta l’organizzazione delle attività dell’azienda, dal cucinare, alle attività dell’orto, alla lavorazione del latte ed alle mille faccende quotidiane.

Pur essendo una massara, era riconosciuta da tutti i signori del paese come la persona più pulita, anche nelle ristrettezze del periodo.
I signori accettavano di buon grado e quasi dovevano fare la fila per ottenere le buone ricottine che faceva zia Fnozza.

Oltre per la prelibatezza, erano certi della pulizia che metteva nel preparare ogni cosa e di quei tempi di facili epidemie, era una garanzia di salubrità.
Aveva lavorato per molti anni alle dipendenze del massaro Valentino, che lui chiamava z’Ndino, che era il diminutivo di zio Valentino.

Sembrava naturale che rimanesse alla masseria con la quasi certezza di essere lui il prossimo capo mandriano, alla partenza del vecchio zi Mingo, diminutivo di Domenico, che aveva più volte accennato alla volontà di tornarsene al suo paese.

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