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URSULA FRANCO : UN CASTELLO DI CARTE ~ IL CASO BUONINCONTI/CESTE EZIOPATOGENESI DI UN ERRORE GIUDIZIARIO

Non è forse un paradosso che un innocente de facto sia stato condannato in via definitiva a 30 anni per un omicidio che non c’è stato? Michele Buoninconti, nato a Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno) il 28 luglio 1969, vedovo a causa di una tragica fatalità, padre di quattro figli e vittima di malagiustizia sconta la sua pena nel carcere di Alghero (Sassari)

È GIUSTO INFORMARE 

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE 

ERRORE GIUDIZIARIO 

BUONA LETTURA DI RIFLESSIONE CONDIVISA CON LA SQUISITA COLLABORAZIONE DELLA NOTA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO 

Dottoressa URSULA FRANCO

Un Castello di Carte – Il caso Buoninconti Ceste, eziopatogenesi di un errore giudiziario

“Si diceva una volta che D-o può creare tutto, ma nulla che sia contro le leggi logiche.” Ludwig Joseph Wittgenstein

INTRODUZIONE

“Un Castello di Carte – Il caso Buoninconti Ceste, eziopatogenesi di un errore giudiziario” è un testo nel quale ho riassunto il percorso che ha condotto alla condanna di un innocente de facto in un caso di morte per cause accidentali.

Il 24 gennaio 2014 Michele Buoninconti ha denunciato la scomparsa di sua moglie Elena Ceste, madre dei suoi quattro figli. Nei giorni seguenti sia lui che i parenti più stretti e alcuni conoscenti hanno rilasciato interviste televisive che mi hanno permesso di cominciare a ricostruire ciò che poteva essere successo alla Ceste. Dai racconti di familiari e conoscenti si inferiva che la donna era affetta da un disturbo psicotico che datava da mesi e che rendeva molto probabile l’allontanamento volontario, ma naturalmente non escludeva le altre ipotesi. Lo stato in cui versava l’abitazione dei coniugi Buoninconti dopo la scomparsa di Elena era di supporto all’ipotesi che la donna si fosse allontanata non appena i suoi congiunti avevano lasciato l’abitazione, un sopralluogo dei carabinieri aveva infatti accertato che la casa era nelle stesse condizioni in cui l’avevano lasciata Buoninconti e i suoi figli prima di recarsi in paese. Buoninconti aveva inoltre riferito di aver trovato e raccolto gli abiti che sua moglie aveva abbandonato in giardino e proprio il fatto che la Ceste si fosse spogliata e allontanata nuda era compatibile con il disturbo psichico del quale la donna soffriva, è, infatti, frequente che un soggetto psicotico si denudi e intraprenda una “fuga”. Infine, l’analisi del comportamento di Buoninconti di quella mattina e l’analisi delle sue dichiarazioni deponevano per l’assenza di un suo coinvolgimento nella scomparsa della moglie.

Dopo circa 9 mesi dalla scomparsa della Ceste, il 18 ottobre 2014, alcuni operai addetti alla bonifica di un’area del Rio Mersa ritrovarono i suoi resti a poche centinaia di metri da casa Buoninconti. L’analisi dei resti non rilevò lesioni compatibili con le più comuni cause di morte violenta e non permise di risalire alla causa della morte della Ceste. Quel ritrovamento a poche centinaia di metri da casa e le risultanze autoptiche non potevano che supportare l’ipotesi che Elena si fosse allontanata volontariamente in preda ad una crisi psicotica e avesse involontariamente trovato la morte. L’assenza di segni di una colluttazione su Buoninconti e nella casa che condivideva con la Ceste, l’assenza di fango all’interno delle auto di Buoninconti, l’assenza di fango sulle sue scarpe e sui suoi abiti, l’assenza di graffi sul suo volto e sulle sue mani e l’assenza di reperti compatibili con il trasporto di un cadavere su una delle due auto in uso a Buoninconti mi hanno permesso di escludere che egli abbia aggredito ed ucciso sua moglie Elena e che ne abbia poi nascosto il corpo.

Pochi giorni dopo il ritrovamento dei resti della Ceste, il 31 ottobre 2014, ho pubblicato un articolo sul mio blog di criminologia MALKE CRIME NOTES nel quale ho motivavo il mio convincimento riguardo all’assenza di un coinvolgimento di Buoninconti nella scomparsa della moglie e ho sostenuto, invece, che la morte della Ceste non poteva che essere una conseguenza del disturbo psichico del quale la donna soffriva da qualche mese: la mattina del suo allontanamento Elena era in preda ad una crisi psicotica.

All’indomani dell’arresto di Michele Buoninconti, avvenuto il 29 gennaio 2015, ho creduto di non essere a conoscenza di gravi indizi di colpevolezza che avevano indotto gli inquirenti ad applicare la misura coercitiva e che avrei trovato valide ragioni nell’Ordinanza emessa dal gip di Asti Giacomo Marson, ed invece, alla lettura della stessa, ho avuto la conferma che la mia ricostruzione dei fatti della mattina della scomparsa era giusta.

Circa due settimane dopo quell’arresto, il 15 Febbraio 2015, sono stata nominata consulente della difesa di Michele Buoninconti, che ho assistito fino alla definitiva sentenza di condanna a 30 anni di carcere emessa dalla Corte Suprema di Cassazione, una sentenza che ha cristallizzato l’errore commesso dal giudice del primo grado Roberto Amerio e dai giudici della Corte d’Appello di Torino.

Con il testo che segue intendo fornire a chi lo desidera i mezzi per superare il pregiudizio nei confronti di Michele Buoninconti e per addivenire alla verità su questo sfortunato caso giudiziario, una verità che è agli atti e che né il processo mediatico, né le condanne hanno potuto alterare. “Le verità non si distruggono negandole”, diceva l’ottimo penalista campano Giovanni Porzio.

La procura di Asti ha scambiato un semplice caso di allontanamento volontario per un omicidio. L’errato convincimento che Elena non potesse essersi denudata e poi nascosta in quel rio volontariamente e che Michele Buoninconti mentisse sulle reali condizioni psichiche della moglie, nonostante le innumerevoli testimonianze a conforto del suo racconto e l’assenza di dati che avvalorassero l’ipotesi omicidiaria, ha viziato irrimediabilmente le indagini.

L’idea infondata che Elena Ceste non potesse essersi allontanata volontariamente nuda da casa è il frutto della “Tunnel Vision” che ha colpito chi indagava. La “Tunnel Vision” è un pregiudizio cognitivo che colpisce gli inquirenti nelle prime fasi delle indagini ed è rappresentabile come una visione centrale ristretta.

Voglio farvi una confidenza, mentre scrivevo la mia consulenza, o rispondevo a domande sul caso, o integravo il testo che segue, mi sono spesso chiesta da dove mi venisse la forza di scrivere cose tanto logiche da apparire scontate.

L’ALIBI

La ricostruzione dei movimenti di Michele Buoninconti in accordo con le risultanze investigative

La mattina del 24 gennaio 2014, dopo colazione, Michele Buoninconti uscì di casa con i suoi figli per accompagnarli a scuola. Sua moglie Elena Ceste raggiunse il resto della famiglia in cortile e, pochi istanti prima che i suoi congiunti lasciassero l’abitazione, parlò con il marito Michele, in quel frangente i bambini si trovavano già in auto.

Buoninconti ed i suoi figli si allontanarono dalla loro casa sita nelle campagne che circondano Costigliole d’Asti, strada San Pancrazio 10, intorno alle 8.10.

Dopo aver accompagnato i bambini a scuola, Buoninconti si recò in paese, in comune, per chiedere informazioni sulla rata dell’IMU e poi si fermò all’ambulatorio del medico di famiglia per controllare gli orari di ricevimento del sostituto in quanto aveva intenzione di far visitare sua moglie.

Dopo essere stato inquadrato dalla telecamera della farmacia comunale, alle ore 8.37, Buoninconti presa la via di casa. Secondo una tabella oraria redatta dalla Legione dei carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Asti, datata 6 febbraio 2014, Buoninconti rientrò a casa intorno alle ore 8.45.

Dopo aver aperto il cancello ed essere entrato in cortile con l’auto, sopra il tombino posto di fronte al portone d’ingresso, Michele Buoninconti trovò il maglione ‘tipo Missoni’ che Elena indossava quella mattina e, sotto il maglione, le ciabatte della donna. Tale inusuale rinvenimento lo preoccupò. Proprio perché aveva trovato il maglione e le ciabatte di Elena in giardino, Michele credette che sua moglie si trovasse all’esterno e lì la cercò inizialmente.

Dopo aver cercato Elena sia in cortile che in casa, Buoninconti chiamò i vicini, parlò prima con la vicina M. C., le riferì che Elena aveva dormito male e le chiese se l’avesse vista. Michele Buoninconti chiamò la vicina M. C. alle ore 8.55.04. Durante la telefonata, della durata di 29 secondi, il telefonino di Buoninconti agganciò la cella 2416 di pertinenza dell’area in cui si trova casa sua. La vicina M. C. riferì a Michele di non aver visto Elena, egli allora si mosse per cercarla, uscendo dal cancello della sua villetta ritrovò il resto degli abiti che Elena Ceste aveva indossato quella mattina, si accorse infatti che il cancello vi urtava contro, li raccolse e li mise in auto con l’idea di rivestire sua moglie una volta che l’avesse ritrovata.

Le telefonate ai vicini

Alle 8.57.28 Buoninconti chiamò gli altri vicini, i R., sul telefono fisso, in quell’occasione il suo telefono agganciò ancora la cella 2416 di pertinenza dell’area in cui si trova casa sua. I vicini non fecero in tempo a rispondere al telefono che Michele gli citofonò e mentre parlava con il capofamiglia A. R. fu visto da M. C., che lui aveva allertato in precedenza e che quindi aveva ragione di notarlo.

E’ facile inferire dunque che Buoninconti dopo le 8.57.28 si trovasse ancora vicino a casa, per l’esattezza davanti al cancello del vicino A. R.

Dopo aver parlato con il vicino A. R. Michele risalì in auto e fece un primo giro esplorativo di pochi minuti tra Motta ed Isola d’Asti.

In sintesi: prima di cercare Elena lontano da casa, Buoninconti volle logicamente accertarsi che la moglie non fosse dai vicini o quantomeno sperò che i vicini potessero fornirgli delle indicazioni per ritrovarla.

La ricostruzione dell’accusa

Proviamo a mettere a confronto la mia ricostruzione dei fatti con quella della procura di Asti: secondo l’accusa Michele Buoninconti rientrò a casa, uccise sua moglie con premeditazione, caricò il suo cadavere in auto e chiamò i vicini mentre si stava dirigendo al Rio Mersa dove intendeva nascondere il corpo, a poche centinaia di metri da casa.

Già da subito la ricostruzione della Procura non può che apparire debole. Non vi pare infatti improbabile che un soggetto deciso ad occultare il cadavere di sua moglie a poche centinaia di metri da casa allerti i propri vicini correndo così il rischio di essere visto? E poi, non vi pare improbabile che, dopo aver ucciso sua moglie, un vigile esperto di ricerche di dispersi ne getti il cadavere a poche centinaia di metri da casa per poi descriverla come una donna in stato confusionale, senza vestiti e senza occhiali? Non avrebbe forse così corso il rischio che la trovassero posto che la sua descrizione di Elena non poteva che essere un invito a cercarla proprio vicino a casa? E dunque vi pare logico che un esperto come Buoninconti abbia premeditato un omicidio ma non l’occultamento? Voglio precisare che non si può parlare neanche di occultamento, semmai di semi occultamento, non si può infatti affermare che il cadavere della Ceste fosse stato occultato solo perché non fu ritrovato dai soccorritori.

L’alibi per il presunto occultamento

E ora vi spiego perché posso affermare con certezza che Michele Buoninconti non chiamò i vicini mentre si stava dirigendo al Rio Mersa, così come ipotizzato dalla Procura, ma chiamò invece la vicina M. C., alle 8.55.04, da casa propria e l’altro vicino A. R. mentre si trovava in auto sulla strada che conduce a casa dello stesso, tanto che gli suonò il campanello mentre gli stava telefonando e poi parlò con lui dal cancello. E’ stato A. R. infatti a riferire di aver sentito suonare il proprio telefono fisso e il proprio campanello in contemporanea, di non aver fatto in tempo a rispondere al telefono, ma di aver parlato con Michele dopo che lo stesso si era presentato al cancello e aveva suonato il campanello. E fu proprio in quell’occasione che M. C., la prima vicina allertata da Michele, vide dalla finestra Buoninconti che parlava con A. R. dal cancello. E’ questa la chiave del caso Buoninconti: poiché Buoninconti chiamò A. R. alle 8.57.28 e al contempo suonò il campanello di casa dello stesso, a quell’ora non poteva che trovarsi davanti a casa di A. R. e non sulla strada che conduce al luogo del rinvenimento dei resti della moglie, come ipotizzato dalla procura. E’ un dato cruciale perché, se com’è provato, Buoninconti si diresse nell’area del Rio Mersa solo dopo le 8.57.28, egli non può avere mai avuto il tempo materiale per raggiungere il punto dove sono stati trovati i resti della Ceste e per occultarne il corpo.

TABULATI TELEFONICI E TESTIMONIANZE

Questa ricostruzione è frutto dell’analisi in parallelo delle seguenti testimonianze dei vicini e dei tabulati telefonici:

La vicina M. C. ha riferito ai carabinieri quanto segue: “Entro in casa, mi preparo un caffè, ho avviato le pulizie di casa, poco dopo ha suonato il telefono di casa, era Michele…. torno alle faccende, ricordo che avevo la tazza del caffè in mano e dalla finestra ho visto Michele che parlava con i comuni vicini famiglia Rava (…) rispetto alla telefonata saranno passati poco più di 5 minuti’. (pag. 3, Verbale di assunzione di informazioni di M. C. del 20 marzo 2014).

Il vicino A. R., sentito pochi giorni dopo i fatti, il 6 febbraio 2014, ha riferito agli inquirenti quanto segue: “Verso le 9.05 circa sentivo suonare il campanello di casa con insistenza e sentivo anche suonare il mio telefono di casa (…) era il mio vicino di casa Buoninconti Michele con la sua autovettura di colore bianco il quale mi chiedeva se sua moglie Elena fosse a casa mia (…)”.

La figlia di A. R., sentita dai Carabinieri cinque giorni dopo la scomparsa di Elena, ha riferito di aver saputo dalla madre che Michele si era recato dai suoi genitori poco prima delle 9.00: ’A mia mamma lo aveva detto Michele, che si era recato a cercarla a casa di mia mamma, ritengo poco prima delle 9.00’. (pag. 1, Verbale di Sommarie Informazioni di F. R. del 29 gennaio 2014).

I tre testi hanno riferito orari approssimativi: la vicina M. C. ha detto di aver visto Michele che parlava con i R. “poco più di 5 minuti” dopo le 8.55.04; A. R. ha fornito un orario approssimativo collocando la scampanellata e la telefonata di Buoninconti “verso le 9.05 circa”; la figlia di A. R. ha invece detto che “Michele si era recato dai suoi genitori poco prima delle 9.00”. Per ricostruire con precisione i movimenti di Buoninconti bastava però analizzare i tabulati telefonici che forniscono un dato scientifico insuperabile, ovvero l’orario esatto della telefonata e della contemporanea scampanellata ad A. R., le 8.57.28.

L’errore dell’accusa

Dunque Buoninconti non parlò con A. R. né alle 9.05, né alle 9.08, come ipotizzato dall’accusa e dal suo consulente, il geometra Dezzani, Buoninconti parlò con A. R. subito dopo averlo chiamato al telefono alle 8.57.28. Un dato cruciale, che scagiona Buoninconti e che è stato inspiegabilmente ignorato dalla procura.

In sintesi: Michele chiamò A. R. alle 8.57.28 e, dato che il campanello e il telefono dei R. suonarono in contemporanea, Buoninconti a quell’ora non poteva che trovarsi proprio di fronte a casa R. dove lo vide dalla finestra la vicina M. C. da lui allertata poco prima. Pertanto non può che essere errata la seguente inferenza dell’accusa “all’atto in cui aveva telefonato a M. (8.55.04 ndr) doveva trovarsi già fuori casa nel tragitto verso il luogo già scelto per il definitivo occultamento del cadavere (Richiesta di misura coercitiva, pag 161).” Come abbiamo visto infatti Michele si diresse nell’area del Rio Mersa dopo essere passato da casa di A. R., dopo avergli suonato il campanello e avergli parlato, quindi dopo le 8.57.28 e non prima, come ipotizzato dalla procura.

Dunque se Buoninconti non ha mai avuto il tempo materiale per occultare il corpo della Ceste nel luogo del rinvenimento dei suoi resti, evidentemente non l’ha uccisa e la spiegazione dei fatti è un’altra.

L’analisi delle celle telefoniche

Ho analizzato personalmente i dati relativi alle celle telefoniche, la difesa ha infatti depositato una consulenza tecnica solo due mesi dopo che era stata depositata la mia consulenza criminologica.
Lo studio delle celle telefoniche permette di escludere che Michele Buoninconti abbia occultato il cadavere di sua moglie.

Le telefonate di Buoninconti

Michele telefonò alla vicina M. C. alle 8.55.04, parlò con lei 29 secondi. Durante questa telefonata agganciò sempre la cella 2416 che copre casa Buoninconti Ceste, non si può pertanto affermare che fosse in movimento verso Isola d’Asti, area coperta dalla cella 2415 che copre anche il luogo del rinvenimento dei resti della Ceste.

Alle 8.57.28 Michele telefonò al vicino A. R., che non rispose, agganciò ancora la cella 2416 che copre casa Buoninconti Ceste.

Buoninconti telefonò poi a sua moglie Elena alle 9.01.48, il telefono squillò per 60 secondi, agganciò inizialmente la stessa cella delle telefonate ai vicini, la cella 2416, che copre casa Buoninconti Ceste, e in finale, alle ore 9.02.50, la cella 2415 che copre l’area del Rio Mersa. Pertanto possiamo affermare che alle 9.02.50 Buoninconti si trovava nell’area di copertura della cella 2415, ma non che fosse già in movimento verso Isola d’Asti prima delle 8.57.28, come erroneamente sostenuto dal geometra Dezzani. Anzi sappiamo invece che in quell’orario, le 8.57.28, mentre Michele chiamava il vicino A. R. al telefono fisso, si trovava al cancello di casa di A. R. intento a suonargli il campanello.

Infine Buoninconti telefonò ad Elena alle 9.03.14, il telefono squillò per 60 secondi, agganciò inizialmente la cella 2415 che copre l’area di Isola d’Asti e al termine della chiamata, alle ore 9.04.16, la cella 2416 che copre casa Buoninconti Ceste.

Secondo i calcoli dei consulenti dell’accusa: da casa Buoninconti Ceste al luogo del ritrovamento dei resti della Ceste si impiegano 2 minuti e 30 secondi oppure, passando per la discoteca, 1 minuto e 30 secondi.

Buoninconti non si trovava nell’area di pertinenza della cella 2415 quando ve lo colloca l’accusa

Durante le telefonate ai vicini, quella delle 8.55.04 a M. C. e quella delle 8.57.28 ad A. R., il telefono di Michele Buoninconti agganciò la cella di casa sua, la 2416 ed agganciò ancora la stessa cella 2416 alle 9.01.48, durante la prima telefonata ad Elena, telefonata che terminò alle 9.02.50 agganciando invece la cella 2415 di Isola d’Asti, quindi è facilmente intuibile che solo durante la prima telefonata ad Elena Michele fosse in movimento verso Isola d’Asti, non si può invece affermare che lo fosse durante le telefonate ai vicini, né che egli si trovasse nell’area del Rio Mersa dove è stato ritrovato il corpo della moglie prima di quella prima telefonata ad Elena.

Nulla supporta la ricostruzione della procura

Nulla supporta quindi la ricostruzione della procura che vuole Michele Buoninconti in movimento in auto verso Isola d’Asti prima della telefonata delle 8.57.28, telefonata che non solo agganciò la cella di casa Buoninconti Ceste, la 2416, ma che fu fatta in contemporanea con la scampanellata al vicino A. R., scampanellata che colloca Michele sotto casa di A. R. alle 8.57.28, un dato completamente ignorato dall’accusa.

Ipotizziamo ora che Buoninconti abbia percorso la via più breve per raggiungere il luogo del presunto occultamento: egli si sarebbe dovuto muovere verso il Rio Mersa necessariamente almeno 1 minuto e 30 secondi prima delle 9.02.50, ovvero intorno alle 9.01.20, in quanto agganciò alle 9.02.50 la cella 2415 di Isola d’Asti.

Buoninconti dunque non ebbe neanche il tempo materiale per raggiungere il luogo del ritrovamento dei resti di sua moglie Elena, da casa sua avrebbe infatti impiegato almeno 3 minuti per andare e tornare, se non 5. L’analisi dei dati relativi alle celle telefoniche prova soltanto che egli transitò in quella zona, egli infatti tornò ad agganciare la cella di casa sua, la 2416, 1 minuto e 26 secondi dopo, alle 9.04.16.

Non stupisce che Buoninconti abbia cercato sua moglie vicino a casa

Non si stupisca il lettore per il fatto che Buoninconti abbia cercato sua moglie anche nell’area del Rio Mersa, il Rio Mersa si trova infatti vicino a casa sua ed egli pensò che, nuda ed in difficoltà, non potesse essersi allontanata molto.

Dunque il primo giro di perlustrazione di Buoninconti, che iniziò dopo aver parlato con il vicino A. R., al quale suonò il campanello alle 8.57.28, e che durò pochissimi minuti, è tecnicamente compatibile con il racconto di Michele agli inquirenti.

A pag. 143 della Richiesta di misura cautelare in carcere si legge “una volta disfattosi del cadavere della moglie avvicinandosi in macchina al greto del rio, quindi gettata nel corso d’acqua trattenendola sommersa nel fango, (Buoninconti) era salito nuovamente a bordo del mezzo (…)”. Ed invece non solo le risultanze dell’analisi dei dati delle celle telefoniche prova che Buoninconti non occultò il cadavere della moglie, ma la procura non ci ha mai spiegato come fece Michele a trattenerne il corpo sotto il fango senza sporcarsi le scarpe, gli abiti e le mani e senza sporcare di fango l’abitacolo dell’auto. Aggiungo che all’interno delle auto di Buoninconti i RIS non hanno repertato nulla che possa supportare l’ipotesi che vi abbia trasportato il cadavere di sua moglie.

La telefonata allo zio di Elena è anch’essa cruciale

Dopo il suo primo “giro veloce” Buoninconti, alle 9.06.59, chiamò O. C., zio di Elena, in quell’occasione il suo telefonino agganciò ancora la cella di casa sua, la 2416, la telefonata durò 57 secondi e terminò alle 9.07.56. Michele telefonò ad O. C. mentre stava dirigendosi in auto a Govone. Buoninconti andò a Govone in quanto era convinto di poter trovare Elena sulle strade percorribili dalle auto. Non la cercò su quella che va verso Costigliole d’Asti in quanto l’aveva percorsa al suo ritorno dal paese e non aveva incrociato sua moglie.

Secondo il geometra Giuseppe Dezzani, consulente della procura, Michele parlò con il vicino A. R. al termine della telefonata allo zio O., alle 9.08, e non alle 8.57.28, come si può invece facilmente inferire analizzando in parallelo le testimonianze dei vicini e i tabulati telefonici.

I tempi di percorrenza e le successive celle agganciate dal telefonino di Buoninconti smentiscono Dezzani e ci dicono invece che Michele telefonò ad O. dall’auto mentre si trovava sul tragitto per Govone. Egli infatti non avrebbe fatto in tempo ad agganciare la cella di Castagnole delle Lanze già alle 9.09.53 e quella di Govone alle 9.10.32, 2 minuti e 36 secondi dalla fine della telefonata allo zio Oreste, e quella di San Martino Alfieri alle 9.13.03 e alle 9.14.12 quella di Isola d’Asti se si fosse fermato a parlare con A. R. alle 9.08.

Si evince quindi dagli orari delle telefonate ai telefoni fissi, dalle celle telefoniche agganciate e dalle testimonianze dei vicini, che Michele quella mattina non solo non ebbe il tempo di occultare un cadavere, ma neanche quello di raggiungere il luogo del ritrovamento dei resti della Ceste. Michele si avvicinò soltanto a quell’area per una rapida supervisione, per vedere se non ci fossero impronte umane, non vi si trattenne in quanto era intimamente convinto, a torto, che sua moglie non si sarebbe inoltrata nelle strade di campagna.

Nessuno occultamento, nessun delitto

Mi sono dilungata nell’analisi delle celle telefoniche perché proprio il fatto che Buoninconti non abbia avuto il tempo materiale di occultare il corpo della moglie permette di escludere che egli abbia commesso un omicidio. In sintesi: Buoninconti ha un alibi per il presunto occultamento e dunque la causa della morte della Ceste va cercata altrove.

Aggiungo che la mia ricostruzione spiega le telefonate ai vicini, altrimenti ingiustificabili. Buoninconti pensò che, essendo in difficoltà, sua moglie potesse essere a casa di uno di loro e li chiamò sui telefoni fissi perché soltanto nel caso fossero stati a casa avrebbero potuto aiutarlo. Michele è credibile quando sostiene di non aver chiamato i vicini sui cellulari per non perdere tempo in inutili spiegazioni nel caso i suoi interlocutori non fossero stati a casa, egli infatti era focalizzato nella disperata ricerca di sua moglie Elena e non intendeva perdere tempo in chiacchiere.

Da un punto di vista criminologico appare d’altronde alquanto illogico che un soggetto al suo primo delitto, secondo l’accusa un faticoso omicidio per asfissia, nel giro di pochi secondi sia pronto a mettere il corpo della sua vittima in auto e, prima di averne occultato il corpo, non solo perda tempo al telefono con i vicini di casa ma li allerti prima di nasconderlo a poche centinaia di metri da casa incrementando il rischio di essere visto alle prese con un cadavere in una zona così vicina alla propria abitazione.

La telefonata al padre di Elena

Buoninconti già alle 9.14.12 era sulla strada del ritorno da Govone e il suo telefonino agganciò nuovamente la cella 2415 di Isola d’Asti. Alle 9.22.18 telefonò alla famiglia di P. S. T. ma nessuno gli rispose, in quell’occasione il suo telefono agganciò la cella telefonica 2416 che copre casa Buoninconti Ceste; alle 9.30 circa si recò a casa della vicina M. C. e la invitò a cercare Elena a Motta e lui si diresse nuovamente verso Govone. Questa volta cercò Elena sulla strada ad andatura moderata, un dato inspiegabilmente interpretato a suo sfavore. Durante questo secondo viaggio verso Govone, alle 9.33.39, all’altezza del ponte sul Tanaro, Buoninconti chiamò il padre di Elena, Franco Ceste. Michele, dopo i primi minuti di ricerche disperate, crollò psicologicamente e pianse. E’ facilmente intuibile il motivo per il quale non abbia chiamato i genitori di Elena fino a quel momento: Buoninconti aveva sperato di poter ritrovare sua moglie così da non doverli avvisare della scomparsa di sua moglie, tra l’altro vissuta come un fallimento.

Alle 9.37.59, Buoninconti chiamò la sorella di Elena, D. C., alle 9.45 ed alle 9.48.15 chiamò il cognato D. P. Al suo ritorno da Govone, intorno alle 10.00, si recò dal parroco, incontrò M. e R. in strada ed infine cercò ancora Elena in casa, questa volta con l’aiuto di M. In quell’occasione Michele, come riferito dalla testimone, cercò pure nel cofano della sua auto. Non stupisce. Michele aveva capito che Elena non stava bene e che avrebbe potuto essersi nascosta da qualche parte. Michele fece cose illogiche in quanto ipotizzò che sua moglie non fosse in sé e non a torto posto che si era denudata. Infine Buoninconti contattò il 118 sperando che qualcuno avesse trovato Elena e l’avesse accompagnata in ospedale e poi, intorno alle 10.30, si recò alla stazione dei carabinieri.

Il perché delle telefonate di Michele ad Elena

Buoninconti la mattina della scomparsa non chiamò mai volontariamente Elena sul telefonino in quanto lo trovò al suo ritorno a casa, dopo averla cercata in cortile. Buoninconti attivò inavvertitamente le 5 telefonate dirette al telefonino della moglie, telefonino che prese con sé solo intorno alle ore 9.30. Sono proprio le celle agganciate da quelle 5 telefonate ad Elena ad aiutarci a ricostruire i movimenti di Buoninconti e a permetterci di escludere un suo coinvolgimento nella scomparsa della moglie.

Il processo di revisione

Un processo di revisione non potrà che fondarsi proprio sull’alibi di Buoninconti per il presunto occultamento, è stata infatti ignorata dal consulente dell’accusa, dalla procura e da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso in cui una morte accidentale in seguito ad un allontanamento volontario è stata scambiata per omicidio, la prova regina della estraneità ai fatti dell’indagato. In sintesi: proprio nei minuti in cui la procura ritiene fosse al Rio Mersa ad occultare il corpo di sua moglie, Michele Buoninconti si trovava sotto casa del vicino A. R., un dato immarcescibile sorretto dai dati scientifici facilmente estrapolabili dai tabulati telefonici e dalle testimonianze dei vicini, soprattutto quella dello stesso A. R. che colloca Michele sotto casa sua alle 8.57.28, nel momento in cui sentì suonare sia il telefono fisso che il campanello di casa.

Perché la procura non ha mai messo a confronto l’orario approssimativo fornito dal teste A. R. (“Verso le 9.05 circa”) con l’orario esatto della telefonata di Michele al suo telefono fisso (8.57.28), orario esatto che emergeva dai tabulati telefonici, e che scagionava Buoninconti in quanto lo collocava di fronte a casa di A. R. alle 8.57.28 intento a suonargli il campanello e non “in un’area compresa tra l’abitazione e la statale Asti- Alba”, come affermato dal consulente della procura geometra Dezzani? Perché la procura non ha messo in dubbio la ricostruzione del geometra Dezzani che colloca Buoninconti di fronte a casa di A. R. alle 9.08, un orario incompatibile con l’aggancio successivo della cella di Castagnole delle Lanze già alle 9.09.53 e quella di Govone alle 9.10.32 da parte del suo telefonino?

ELENA CESTE ERA AFFETTA DA UN DISTURBO PSICOTICO

L’autopsia psicologica

Questo capitolo tratta delle condizioni psichiche di Elena Ceste nelle ore e nei mesi che precedettero la sua scomparsa. L’autopsia psicologica permette di ricostruirne il profilo psicologico e lo stato mentale di un soggetto a posteriori e di valutare se le sue condizioni psichiche abbiano avuto un ruolo nella sua scomparsa/morte. Ed è proprio attraverso l’analisi delle testimonianze di parenti, amici e conoscenti che si può giungere a formulare una eventuale diagnosi oppure escludere che un disturbo psichico abbia avuto un ruolo nei fatti oggetto d’indagine.

La consulenza dello psichiatra dell’accusa

All’indomani della scomparsa di Elena Ceste la procura si avvalse dell’aiuto dello psichiatra dottor Elvezio Pirfo. A pag. 38 della sua consulenza si legge: “è possibile affermare che all’epoca dei fatti per cui si indaga sussistesse un’incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, un abbassamento intellettuale e delle capacità di critica tali da indurre una condizione di deficienza psichica” e a pag. 33: “Quando nel pensiero di Elena si insinua il sospetto che qualcuno renda noto il suo mondo nascosto di affetti e incontri, Elena Ceste perde il controllo. Il sistema difensivo che l’ha accompagnata per quasi quarant’anni si sgretola, rovinata l’immagine, non sa come esistere, è condannata anche e soprattutto da un arcaico mondo normativo che convive con l’immaturità dei sentimenti. Di qui la crisi psicotica, le proiezioni ed i diffusi spunti deliranti, che le fanno perdere ogni controllo sul dato reale, chiusa in una mente interpretativa che non può più ricevere informazioni e rassicurazioni dall’esterno”. Infine, lo stesso consulente della procura ha sostenuto a pag. 41 della sua consulenza che Elena era affetta da “un disturbo di personalità dipendente che poteva indurle una condizione di deficienza psichica e l’evoluzione di questo disturbo poteva prevedere lo sviluppo di fenomeni depressivi clinicamente significativi capaci di indurle non tanto una strategia razionale e programmatica per la commissione di gesti autolesivi quanto invece modalità di disfunzionamento psichico a porre in essere scelte e/o comportamenti che possano essere di nocumento alla persona stessa alla stessa persona”.

Una volta ritrovati i resti della Ceste privi degli abiti, nonostante la consulenza di cui sopra, perché la procura ipotizzò l’omicidio invece di leggere nel denudamento una conferma della psicosi? E’ scientificamente provato infatti che “i soggetti in preda al delirio ed alle allucinazioni possono mettere in atto comportamenti imprevedibili di tipo grossolanamente disorganizzato, ovvero condotte strane con carattere d’impulso, immotivate, irrazionali, inutili, insensate, assurde, tra queste si riscontrano smorfie, stereotipie, automatismi verbali, fughe senza meta, denudamento, suicidio e delitti senza scopo (Ugo Cerletti, Scritti sull’elettroshock, Roberta Passione, Franco Angeli Editore)”.

La ricostruzione dei movimenti di Elena Ceste e del suo stato psichico in accordo con le risultanze investigative

L’analisi delle risultanze investigative permette di concludere senza ombra di dubbio che tra le 8.10 e le 8.15 del 24 gennaio 2014 Elena Ceste si allontanò da casa in preda ad una crisi psicotica caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio.

La mattina del 24 gennaio 2014, dopo la colazione, dopo aver accompagnato i bambini ed il marito all’auto, Elena rientrò in casa, si tolse la giacca che Michele le aveva messo sulle spalle, premette il pulsante di apertura del cancello automatico, uscì di nuovo, si tolse gli abiti in due tempi, prima le ciabatte ed il maglione che lasciò sul tombino di fronte alla porta di casa, quindi si avvicinò al cancello per impedire che si chiudesse e finì di denudarsi, in pochi secondi attraversò la strada asfaltata, sì inoltrò nei campi, si nascose in un tunnel di cemento del Rio Mersa e vi trovò la morte per assideramento.

Elena era in preda ad un delirio persecutorio e si nascose ai suoi immaginari persecutori proprio dove sono stati ritrovati i suoi resti.

Il rinvenimento dei resti della Ceste ad una distanza ridotta dall’abitazione e il fatto che non fossero propriamente occultati sono di supporto alla tesi dell’allontanamento volontario.

La Ceste impiegò pochi secondi per attraversare la strada

La procura ha sostenuto che “In merito all’infondatezza della tesi di allontanamento coattivo è da ribadire quanto già si è detto a proposito del fatto che nessuna delle persone che sono solite transitare nella zona ha notato alcunché di anomalo (…) Neppure i vicini hanno rilevato stranezze di sorta, neppure essendosi registrate reazioni da parte del cane di proprietà della famiglia.”

La strada asfaltata di fronte a casa Buoninconti Ceste non è un’arteria maggiore di transito ma è invece una strada minore di un’area periferica della cittadina di Costigliole d’Asti. Sfortunatamente nessun automobilista assistette alla fuga della Ceste nuda nei campi in quanto nessuno passò sulla strada di fronte alla sua abitazione in quella manciata di secondi che le servirono per raggiungere la strada sterrata che si inoltra nei campi, campi che, poiché era gennaio, non erano frequentati.

Una teste vide Elena vestita in modo inadeguato per quelle temperature

Elena si allontanò da casa subito dopo che la testimone R. R. la vide, ovvero tra le 8.10 e le 8.15. La teste R. R. ha riferito agli inquirenti che la Ceste era vestita in un modo non adeguato al clima di quella mattina. Quando la testimone la notò, la Ceste era appena uscita in cortile dopo essere rientrata in casa ed essersi liberata della giacca che Michele le aveva messo sulle spalle e aver aperto il cancello con il pulsante automatico.

La Ceste si allontanò non appena Michele e i bambini se ne andarono, lo provano la testimonianza di R. R., che la vide mentre cominciava a denudarsi, e il fatto che non si occupò delle faccende domestiche. Michele trovò infatti al suo ritorno la casa nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciata, i letti dei ragazzi ancora da rifare e le tazze della colazione ancora da lavare. Elena premeditava di scappare, lo aveva già annunciato al figlio più piccolo poco prima che lo stesso lasciasse l’abitazione con il padre e proprio mentre rifacevano insieme il letto matrimoniale.

E dunque, non solo il rinvenimento dei resti della Ceste ad una distanza ridotta dall’abitazione e il fatto che non fossero propriamente occultati, ma anche il fatto che la teste R. R. abbia notato che Elena era vestita in modo inadeguato per quella stagione e il fatto che la stessa non si fosse dedicata alle faccende domestiche sono di supporto alla tesi dell’allontanamento volontario.

I movimenti dei vicini

Dalle testimonianze agli atti si ricavano gli orari in cui si spostarono i vicini di casa dei coniugi Buoninconti, dall’analisi di questi orari si evince il perché nessuno di loro vide Elena allontanarsi da casa il 24 gennaio poco dopo le 8.10.

La vicina M. C. il 2 febbraio 2014 uscì in auto per accompagnare il figlio a scuola alle 7.15, alle 7.40 il pulmino del comune raccolse sua figlia, alle 7.40 il marito si allontanò per andare al lavoro. M. C. rientrò a casa alle 8.35 e svegliò il figlio rimasto a dormire intorno alle 9.30.

La moglie di A. R. alle 8.15 ancora dormiva.

Il vicino P. S. T. ha dichiarato di essere uscito da casa verso le 8.20 per buttare l’immondizia. La sua collaboratrice domestica ha riferito agli inquirenti di essere passata dalla Strada San Pancrazio (la strada dove si trova l’abitazione della famiglia Buoninconti) alle 8.30 circa. La moglie di P. S. T. ha dichiarato di essere rientrata a casa alle 9.45 dopo aver passato la notte a casa del proprio padre.

Elena si allontanò nuda da casa dopo che la maggior parte dei suoi vicini erano già usciti per recarsi al lavoro, o per accompagnare i propri figli a scuola, o prima che rientrassero. Ecco perché nessuno di loro la vide.

Lo psicotico sperimenta uno stato pre delirante, detto “wahnstimmung”

Nel momento in cui un delirio nasce o riprende, se svanito, lo psicotico sperimenta uno stato pre delirante detto “wahnstimmung” durante il quale capisce che sta accadendo qualcosa ma non riesce a metterne a fuoco i dettagli.

ll giorno dopo la scomparsa di Elena, il 25 gennaio 2014, sua sorella D. riferì agli inquirenti di aver parlato con Elena la mattina del 23 e che la stessa le aveva detto “di avere problemi alla testa, tant’è che io chiedevo se si trattasse di mal di testa od altro e lei non riusciva a spiegarsi. Sembrava volesse dire qualcosa ma non riusciva ad esprimersi bene”.

Quello descritto è uno stato pre delirante, detto “wahnstimmung”

Quei “problemi alla testa” e la sua incapacità “di spiegarsi” e di “esprimersi bene” erano il germoglio della crisi psicotica che la colpì poche ore dopo, crisi della quale fu testimone Michele Buoninconti nella notte tra il 23 e il 24 gennaio.

“non mi lasciano stare”

Nel pomeriggio del 23 gennaio Michele, che fu invitato a rientrare in casa dall’orto da uno dei figli perché la mamma non stava bene, trovò la moglie accovacciata in terra con le mani in testa che piangeva e si lamentava di alcune persone che non la “lasciavano stare” inviandole messaggi sul telefonino.

Non solo il racconto di Michele è compatibile con la descrizione di una crisi psicotica per quanto riguarda i contenuti del delirio persecutorio riferitogli da sua moglie, ma anche in quanto descrive la stessa in una posizione classica dei pazienti in preda alle allucinazioni, una posizione raccolta, di difesa.

Durante la notte si compose un quadro classico di psicosi

La Ceste non si era mai aperta con il marito fino al pomeriggio del 23 gennaio, quando ormai in preda al delirio, gli fece leggere i messaggi del comune amico D. S., messaggi che Michele interpretò come innocui. Buoninconti non diede peso a quei messaggi in quanto ritenne che il racconto della moglie non fosse logico (Verbale di sommarie informazioni di Michele Buoninconti del 4 aprile 2014, pag. 10).

A quella prima manifestazione pomeridiana psicotica del 23 gennaio, seguì un periodo di apparente tranquillità, finché, durante la notte, il quadro sintomatologico si arricchì delle allucinazioni uditive. Elena sentiva delle voci che le dicevano che non era una buona madre. Voci che lei tentava di scacciare picchiandosi sulla fronte tanto da arrossarsela. Inoltre il suo delirio persecutorio si fece più strutturato, i suoi persecutori, a suo dire, non solo non la lasciavano stare ma erano decisi a portarla via da casa, ad allontanarla dai suoi figli, il motivo ce lo spiegano le sue allucinazioni uditive che le ripetevano che non era una buona madre.

Dopo quella notte “difficile” la Ceste, nonostante apparisse serena, non accompagnò i figli a scuola seppure fosse compito suo, non lo fece perché non se la sentiva e questo fatto inusuale ed improvviso, confermato dai bambini, è la riprova che qualcosa in lei non andava. Quella mattina i figli non notarono nulla di anomalo nel comportamento della madre, ella infatti non aveva manifestato evidenti segnali di “squilibrio”, ma pochi minuti prima che i suoi familiari lasciassero l’abitazione, mentre i bambini si trovavano in auto, la Ceste invitò il marito a non portare i figli a scuola perché “ce li controllano”.

I figli di Elena e Michele non si accorsero del disagio psichico della loro madre perché la Ceste era in preda ad un delirio lucido senza alterazioni dello stato di coscienza che, nonostante la inducesse a dire cose senza senso, la faceva apparire “normale”.

L’allontanamento di Elena fu una risposta comportamentale al suo convincimento delirante

La Ceste, la mattina del 24 gennaio si denudò e, mossa dal timore di essere portata via da casa, timore che costituiva l’essenza del suo delirio, prese un’iniziativa, scappò e si nascose ai suoi fantomatici persecutori in un tunnel di cemento del Rio Mersa, inconsapevole, a causa della sua condizione psichica, che aveva viziato la sua capacità critica, che il freddo avrebbe potuto ucciderla.

Buoninconti non può essersi inventato la crisi psicotica

Michele Buoninconti descrisse con dovizia di particolari a familiari, inquirenti e giornalisti i sintomi che la moglie aveva cominciato a manifestare già dal pomeriggio del 23 gennaio e che si erano intensificati durante la notte. Quei sintomi, che Buoninconti non decifrò, ovvero un delirio persecutorio lucido senza alterazioni dello stato di coscienza, presente già dal pomeriggio del 23 gennaio, le allucinazioni uditive, il battersi sulla fronte per scacciarle, associati al denudamento che seguì e che precedette l’allontanamento della donna da casa, ci permettono di ricostruire un quadro psicotico che il signor Buoninconti non può essersi inventato.

Voglio farvi riflettere su un dettaglio non di poco conto: Buoninconti raccontò che la notte prima della scomparsa, la Ceste si era picchiata sulla testa tanto da farsi arrossare la fronte. Il picchiarsi sulla testa è una reazione di comune osservazione nei soggetti affetti dalle allucinazioni uditive, e Michele Buoninconti, non essendo un esperto, non poteva saperlo. Michele raccontò che Elena di picchiava sulla fronte perché lei mise in atto quel comportamento. Un dettaglio che prova che Buoninconti raccontò la verità su quella notte ai carabinieri e ai familiari.

Le dichiarazioni della sorella di Elena

Dalle dichiarazioni della sorella si evince anche che nei mesi precedenti alla sua scomparsa Elena era profondamente turbata: “(Elena) nel mese di novembre 2013 era caduta in uno stato di depressione (…) aveva esternato una sua preoccupazione o disagio circa un qualcosa che aveva fatto ma non specificava troppo (…) che quando lo aveva fatto non era in se stessa e aveva sbagliato. Era preoccupata perché diceva che tanto ormai sapevano tutti di cosa stava parlando e che anche i figli l’avrebbero vista come un mostro (…) non abbiamo avuto modo di verificare queste presunte cose dette (…) Credo comunque mia sorella possa aver compiuto un gesto anticonservativo.”

La sorella di Elena, tra l’altro, nella stessa occasione, ebbe a riferire agli inquirenti: “Michele caratterialmente è una persona buona che si dedica alla famiglia (…) non ho mai avuto confidenze da mia sorella circa situazioni di violenza o discussioni degenerate in famiglia (…) si preoccupa per il benessere della famiglia e non mi pare abbia mai trascurato i vari componenti. Anche con noi parenti non ha mai avuto discussioni.”

A pag. 17 della Richiesta di misura cautelare è riportata però solo una dichiarazione della sorella di Elena successiva a quella appena trascritta: “D. puntualizzava che si sentiva categoricamente di escludere un volontario allontanamento della sorella troppo attaccata e legata alla famiglia per abbandonarla d’impeto senza lasciare traccia di sé.”

Perché la procura ha scelto di citare, non la dichiarazione della sorella di Elena rilasciata il giorno dopo la scomparsa, che non poteva che essere scevra da influenze esterne: “Credo comunque mia sorella possa aver compiuto un gesto anticonservativo”, ma invece una sua dichiarazione successiva?

E dunque, sono le testimonianze della sorella e dello stesso Michele a permetterci di inferire che Elena cominciò a manifestare già dalla mattina del 23 gennaio i prodromi della crisi psicotica che la indusse ad allontanarsi da casa la mattina del giorno seguente.
Perché la procura non ha creduto al povero Buoninconti nonostante la consulenza dello psichiatra Pirfo fosse in linea con il suo racconto? Perché la procura ha ignorato le dichiarazioni iniziali della sorella di Elena nonostante il racconto della stessa fosse in linea con le conclusioni della consulenza dello psichiatra Pirfo?
Il fatto che la procura non abbia creduto al povero Buoninconti ed abbia ignorato le testimonianze iniziali della sorella ha impedito di chiudere il caso secondo la verità dei fatti. Non ci vuole infatti un esperto di psicologia della testimonianza per capire che le uniche dichiarazioni di cui la procura avrebbe dovuto servirsi sono quelle rilasciate nelle fasi iniziali delle indagini perché con il passare dei mesi il pensiero dei familiari, degli amici e dei testimoni è stato forgiato dal vergognoso processo mediatico che ha caratterizzato questo semplice caso di allontanamento volontario, complicandolo.

Le psicosi

La psicosi è una patologia psichiatrica che colpisce dall’1 al 2% della popolazione senza distinzione tra i sessi e si differenzia da soggetto a soggetto per età d’insorgenza, set di sintomi, gravità e prognosi. I sintomi della psicosi possono essere divisi grossolanamente in due categorie, sintomi “positivi” e sintomi “negativi”.

– Sono da considerarsi sintomi “positivi”: i disturbi della forma del pensiero (alterazioni del flusso ideativo, incoerenza, alterazioni dei nessi associativi, eloquio disorganizzato), i disturbi del contenuto del pensiero (deliri), i disturbi della senso percezione (dispercezioni ed allucinazioni uditive, visive, olfattive, tattili, cenestetiche, gustative), i disturbi comportamentali di tipo disorganizzato (movimenti bizzarri e denudamento).

– Rientrano tra i sintomi “negativi”: i sintomi autistici, la catatonia, la tendenza all’isolamento.

Per giungere ad una diagnosi non è necessario che tutti i sintomi di cui sopra si manifestino in contemporanea nel solito soggetto.

L’esordio subacuto della crisi psicotica

Le modalità d’esordio della psicosi sono variabili da soggetto a soggetto. Prima della vera e propria crisi psicotica possono manifestarsi i cosiddetti prodromi (o precursori), indici di un esordio subacuto della crisi identificabili in cambiamenti di umore, ritiro sociale, pensieri ossessivi e ritualità comportamentali.

I prodromi della crisi psicotica di Elena Ceste

Se è vero che Elena manifestò solo dal pomeriggio del 23 gennaio 2014 veri e propri sintomi psicotici, i prodromi della crisi si erano manifestati già nel mese di ottobre, epoca nella quale la Ceste era ancora socialmente competente.

Elena manifestò, alcuni mesi prima della crisi psicotica vera e propria, un profondo disagio emotivo e pensieri ossessivi specifici con neppur troppo sfumate idee di riferimento, lo si evince dalle testimonianze di parenti e conoscenti.

Nell’Ordinanza di applicazione di misura coercitiva del giudice Marson, diffusa su internet all’indomani dell’arresto di Michele Buoninconti, a pag 49/51, riguardo allo stato psichico di Elena in relazione a ciò che aveva confidato a parenti ed amici, si legge: “Lo scompenso… qualificato dai consulenti psicologi e psichiatri (della procura ndr) come di tipo psicotico proiettivo delirante veniva notato da tutti i suoi interlocutorii… si era presentata una crisi psicotica con proiezioni e diffusi spunti deliranti…”.

In autunno la Ceste confidò alla madre, alla sorella, all’amica F. R., all’amico G. A. e al parroco di Motta alcune sue paure. Nel mese di novembre rinfacciò all’amico D. S. alcuni messaggi apparsi su Facebook che le avrebbero fatto perdere la dignità (pag. 10, Richiesta di applicazione misura cautelare). Elena era convinta di essere stata “tradita da una vecchia conoscenza” e di “essere sulla bocca di tutti”.

I confidenti della Ceste, ascoltandola, a ragione, ebbero l’impressione che nei suoi racconti ci fosse qualcosa di anomalo, che i suoi racconti non fossero aderenti alla realtà.
Buoninconti dice il vero quando afferma di non essersi accorto del disagio della moglie prima del pomeriggio del 23 gennaio. A Michele, Elena nascose i tradimenti, e anche le angosce che le stavano provocando fino a poche ore prima della scomparsa. Solo in quelle ultime ore raccontò a Michele di essersi rivolta pure al parroco di Motta e di aver ricevuto da lui delle rassicurazioni.

Si inferisce quindi dai racconti dei suoi confidenti che, in autunno, nella psiche della Ceste si erano affacciati alcuni pensieri ossessivi persecutori, germe del delirio persecutorio manifestatosi durante la vera e propria crisi psicotica di fine gennaio.

Il consulente della procura, lo psichiatra Pirfo, fa invece risalire al periodo in cui io colloco i prodromi, una crisi psicotica vera e propria: “Quando nel pensiero di Elena si insinua il sospetto che qualcuno renda noto il suo mondo nascosto di affetti e incontri, Elena Ceste perde il controllo. Il sistema difensivo che l’ha accompagnata per quasi quarant’anni si sgretola, rovinata l’immagine, non sa come esistere, è condannata anche e soprattutto da un arcaico mondo normativo che convive con l’immaturità dei sentimenti. Di qui la crisi psicotica, le proiezioni ed i diffusi spunti deliranti, che le fanno perdere ogni controllo sul dato reale, chiusa in una mente interpretativa che non può più ricevere informazioni e rassicurazioni dall’esterno”.

Dunque, secondo lo psichiatra Pirfo quelli che io ho indicato come pensieri ossessivi persecutori erano invece i sintomi di una vera e propria crisi psicotica, poi spontaneamente superata.

Ipotizziamo che abbia ragione il dottor Pirfo, ipotizziamo che, in autunno, Elena abbia avuto una crisi psicotica risoltasi spontaneamente, è facile che in un soggetto non sottoposto a terapia farmacologica la crisi si ripresenti, e dunque, perché la procura ha escluso che la Ceste fosse stata colpita da luna nuova crisi psicotica tra il 23 e il 24 gennaio?

Ma torniamo alla mia ricostruzione dei fatti. Ai prodromi di ottobre/novembre seguì la crisi psicotica acuta di fine gennaio, crisi che precedette la fuga della Ceste.

Il denudamento

I resti di Elena Ceste vennero ritrovati privi degli abiti, Buoninconti raccontò di aver trovato, in due tempi, i vestiti della moglie in cortile e di averli raccolti, di averli poi messi in auto per rivestire sua moglie una volta che l’avesse trovata.

Non si stupisca il lettore per il fatto che, oltre agli abiti, la Ceste abbia abbandonato in giardino anche gli occhiali, ella era infatti affetta da una lieve miopia (-2.00 diottrie) e non ebbe difficoltà a raggiungere il Rio Mersa senza le lenti correttive.

Non solo Buoninconti ha sempre descritto una crisi alla quale non poteva che aver assistito ma il denudamento esclude l’omicidio, un denudamento in un soggetto con precedenti psicotici non può che spiegarsi come il sintomo di una ricaduta. Lo stato psicotico è una condizione che provoca la perdita del contatto con la realtà e proprio per questo conduce frequentemente a comportamenti anomali ed a causa dell’assenza di critica dovuta alla compromissione intellettiva, a volte pericolosi.

Il denudamento che Elena mise in atto e che precedette la sua fuga da casa rientra semplicemente tra le anomalie del comportamento che possono manifestarsi nei soggetti psicotici (DSM 5). La scienza e la casistica parlano chiaro, esistono migliaia di foto e di video di soggetti psicotici che camminano per strada nudi. Una crisi psicotica non ha né orari, né stagioni e il distacco dalla realtà impedisce a chi ne è affetto di percepire il dolore, il freddo o il caldo.

Non stupisce infine che i suoi resti siano stati ritrovati in un tunnel di cemento del Rio Mersa. I comportamenti degli psicotici sono infatti conseguenza dei loro convincimenti deliranti: Elena, nel tentativo di sfuggire ai suoi immaginari persecutori, si nascose in quel tunnel e, una volta sentitasi al sicuro, si addormentò e fu sopraffatta dalle basse temperature.

Gli indumenti ritrovati in cortile

Buoninconti raccontò alla vicina M. C., e poi agli inquirenti, di aver trovato in cortile, al suo ritorno dal paese, sia gli abiti che gli occhiali di Elena, di averli raccolti e messi in macchina. Secondo la procura Buoninconti ne predispose la messinscena di quegli indumenti o quantomeno si inventò di averli trovati in cortile.

In criminologia usiamo il termine inglese “staging” per definire scene del crimine alterate. “Staging” significa “messinscena”. Chi altera una scena del crimine lo fa per allontanare i sospetti da sé, coloro che alterano la scena del crimine sono soggetti vicini alla vittima che, mossi dal timore di venir sospettati, mettono in atto una “messinscena” allo scopo di depistare gli inquirenti. Coloro che alterano una scena del crimine “preparano” la scena perché la vedano gli inquirenti o eventuali testimoni. (Staging, pag. 34, Crime Classification Manual, Second Edition, 2006, J. E. Douglas, A.W. Burgess, A. G. Burgess and R. K. Ressler)
E dunque, va da sé che se Michele Buoninconti avesse ucciso la moglie e avesse optato per uno “staging” dei suoi indumenti in cortile non li avrebbe poi rimossi prima che qualcuno li vedesse in terra.

Buoninconti quella mattina raccolse gli abiti abbandonati da Elena e li mise in macchina perché sperava di ritrovare sua moglie e rivestirla.

Peraltro il denudamento è compatibile con il comportamento di un soggetto in balia di una crisi psicotica, un disturbo del quale la Ceste soffriva. Quale straordinaria quanto improbabile coincidenza!

Aggiungo che, durante la telefonata delle 8.55.04, Michele Buoninconti non riferì a M. C. di ritenere che Elena fosse nuda perché non aveva ancora trovato tutti i suoi vestiti, ma solo il suo maglione e le ciabatte di fronte alla porta di casa. Michele capì che sua moglie si era denudata completante solo dopo, intorno alle 8.57.28, poco prima di recarsi dal vicino A. R., se ne rese conto solo dopo essersi avvicinato al cancello con l’auto, egli infatti trovò lì il resto degli abiti che sua moglie indossava quella mattina e più tardi ancora trovò i suoi occhiali sul muretto.

L’errore fatale della procura

Il caso avrebbe dovuto chiudersi nel momento in cui vennero ritrovati i resti di Elena senza abiti perché quel ritrovamento dava ragione allo psichiatra della procura che aveva diagnosticato alla Ceste un disturbo psicotico attraverso l’autopsia psicologica e a Michele Buoninconti che aveva raccontato di aver raccolto gli abiti di sua moglie in cortile. Ed invece la procura chiese l’arresto di Buoninconti.

A pag. 151 della Richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “Il rinvenimento degli indumenti di Elena Ceste ha rappresentato sin dai primi momenti dell’indagine il tema di maggior sospetto. Era apparso da subito strano che una donna in fuga o in difficoltà emotiva avesse lasciato i propri vestiti nel cortile dell’abitazione (…) la fuga nuda a piedi e scalza appariva perciò scarsamente plausibile. Ancor più dubbioso si manifestava il contesto dell’abbandono di quei vestiti secondo il racconto di Buoninconti”, a pag. 154: “è apparso illogico che Elena Ceste avesse lasciato la sua abitazione nuda, scalza e senza occhiali da vista, da cui non si separava mai. Altrettanto irrazionale che avesse abbandonato all’aperto i suoi indumenti in due luoghi distinti del cortile senza aver lacerato le calze la cui trama si presenta perfettamente integra.”

L’errore fatale della procura è stato credere che la Ceste non potesse essersi allontanata da casa nuda e che quindi Buoninconti mentisse riguardo alle condizioni psichiche di sua moglie. Come è potuto succedere dal momento che avevano in mano la consulenza del dottor Pirfo? Possibile che non si siano chiesti se gli psicotici si denudano? Possibile che abbiano creduto che la Ceste non poteva essersi denudata con quel freddo?

Su questo punto vi invito ad una ulteriore riflessione: se fosse stato commesso un omicidio, se Buoninconti avesse ucciso la moglie nuda, non l’avrebbe forse rivestita? E se l’avesse uccisa vestita, perché avrebbe dovuto spogliarla? In caso di ritrovamento del corpo, la nudità del cadavere non avrebbe forse attirato i sospetti su di lui?

Peraltro si può ragionevolmente escludere che il mattino del 24 gennaio, dopo essersi vestita, dopo essersi infilata le calze elastiche, la Ceste abbia deciso di farsi una doccia. Non solo era solita fare la doccia alla sera, ma è improbabile che Elena avesse deciso di fare una doccia con la casa fredda e dopo essersi già vestita, soprattutto prima di aver portato a termine le faccende domestiche, e che questa doccia le abbia impegnato circa 35 minuti. Dico 35 minuti perché al suo ritorno a casa, Buoninconti trovò la casa nelle stesse condizioni nelle quali l’aveva lasciata, letti dei bambini sfatti e tazze della colazione da lavare. Non è forse questa un’ulteriore riprova del fatto che la Ceste si allontanò nei campi non appena Michele e i suoi figli presero la via del paese?
I giudici del riesame sono d’accordo con me sul fatto che la Ceste non possa essersi spogliata quel mattino: “Elena Ceste intorno alle 8.15-8.30 era regolarmente vestita e che i suoi indumenti profumavano di pulito onde non vi era ragione per cui la donna avrebbe dovuto nuovamente cambiarsi ed essere trovata dall’indagato nuda mentre si lavava e preparava per la giornata (pag. 39 dell’ordinanza di riesame)”.

A pag. 64 e 66 della Richiesta di applicazione misura cautelare, in merito al denudamento, si legge “l’allontanamento di Elena nuda non l’aveva mai convinta e con la nipote non riuscivano a capacitarsi della circostanza” e “la mamma di Elena non sapeva darsi una spiegazione definendo impossibile un allontanamento nuda. Nei giorni seguenti la madre di Elena tornando sempre sull’argomento ribadiva la stranezza del comportamento segnalando ancor più che le era parso del tutto inverosimile che la figlia non avesse rifatto i letti dei bambini quel mattino”.

Perché la procura ha riportato queste considerazioni della madre della Ceste, considerazioni peraltro in aperto contrasto con quelle dell’autopsia psicologica del proprio consulente, lo psichiatra Pirfo? Che valore si può mai attribuire alle considerazioni di una non esperta? Perché hanno pesato più della diagnosi di uno psichiatra?

L’innesco della crisi psicotica

La Ceste aveva tradito il marito, per questo motivo si sentiva in colpa e temeva delle ripercussioni. E’ nel suo senso di colpa e nel timore di perdere la propria famiglia che sono radicati i contenuti delle sue allucinazioni uditive. Elena sentiva delle “voci” che le dicevano che era una “cattiva mamma” e, di conseguenza, temeva che soggetti estranei alla famiglia la allontanassero da casa e le portassero via i figli. I deliri sono infatti strettamente associati al contenuto delle “voci”.

A scatenare la crisi psicotica vera e proprio furono i messaggi che le inviò l’amico D. S. tra il 20 e il 23 gennaio e che Elena visse in modo persecutorio. La Ceste attribuì a quei messaggi un significato abnorme e li mostrò al marito nel pomeriggio del 23 gennaio dicendogli: “Non mi lasciano stare”. Elena ricevette il primo messaggio da parte di D. S. alle 14.04.18 del 20 gennaio, dopo aver raccolto sua figlia a scuola, pertanto è chiaro che chi la incontrò prima di quell’ora non può aver percepito il suo disagio.

Il pomeriggio del 23 gennaio

Dal racconto di Buoninconti al programma “Chi l’ha visto?” (26 febbraio 2014):

Che mia moglie avesse dei problemi non me ne sono mai accorto perché non mi ha mai dato dimostrazione, e quel giovedì, il giovedì (23 gennaio 2014 ndr) prima che scomparisse, verso tardo pomeriggio, salgo sopra e trovo mia moglie accovacciata lì, tra la cucina e il soggiorno, e c’era mia figlia piccola vicina e lei stava piangendo, mia moglie, e chiedo: “Cosa è successo?”. E lei mi dice: “Non mi lasciano stare”. Ho detto: “Ma come? Chi è che non ti lascia stare? Fammi capire!”. “Non mi lasciano stare, non mi lasciano stare, non mi vogliono lasciar stare!”. E mi fa vedere il telefonino, mi ha fatto… mi ha messo lei la videata dei messaggi e c’era un elenco di messaggi fatti nell’arco della giornata dalla stessa persona, erano messaggi cheee mmm… all’inizio non ho, non ho pensato male perché erano come se un amico volesse consolare un’amica, c’era scritto: “Ti voglio bene, perché non mi chia.. Perché non mi rispondi al telefono?”. E poi c’era addirittura una che diceva: “Perché non rispondi se mi hai cercato tu? E’ perché ti senti sola e hai bisogno di parlare?”. E poi un altro: “Ci vediamo al solito posto”. Vedendo…. è il papà del compagno di mio figlio… ho cominciato a pensare questo, infatti gli ho chiesto spiegazioni a mia moglie, ho detto: “Ma guarda un po’ questi messaggi, tra questo messaggio e quest’altro ci manca un nesso, perché lui per farti il secondo messaggio, tu gli hai risposto al primo”. E ho detto: “Fammi vedere anche i tuoi messaggi”. Ha detto lei: “Ma non ci sono, sono gli altri che li fanno al posto mio”. Ho detto: “Ma come gli altri li fanno al posto mio?”. Gli ho chiesto: “Gli altri chi?”. Perché poi la faccenda dei messaggi, ho visto che mia moglie non collaborava, ho lasciato perdere, ho detto, perché dopo lei si è rasserenata e abbiamo fatto cena, tutto, io mi son visto Don Matteo, lei è venuta a stirare di qua.

La notte tra il 23 e il 24 gennaio

Dal racconto di Buoninconti al programma “Chi l’ha visto?” (12 e 19 febbraio 2014):

Durante la notte lei si sveglia e mi sveglia anche a me. Io dico: Come mai non riesci a dormire? Perché lei era seduta lì sul letto e mi teneva scoperto, io avevo freddo, sono stato costretto a svegliarmi. Gli chiedo: “Cosa hai?”. E lei dice: “Ho delle voci in testa che non… non mi lasciano stare”. E ho detto: “Quali voci hai?”. “Eh, dicono di me che sono una cattiva mamma”. E mi fa proprio direttamente a me, dice: “Sono io una cattiva mamma?”. Ed allora io più che rasserenare cosa posso fare? Dico: “Ma come Elena, come puoi dire una cosa del genere? E poi chi lo pensa una cosa del genere? Perché tu mamma di 4 figli puoi mai essere una cattiva mamma?!”. Così riesco a rassicurala, me la tiro verso di me, me la faccio stare un po’ sul petto, l’accarezzo, la coccolo, finché lei riesce a rilassarsi e ci addormentiamo in due. E adesso che mi ricordo nella notte quando lei mi parlava di tante cose, lei ha specificato anche: “Non permettere che mi portino via, dove vado? Dove posso mai andare io?”. E io gli ho detto: “Ma chi ti fa andare via? Questa è la tua casa, nessuno ti caccia via”.

Dal racconto di Buoninconti al programma “Chi l’ha visto?” (26 febbraio 2014):

La notte avevo freddo, verso le 2 di notte, 2 e mezzo potevano essere… adesso con precisione non mi ricordo co… esattamente, e sentivo freddo e mi sono tirato una volta le coperte addosso e di nuovo me le sono tirate un’altra volta, al che dopo un po’ ti svegli e ho visto mia moglie. Ed era lì seduta sul letto, ho detto: “Cosa fai? Perché mi scopri?”. E lei si batteva in fronte, addirittura gli avevo visto che qui s’era fatta rossa, ho detto: “Ma cosa stai facendo?”. Ha detto: “Le voci che mi tormentano. Ho delle voci che mi tormentano in testa”.

Il racconto di Buoninconti è credibile

Buoninconti fu testimone di una crisi psicotica. Soprattutto, come ho già detto, Michele Buoninconti non poteva sapere che i soggetti in preda alle allucinazioni uditive si picchiano in testa per cacciarle. Il vigile Michele Buoninconti non può essersi inventato la crisi psicotica che colpì Elena quella notte. Buoninconti descrisse ciò che udì e ciò che vide e l’analisi del suo racconto ci permette di concludere che assistette ad una crisi psicotica.

Nel verbale di assunzione di informazioni del 4 aprile 2014, pag. 10, Michele ha riferito che, quella notte, Elena continuava nel dire: “Sono sulla bocca di tutti, mi meraviglio che tu non lo sappia, ne parla tutto il mondo”.

Un racconto credibile. Buoninconti riportò infatti agli inquirenti le espressioni usate da Elena e le stesse erano del tutto sovrapponibili a quelle da lei usate con i suoi confidenti nei mesi di ottobre e novembre, confidenti che hanno riferito agli inquirenti di non essersi mai confrontati con Michele su quei temi. Elena scelse infatti di confidarsi con soggetti che sapeva non avrebbero riportato le sue confidenze al marito.

Il mattino della scomparsa

Dal racconto di Buoninconti al programma “Chi l’ha visto?” (12 febbraio e 19 febbraio 2014):

Al mattino, quando l’ho vista che mi è venuta a chiamare, era be.. era già vestita tutta, l’ho guardata, una faccia serena. Ho detto: “Ah, è stato un incubo, meno male mia moglie è serena, è stato solo un incubo”. Poi, dopo la colazione, i bambini hanno iniziato a scendere giù uno per volta, hanno iniziato a mettersi in macchina e io, nel frattempo, scendevo anch’io per portarli a scuola e lei mi ha seguito e ha iniziato di nuovo a dirmi: “Lasciali a casa i bambini, non li portare a scuola. Lasciali a casa, non li portare a scuola”. Ho detto: “E perché non devo portarli a scuola?”. “Non devi portarli a scuola perché ce li controllano, perché loro hanno messo cose brutte su di me e adesso vogliono condizionare i nostri bambini, ce li controllano. Sì, perché i nostri bambini ce li vogliono controllare, vogliono portarli lontano da me”.

La crisi psicotica di Elena, che datava quantomeno dal pomeriggio del 23 gennaio, aveva avuto momenti di remissione quando la donna si era impegnata nel preparare la cena e la colazione. Al mattino Buoninconti credette che Elena avesse superato la crisi notturna, ed invece, poco prima che Michele accompagnasse i bambini a scuola, la crisi riprese con un elemento persecutorio nuovo: il timore che qualcuno le controllasse i figli.

Non solo nel momento in cui Elena riferì questo suo timore (infondato) al marito i bambini si trovavano già in macchina, e quindi non furono testimoni dei suddetti scambi, ma la Ceste era in preda ad un delirio lucido senza alterazioni dello stato di coscienza, una condizione difficile da decifrare da parte di un non addetto ai lavori. La riprova è nel fatto che a nessuno dei confidenti della Ceste venne in mente di condurla da uno specialista.

Il contenuto dei deliri

I deliri hanno contenuti strettamente legati all’esperienza soggettiva di chi li manifesta. Elena aveva tradito Michele e il timore di venir scoperta, il senso di colpa e il rimorso, il timore dell’abbandono e un senso diffuso di indegnità personale, si manifestarono inizialmente (ottobre-novembre) con pensieri ossessivi persecutori e in seguito con un quadro psicotico completo caratterizzato da allucinazioni uditive, da un delirio persecutorio e da disturbi comportamentali, denudamento e fuga da casa, che la portano a morte.

La morte per assideramento nel tunnel di cemento del Rio Mersa

Come abbiamo visto in precedenza, la notte tra il 23 e il 24 gennaio, la Ceste riferì a Michele di temere che la portassero via, per questo motivo la mattina del 24 gennaio, prese delle misure preventive nei confronti dei suoi immaginari persecutori: scappò e si nascose in un tunnel di cemento del Rio Mersa, inconsapevole, a causa della sua condizione psichica, che le indusse un profondo distacco dalla realtà e le viziò la capacità critica, che il freddo avrebbe potuto ucciderla.

La Ceste non desiderava morire, voleva solo nascondersi. Purtroppo, però, una volta sentitasi al sicuro, Elena si addormentò, la notte prima infatti non aveva dormito e il lungo delirio che durava dal pomeriggio del giorno precedente l’aveva affaticata, al sonno subentrò lo stato soporoso indotto dall’ipotermia cui seguì la morte per assideramento. La presenza dell’acqua nel piccolo corso accelerò il processo di assideramento. Infine, è probabile che se Elena fosse stata vigile ed avesse sentito la voce di Michele o quelle dei soccorritori non le avrebbe percepite come voci “amiche”, ma come quelle dei suoi fantomatici persecutori che intendevano “portarla via da casa” e naturalmente sarebbe rimasta nel luogo dove si era nascosta.

Le confidenze a familiari e amici

Ad accreditare il fatto che la Ceste soffrisse di psicosi non sono solo i racconti di Michele di quell’ultima notte, ma anche quelli della signora F. R., conoscente di Elena, del parroco di Motta di Costigliole don Roberto, degli amici della Ceste, G. A. e D. S., della madre L. R. e della sorella D., che hanno riferito ad inquirenti e giornalisti di alcuni scambi che ebbero con la Ceste nei mesi che precedettero il suo allontanamento da casa.

L’amica F. R.

Il 12 marzo 2015 “Chi l’ha visto?” ha mandato in onda una dichiarazione della vicina dei Buoninconti F. R.: Elena è una persona molto riservata, molto timida e ad ottobre arrivò qui dai miei dicendo… piangendo e mi disse che era stata tradita, che era sulla bocca di tutti ed io chiesi perché noi non sapevamo nulla e lei mi ha detto: “Una persona che credevo amica mi ha tradita”. Dico: “Come ti ha tradita? Per quale motivo? Lei mi dice: “Su internet, su Facebook”. Io non sono… non capisco niente di queste cose qua e quindi la cosa è morta lì. Dice: “Però devo farcela, ce la faccio, mi son resa conto che ho sbagliato, ce la farò”. “Sai Elena, capita a tutti di sbagliare, nel momento in cui ti rendi conto volti pagina e vai avanti”, insomma non ho dato molto peso alla cosa e neanche chiesto più di tanto perché non mi sembrava neanche giusto. Lei ha pianto, sì piangeva, ricordo che l’ho abbracciata, l’ho baciata. Dico: “Elena stai tranquilla, non c’è niente, nessuno dice niente di te”. “No”- dice – “no, no, però mi son resa conto che ho sbagliato”.

Si noti che F. R. rassicurò Elena dicendole di non sapere nulla e che nessuno diceva niente di lei, una riprova del fatto che Elena non aveva riferito un dato reale.

L’amico G. A.

G. A. ha raccontato durante la puntata di “Chi l’ha visto?” del 9 aprile 2014 i contenuti di un colloquio telefonico avuto con la Ceste: “Qualcuno che la voleva infangare, che voleva screditarla, parlava di un amico di vecchia data, una mia vecchia conoscenza, ripeteva Elena, e aggiungeva che questa persona diceva di avere delle cose da dire, forse delle cose da poter fare, come se potesse dire al marito di Elena chissà quali cose….Elena era convinta che il marito sapesse, ma non ho mai capito cosa cavolo sapesse perché lei non me l’ha mai spiegato, ma lei era certa che il marito sapesse, che tutti sapessero, una volta mi ha detto che quando inviava un messaggio col suo telefonino a me, contemporaneamente quel messaggio arrivava al marito, al cellulare del marito. Le ho detto forse c’è qualcosa che non va nella tua testa, non so perché. Se è come dici tu, basta che prendi il cellulare di tuo marito e vedi che messaggio c’è, ma lei glissava e continuava a ripetere: “Mio marito sa, lui sa!”. E poi era certa che qualcuno era entrato nel suo account di Facebook e che qualcuno la seguisse, sono stata infangata, continuava a ripetere. “Ma da chi?”. Le avrò chiesto mille e cinquecento volte. “Me lo dici da chi? E su cosa ti infangano?”. Ma lei glissava. “C’è gente cattiva”- ripeteva- “persone che conosco, un amico di vecchia data” continuava a ripetere… era molto agitata”.

L’amico si rese conto che qualcosa non andava nella “testa” di Elena.

Il parroco di Motta

Elena confidò verso l’inizio di novembre le sue preoccupazioni anche al parroco di Motta di Costigliole e lui le ha riferite ad una giornalista in questi termini: “La cosa sorprendente è che tanto più sembra che lei dicesse a varie persone questa cosa, che era sulla bocca di tutti e quanto che le persone più vicine sembra non ne sapessero un granché. E quindi chi ci capisce, è difficile sapere quanto ci fosse di reale e quanto ci fosse di non so, se un senso di colpa o qualcosa del genere… nell’incontro che abbiamo avuto una volta si vedeva che era così, un po’ spaventata, o che aveva qualche cosa così, però io era la prima volta che la vedevo, quindi non sapevo nulla di lei fino a quel giorno…è stata molto vaga e io non ho voluto, visto il clima, visto la sensazione che c’era, ho cercato di tranquillizzarla in una forma un po’ generica. Quando c’è una persona che è un po’ più spaventata di quello che di solito potrebbe essere, però senza indagare tanto sulle cose e anche perché immaginavo che successivamente avremmo avuto occasione magari di vedersi di nuovo” (puntata di “Chi l’ha visto?” del 12 marzo 2014).

Il parroco don Roberto ipotizzò che le preoccupazioni della Ceste non solo fossero sganciate dal dato reale, ma fossero causate dal senso di colpa.

Ed allora perché la procura non ha creduto al povero Buoninconti? Il suo racconto non era forse sovrapponibile a quello di familiari e conoscenti? Come avrebbe potuto inventarsi la crisi psicotica, le allucinazioni uditive, il delirio persecutorio sovrapponibile qualitativamente ai pensieri ossessivi persecutori che la moglie aveva manifestato nelle conversazioni con i suoi confidenti? E poi, come poteva sapere che i soggetti in preda alle allucinazioni uditive si picchiano in testa per scacciare le voci?

La visita dal sostituto del dottore

La mattina della scomparsa della moglie, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, Buoninconti si recò allo studio del medico di base per accertarsi degli orari di ricevimento del sostituto. Questa sosta dimostra che Buoninconti era preoccupato per la salute della moglie e desiderava farla visitare. A pag. 130 della Richiesta di appllicazione misura cautelare in carcere si legge: “Era stato il padre a dire che avrebbe accompagnato la mamma dal medico”. Perché la procura non ha riportato il fatto che la figlia più grande dei coniugi Buoninconti aveva confermato agli inquirenti di aver sentito i suoi genitori parlare della prevista visita dal dottore la mattina del 24 gennaio e proprio durante la colazione? Perché la procura ha ignorato questa importante testimonianza che confermava che Buoninconti aveva raccontato la verità?

Dunque Elena e Michele si erano accordati per andare dal dottore e sappiamo anche che non poteva che essere stata la Ceste a riferire al marito che vi avrebbero trovato un sostituto, e che lo stesso avrebbe potuto ricevere in orari diversi, in quanto era passata dallo studio del medico di base pochi giorni prima e aveva saputo della presenza di un sostituto. A tal proposito il medico curante, come si legge a pag. 52 della richiesta di applicazione misura cautelare, “precisava di aver avvisato la sig Ceste della sua assenza per i giorni 22, 23, e 24”.

L’AMNESIA PSICOGENA

Il fatto che Michele Buoninconti avesse fornito versioni diverse riguardo al ritrovamento degli abiti e degli occhiali della povera moglie, riguardo alla consegna degli stessi ai carabinieri, riguardo alla scaletta delle telefonate da lui effettuate e a quella degli incontri di quella mattina, è stato motivo di sospetto.

Eppure le diverse versioni si spiegano facilmente: Buoninconti si era reso conto che Elena non stava bene tanto che era passato dal dottore per accertarsi degli orari di ricevimento, proprio per questo motivo, appena trovò i suoi indumenti in giardino temette il peggio e “andò in confusione”, per dirlo con parole comprensibili a tutti.

Buoninconti descrisse il proprio stato d’animo al momento del ritrovamento degli abiti della moglie in una intervista a “Chi l’ha visto?”, intervista che fu registrata poco tempo dopo la scomparsa della Ceste e che andò in onda nella puntata del 2 aprile 2014: “Io quei panni lì non li ho guardati per bene, perché quando ho visto quei panni lì, mi è venuta una cosa alla testa. Ho detto: Madonna mia, adesso da chi mi deve far vergognare mia moglie? Cosa mi sta combinando? Io ho pensato quella cosa lì della vergogna, che mi vergognavo se qualcuno l’avesse vista nuda. Perché ho detto: Dove mi è scappata questa qui? Dove è potuta mai andare nuda? In quel momento lì il mio pensiero era trovare mia moglie e coprirla, coprirla, perché una donna nuda non è bene che giri in strada.”

Le incongruenze nel racconto di Buoninconti sono ascrivibili al suo stato di alterazione emotiva dovuto non solo alle preoccupazioni, ma anche al fatto che non aveva dormito a causa dei disturbi di Elena. Fu proprio questa condizione di stress ad indurre un disturbo del processo di memorizzazione di comune osservazione, ovvero il blocco della memorizzazione a lungo termine per cui i suoi ricordi di quei momenti, fissati inizialmente nella memoria a breve termine, non si impressero in quella a lungo termine a causa del concatenarsi degli eventi.

Questa forma di amnesia, definita psicogena, è di facile riscontro nei soggetti che hanno subito un evento emotivamente stressante ed è collegata ad una alterazione dei processi di registrazione mnestica (amnesia di fissazione).

Una volta formatasi, la traccia mnestica richiede un certo tempo per essere consolidata e quindi ritenuta attraverso meccanismi biochimici. Si riconoscono due distinti stadi nel processo di formazione della memoria, lo stadio della memoria a breve termine (memoria primaria), durante il quale si formano le tracce mnestiche, ma solo temporaneamente, e lo stadio della memoria a lungo termine (memoria secondaria), in cui le tracce si consolidano e vengono ritenute in codici mnestici più duraturi. La durata della memorizzazione di un dato materiale mnestico dipende da molti fattori, ripetizioni, associazioni, affettività del soggetto, livelli di vigilanza, attenzione, attività svolta dal soggetto tra il momento dell’apprendimento e quello della rievocazione. La ritenzione di un soggetto impegnato in attività intellettive è minore di quella di un soggetto a riposo, questo a causa dell’effetto frenante che nuovi elementi esercitano su quelli appresi precedentemente (La memoria, pag.128, Manuale di Psichiatria, Pietro Sarteschi e Carlo Maggini).

Con l’amnesia psicogena dunque si spiegano le versioni diverse fornite da Buoninconti

Buoninconti non si ricordava, neanche a distanza di mesi, che Marilena Ceste era stata a casa sua quella mattina, come si evince a pag. 11 del suo verbale di sommarie informazioni datato 4 aprile 2014: “Non ricordo che M. sia venuta a casa mia la mattina della scomparsa”. Perché mai Buoninconti avrebbe dovuto dire di non ricordare che M. C. era stata a casa sua quella mattina se non fosse stato vero che non lo ricordava?

Solo con i mesi e con l’aiuto dei testimoni Buoninconti è riuscito a ricollocare la maggior parte degli accadimenti di quella mattina nell’esatto ordine cronologico. Ed una volta ricostruiti i fatti ha cercato di fornire ad inquirenti e giornalisti più informazioni possibili allo scopo di favorire il ritrovamento della moglie.

La procura ha dedicato molte pagine della Richiesta di applicazione misura cautelare alle contraddizioni di Michele, contraddizioni che, come abbiamo visto, hanno una spiegazione scientifica.

Buoninconti non è stato l’unico a non ricordare

A pag. 64 della stessa Richiesta si legge: “P. D. aveva precisato di conservare un ricordo piuttosto confuso di quel pomeriggio il cui contenuto si andava sovrapponendo a quanto successo nei due giorni a seguire, che gli pareva ancora adesso far parte di un’unica interminabile giornata”. Dunque P. D. ha “precisato di conservare un ricordo piuttosto confuso di quel pomeriggio”, e allora perché il fatto che Buoninconti avesse anch’egli “un ricordo piuttosto confuso” degli eventi di quel giorno è stato letto come sospetto? Peraltro Buoninconti, e non P. D., aveva assistito alla crisi psicotica notturna della Ceste.

A pag.123 della Richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “Il pochissimo tempo trascorso dal mancato ritrovamento della moglie non giustificava comportamenti irrazionali propri delle conseguenze post traumatiche”.

La reazione di un soggetto non dipende dal tempo trascorso, ma dalle circostanze della scomparsa e dai fatti che l’hanno preceduta. Buoninconti, prima di trovare gli abiti della Ceste in giardino, aveva assistito ad una crisi psicotica e, anche se non l’aveva decifrata, era preoccupato per le condizioni psichiche di sua moglie, per questo motivo era passato dall’ambulatorio del medico di base per informarsi sugli orari di ricevimento del sostituto. Non sarebbe dunque stato invece inaspettato e sospetto il contrario, ovvero che Buoninconti mantenesse la calma?

La consegna degli abiti della Ceste

A pag. 44 della solita Richiesta si legge che il M.llo Sarchielli aveva prodotto un’annotazione dove riferiva le inesattezze e discrasie colte nel sentire personalmente uno stralcio di un’intervista a Buoninconti che trattava il rinvenimento degli abiti della moglie. Intervista che il M.llo vide nel mese di luglio, ma della quale non è stata riportata la data di registrazione. “Sul punto Buoninconti Michele aveva riferito di non essere stato lui ad effettuare la consegna materiale ai carabinieri avendo incaricato di farlo la suocera (…) Il M.llo Sarchielli, protagonista diretto della consegna degli indumenti in caserma, aveva, per l’effetto, avvertito l’esigenza di stilare una nota al riguardo, per evidenziare le circostanze del tutto differenti tra il racconto televisivo e la realtà degli accadimenti. I vestiti erano stati portati da Buoninconti verso le ore 12.00 (…)”.

Buoninconti raccontò al giornalista che era stata la suocera a consegnare gli indumenti perché era confuso. A che scopo Buoninconti avrebbe dovuto mentire così grossolanamente? Quali vantaggi ne avrebbe potuto trarre? Nessuno, anzi.

Mentre a pag. 194 della solita Richiesta si legge: “Innanzitutto il racconto di lui era carico di contraddizioni difficile da porre a principio della ricomposizione dello svolgere degli avvenimenti su dati certi, in secondo luogo risulta oltremodo irrazionale e smentito quanto da lui affermato e sostenuto” a pag. 150 è scritto: ‘Il consulente psichiatra dottor Pirfo ha evidenziato la puntigliosità con cui Buoninconti ricostruisce e narra gli avvenimenti drammatici della scomparsa della moglie e dei successivi eventi, ripetendo sia nelle dichiarazioni verbalizzate dal pubblico ministero, sia in quelle rese ai giornalisti spesso le stesse parole o le stesse argomentazioni nonostante l’affermazione di vivere un momento straordinariamente traumatico nell’esistenza propria e della famiglia. Questo aspetto è apparso anche all’esperto di difficile comprensione poiché le ricostruzioni mnestiche post traumatiche risultano caratterizzate dalla frammentarietà del ricordo, dalla non perfetta riproducibilità e sovrapponibilità delle dichiarazioni e soprattutto dal grande livello di angoscia correlata al racconto, qui la memoria esplicita e dichiarativa di Buoninconti non aveva risentito affatto di alcuna eventuale difficoltà post traumatica, il ricordo si manteneva integro e ripetibile“.

E dunque il racconto di Buoninconti è carico di contraddizioni, come afferma la procura, o integro e ripetibile, come afferma lo psichiatra consulente della stessa? Buoninconti ha risentito di una disturbo mnestico post traumatico o no?

Le cose sono andate così: prima di mettere insieme i pezzi relativi al giorno della scomparsa della moglie, Buoninconti si è contraddetto, e Pirfo ci spiega il perché: “le ricostruzioni mnestiche post traumatiche risultano caratterizzate dalla frammentarietà del ricordo, dalla non perfetta riproducibilità e sovrapponibilità delle dichiarazioni e soprattutto dal grande livello di angoscia correlata al racconto”, in seguito, e con l’aiuto dei testimoni, ha ricostruito meglio i fatti di quella mattina.

L’alibi

Buoninconti non si è neanche ricordato di aver chiamato al telefono il vicino, alle 8.57.28, e in contemporanea di avergli suonato il campanello e aver parlato con lui in quell’occasione, non in seguito., Un dato che lo scagiona perché lo colloca davanti a casa di A. R. in quell’orario e smentisce senza possibilità d’appello la ricostruzione del geometra Dezzani abbracciata dalla procura e ci conferma che il povero Michele non ha occultato il cadavere della Ceste e dunque la spiegazione della sua morte è nella psicosi. Preciso che non stava a Buoninconti ricordarsi con precisione i suoi movimenti, ma stava alla procura confrontare i dati testimoniali con quelli dei tabulati telefonici. Nella prime due puntate trovate una dettagliata spiegazione di ciò che affermo riguardo all’alibi.

Il telefonino di Elena

La mattina del 24 gennaio, al suo ritorno dal paese Buoninconti trovò il telefono di Elena in casa e lì lo lasciò fino alle 9.30 circa. Anche su questo punto Buoninconti ha dato versioni diverse che si spiegano con la sua difficoltà a ricostruire i fatti di quella mattina a causa dall’emotività e dalla concatenazione degli eventi.

Durante le prime ricerche, dal telefonino di Buoninconti partirono 5 telefonate al telefonino di Elena. Buoninconti chiamò involontariamente la Ceste alle 9.01.48, alle 9.03.14, alle 9.09.30, alle 9.12.01 e alle 9.13.00.

A pag. 70 delle Motivazioni della sentenza di condanna di Buoninconti il giudice ha sostenuto che Michele quella mattina chiamò il telefono di Elena perché aveva l’esigenza di rintracciare l’apparecchio. Infatti, secondo la ricostruzione dell’accusa, intorno alle 9.00 Buoninconti gettò il cadavere della Ceste nel Rio Mersa e, nel tornare a casa, credendo che il telefono di Elena potesse essergli caduto durante l’occultamento, a cominciare dalle 9.01.48, lo chiamò per localizzarlo.

Michele non chiamò invece mai volontariamente il telefonino di Elena

Vediamo come la logica ci viene in soccorso:

1) Alle 9.01.48 Michele chiamò il telefonino di Elena e agganciò la cella di casa sua. Abbiamo visto in precedenza che in quell’occasione Buoninconti si trovava in auto e stava dirigendosi verso Isola d’Asti, non stava tornando dal luogo dell’occultamento, come ipotizzato dal giudice. Peraltro se Buoninconti avesse occultato il corpo della moglie e avesse pensato di aver perso il suo telefonino al Rio Mersa non lo avrebbe chiamato trovandosi a distanza, avrebbe rischiato infatti che qualcuno lo sentisse squillare. Peraltro Buoninconti aveva già allertato la vicina M. C. e avrebbe potuto trovare lei l’apparecchio nel caso fosse uscita a cercare Elena.

2) Michele non si fermò ad Isola d’Asti a cercare il telefono e non lo richiamò una volta sceso dall’auto.

3) Michele chiamò nuovamente Elena alle 9.03.14 e ancora una volta mentre si trovava in auto e stava tornando verso casa, egli infatti al termine di quella telefonata, alle 9.04.16, agganciò nuovamente la cella di casa sua.

Buoninconti, quindi, chiamò il telefono di Elena le prime due volte mentre si trovava in auto e non fermo al Rio Mersa come, se avesse occultato la Ceste e avesse creduto di averlo perso durante l’occultamento, sarebbe stato logico che facesse.

Non solo, dopo le prime due telefonate, che secondo il giudice Michele fece per recuperare il telefono della moglie, Buoninconti non si precipitò a casa per farlo squillare. Un dato che ci conferma senza ombra di dubbio che Michele, quel telefono, non lo stava cercando.

La logica vuole che se Buoninconti già alle 9.01.48 avesse chiamato il telefono di Elena per rintracciarlo per il timore che gli fosse caduto al Rio Mersa, non avrebbe avvisato più nessuno per non rischiare che i soggetti da lui allertati chiamassero Elena e che qualcun altro sentisse il telefono di Elena che squillava e ne individuasse il corpo. E invece, alle 9.06.59, chiamò lo zio di Elena e poi, alle 9.22, il vicino P. S. T.

Inoltre, si può ragionevolmente escludere che Buoninconti abbia cercato il telefonino di Elena in auto, infatti avrebbe saputo che quel telefono non era in auto già dopo la prima telefonata, che senso avrebbe avuto continuare a cercarlo lì?

Inoltre, come si spiegherebbero le altre tre telefonate, quella delle 9.09.30, quella delle 9.12.01 e quella delle 9.13.00 partite mentre Buoninconti era in auto verso Govone?

Eppure, riguardo alle telefonate di cui sopra a pag. 61 dell’Ordinanza di riesame si legge: “(…) determinato in ogni modo a sostenere la sua strategia difensiva (pure negando circostanze inconfutabili, come le ripetute chiamate all’apparecchio della Ceste) non fornisce alcun contributo per far ritenere che la sua pericolosità sia stata in qualche modo neutralizzata. Invero, l’indagato nel tempo non ha mai mostrato una esitazione, un’incertezza sulla solidità delle proprie posizioni, il che, sebbene pienamente rientrante nei suoi diritti processuali, non può che introdurre inquietanti interrogativi sulla effettiva presa di coscienza da parte dell’indagato della gravità del fatto di cui si è reso responsabile e, conseguentemente sull’acquisizione da parte dello stesso di una definitiva volontà di autocontrollo, non avendo allo stato Buoninconti, appunto fornito alcuna dimostrazione concreta di tale presunta volontà (ancora, nell’interrogatorio di garanzia, l’indagato domanda al Giudicante: “cosa ci faccio qui dentro?… voglio sapere il motivo per cui sono qui dentro..”.

Buoninconti era all’oscuro dei tradimenti

A pag. 52 dell’Ordinanza di riesame si legge: “Una crisi nel matrimonio della coppia Ceste Buoninconti si era manifestata intorno al mese di ottobre 2013, per poi sembrare superata in epoca immediatamente successiva. Le testimonianze raccolte consentono, infatti, di individuare come momento significativo per una riacquistata serenità tra i coniugi la data del 3 novembre 2013, giorno in cui la CESTE e BUONINCONTI hanno voluto compiere delle verifiche sul computer della persona offesa, coinvolgendo i familiari nell’affidare loro i quattro figli e potere rimanere da soli. Infatti, quel giorno si registrano numerosi contatti tra le utenze in uso all’indagato ed alla moglie con un nipote G. P. detto D. sentito come testimone, quest’ultimo ha riferito di essere stato contattato dagli zii come esperto di informatica, per verificare la presenza di intromissioni nel profilo Facebook di Elena Ceste, ma di non aver assolutamente riscontrato nessuna anomalia. Tale accertamento e le rassicurazioni acquisite devono aver tranquillizzato lo stato d’animo della persona offesa che, infatti, dopo tali eventi sembrava avere ritrovato una maggiore serenità, prima compromessa, apparentemente soprattutto in ragione dei contatti via chat che la donna era solita intrattenere la sera (…) Le difficoltà coniugali devono essere dipese di conseguenza, per quanto è dato sapere, dalle confidenze che la stessa Elena Ceste, in tale stato di profonda pregressa apprensione, deve avere rivolto pure al marito, plausibilmente alludendo anche a delle relazioni personali che la Ceste aveva intrattenuto con altri uomini (come A. G. e S. D.) e che appunto erano state la causa della sua preoccupazione che “tutti sapessero”, in modo persecutorio e proiettivo plausibilmente anche a seguito delle suggestioni ingenerate al riguardo dal medesimo coniuge una volta edotto di tutto ciò. Ciò non di meno è plausibile che tali comportamenti abbiano reso la Ceste agli occhi dell’indagato una moglie inaffidabile dedita a coltivare relazioni virtuali con il computer e che soprattutto con la sua manifesta fragilità aveva minato la solidità della famiglia”, a pag. 55 della stessa Ordinanza si legge che ciò che avrebbe spinto Buoninconti ad uccidere Elena sarebbe stata una “volontà prevaricatrice di Buoninconti rispetto ad ulteriori presunte relazioni infedeli percepite come tali della moglie nell’ambito di un rapporto coniugale del resto già incrinato da problematiche di tale natura” e a pag. 56: “dopo le confessioni di disorientamento personale e forse di infedeltà di quell’epoca”

Dunque, il 3 novembre il nipote di Buoninconti fece un controllo da remoto sul computer della Ceste. Perché i giudici abbiano associato quel controllo ad una fantomatica crisi coniugale è un mistero. La cosiddetta “crisi del matrimonio”, le cosiddette “difficoltà coniugali dipese dalle confidenze”, le cosiddette “problematiche di tale natura” non sono agli atti, nessun testimone ha infatti mai consegnato a chi indagava alcunché che potesse lasciar intendere che, nei mesi precedenti alla scomparsa di Elena, si fosse incrinato il rapporto tra i due coniugi. In autunno Elena non confidò a Michele di averlo tradito.

Solo nel pomeriggio del 23 gennaio e nella notte tra il 23 e il 24 gennaio, e mentre era in preda al delirio, Elena confidò al marito le sue paure e, in quel contesto di delirio, naturalmente, Buoninconti non si preoccupò per eventuali tradimenti, si preoccupò invece per la salute psichica della moglie, tanto che al mattino, durante la colazione, si accordò con lei per condurla dal dottore. Testimone dell’accordo fu la figlia più grande.

Il 3 novembre

Nel periodo a cavallo tra i mesi di ottobre e novembre Elena si era convinta che qualcuno si fosse illegalmente introdotto nel suo profilo di Facebook.

Poco tempo prima del controllo del 3 novembre la Ceste confidò a F. R. di aver bloccato il proprio profilo Facebook per paura di intromissioni e a G. A. di temere che qualcuno fosse entrato nel suo account. In quello stesso periodo la Ceste accusò D. S. di aver postato alcuni messaggi apparsi su Facebook, lamentandosi con lui di aver perso fiducia e dignità e dicendosi sulla bocca di tutti (pag. 10, Richiesta di applicazione misura cautelare).

Il 3 novembre, Elena e Michele chiamarono al telefono il nipote G. P. il quale si introdusse nel computer della Ceste con modalità remota e concluse che non vi era alcuna anomalia nel suo profilo di Facebook. Buoninconti non partecipò alle operazioni che si svolsero sul computer di Elena, ma si dedicò invece alla vendemmia.

Dunque abbiamo visto che Elena temeva che qualcuno usasse il suo profilo di Facebook. Non vi stupirà sapere che al marito aveva detto un’altra cosa, gli aveva detto di voler parlare con G. P. perché il computer non la riconosceva, probabilmente per mancanza di cookie.

Nel timore infondato di Elena che qualcuno si fosse introdotto nel suo profilo di Facebook è facile identificare un pensiero ossessivo persecutorio, quel pensiero ossessivo persecutorio è proprio uno dei prodromi della crisi psicotica che la travolse a fine gennaio.

Elena confidò a G. P., nipote di Michele, quel suo timore, e quest’ultimo, a differenza degli altri confidenti, lo riportò a Buoninconti, come si legge nel suo verbale di assunzione di informazioni del 4 aprile 2014 a pag. 9: “Poi mio nipote mi ha detto che la zia (Elena) era convinta che qualcuno usasse il computer al posto suo fingendosi lei”. Il fatto che Elena non avesse detto a Michele la verità, ma che gli avesse detto invece che il computer non la riconosceva per mancanza di cookie, è la riprova del fatto che con lui non si confidava e non si confidava con lui perché le sue paure avevano origine dai tradimenti. E proprio il fatto che non abbia raccontato a Michele la verità ci rivela che, all’epoca, la Ceste riusciva ancora ad esercitare un certo controllo.

L’origine della storia della crisi

Vi chiederete dunque da dove sia nata l’idea della procura che, in autunno, in coincidenza con la crisi psicotica diagnosticata alla Ceste dal loro consulente, ci fosse stata una crisi matrimoniale.

La storia della crisi del matrimonio si è sviluppata a partire da un colloquio tra Elena e sua sorella. Elena aveva infatti detto a D. che “tutti sapevano, che aveva scritto delle cose e non doveva. E che non era in lei quando le aveva scritte, asserendo di aver sbagliato e di dover ricostruire tutto, dicendo che erano passati solo per lasciare i bambini dai nonni e loro sarebbero tornati a casa perché volevano stare un po’ tranquilli”.

E’ da quel “dover ricostruire tutto” e da “volevano stare un po’ tranquilli” che sono partiti per arrivare ad ipotizzare una crisi matrimoniale. In realtà Elena voleva soltanto far controllare il computer dal nipote di Michele in tutta tranquillità.

Voglio farvi notare che quel “erano passati solo per lasciare i bambini dai nonni e loro sarebbero tornati a casa perché volevano stare un po’ tranquilli” riferito dalla sorella, nell’ordinanza di riesame si è trasformato in “coinvolgendo i familiari nell’affidare loro i quattro figli e potere rimanere da soli”. Una forzatura. “tranquilli” infatti non sta a significare necessariamente “soli”, tanto che i due coniugi non rimasero “soli”, ma coinvolsero il nipote di Michele. E alla fine della fiera rimasero “soli” Elena e il nipote di Michele, in quanto Buoninconti “li lasciò fare” perché intento nella vendemmia.

In conclusione, l’episodio del 3 novembre non ha rappresentato un tentativo di riconciliazione nell’ambito di una crisi di coppia, ma semplicemente la risoluzione da parte del nipote di Buoninconti di un falso problema della Ceste.

I messaggi di D. S.

Abbiamo visto in precedenza che D. S. inviò ad Elena Ceste una serie di messaggi che vennero interpretati dalla Ceste in chiave persecutoria e scatenaro la crisi. Quando, nel pomeriggio del 23 gennaio, la Ceste li mostrò a suo marito, Buoninconti non si preoccupò del loro contenuto, ma dello stato psichico di sua moglie.

A pag. 10 del verbale di assunzione di informazioni di Michele Buoninconti del 4 aprile 2014, si legge: “Non erano messaggi significativi, li ho interpretati come messaggi di chi voleva sapere qualcosa da mia moglie (…) mi ha fatto vedere i messaggi ed io ho pensato che non ci stesse con la testa, ho cercato di incoraggiarla e di farla ridere con il solletico (…) anche adesso per quello che sto apprendendo non la definirei una cattiva mamma”.

Proprio riguardo a questi messaggi a pag. 131 della richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “In realtà il tenore del testo degli sms di S. va letto attentamente. Per cominciare Elena non aveva nulla da temere considerato che non aveva fornito alcuna risposta ai messaggi, si tratta di testi che non la esponevano a nulla di compromettente dal proprio punto di vista, piuttosto bersaglio di attenzioni. Occorre interrogarsi del perché solo questi messaggi non erano stati cancellati (…) non aveva interesse a farlo da quando il marito li aveva trovati, letti ed esaminati”.

Dunque la procura concorda con Buoninconti sulla natura dei messaggi inviati da D. S. alla Ceste, e allora perché ha dato tanta importanza al fatto che Buoninconti potesse averli letti?

Per avere un quadro completo dei fatti occorre non solo interrogarsi “del perché solo questi messaggi non erano stati cancellati (pag. 131 della richiesta di applicazione misura cautelare)”, ma anche sul perché la Ceste non rispondesse all’amico D. S. e sul perché lui continuasse a scriverle:

Elena non rispose a D. S. e non cancellò i suoi messaggi, come aveva fatto in precedenza, perché non stava bene.

Questi atti mancati sono la riprova del fatto che la Ceste si trovava in una condizione di disagio psichico.

E il motivo che spinse D. S. a contattarla ripetutamente ci illumina sulla natura di quel disagio: i messaggi di D. S. erano volti ad ottenere chiarimenti in merito ai comportamenti della Ceste nei suoi confronti, ella infatti lo evitava in quanto si era convinta che lui fosse a conoscenza di alcuni “contenuti” pubblicati su Facebook in autunno, contenuti che lei riteneva lesivi della sua dignità. Di quei “contenuti” D. S. non sapeva nulla. Non è difficile credergli, abbiamo visto infatti che nessuno tra coloro ai quali la Ceste aveva raccontato di quei “contenuti” era mai venuto a conoscenza di alcunché. Quei “contenuti” rientrano infatti tra i pensieri ossessivi persecutori che avevano turbato la Ceste a cominciare da ottobre.

Buoninconti non era geloso di D. S.

Le indagini hanno accertato che Buoninconti aveva avuto sempre ottimi rapporti con D. S. Cinque giorni prima della scomparsa di Elena, domenica 19 gennaio 2014, Buoninconti promise un coniglio in regalo a D. S. e glielo fece consegnare proprio da Elena il giorno 20 (pag. 2, verbale di assunzione di informazioni di Michele Buoninconti del 4 aprile 2014). Buoninconti regalò un coniglio a D. S. in quanto lo stesso, il giorno 6 dicembre, gli aveva messo a disposizione il forno per cuocere le pizze e poi perché, sempre nel mese di dicembre, il giorno 16, D. S. gli aveva regalato della legna proveniente dallo smontaggio di un tetto (pag. 6, verbale di assunzione di informazioni di Michele Buoninconti del 4 aprile 2014).

D. S. ha confermato con la sua testimonianza del 20 febbraio ciò che ha riferito Buoninconti agli inquirenti, ovvero che i rapporti tra lui e Michele erano sempre stati amichevoli e cordiali e fatti di scambi di favori.

Dopo la scomparsa della Ceste Buoninconti contattò D. S. in quanto era stato l’ultimo a srcivere ad Elena. Ecco che cosa ha riferito D. S. agli inquirenti: “Quando Michele alle ore 10.00 del 24 gennaio mi chiama con il cellulare di Elena, dicendo che la moglie non si trovava più, mi ha anche detto che la moglie non c’era e che, avendo visto i messaggi tra noi voleva sapere da me qualcosa (…) non era arrabbiato, solo dopo la scomparsa mi ha parlato dei messaggi”.

Dopo la scomparsa della Ceste, Buoninconti invitò, per il bene di Elena, D. S. a dire tutto ciò che sapeva e lo interrogò sul tipo di rapporto che intratteneva con Elena, una riprova del fatto che non aveva ricevuto da parte della moglie alcuna confidenza nei mesi di ottobre e novembre.

Peraltro, non solo Buoninconti chiamò subito D. S., ma fece leggere ai carabinieri i messaggi inviati da D. S. ad Elena. Se Buoninconti avesse ucciso la Ceste a causa di D. S., non lo avrebbe di certo contattato nell’immediatezza della scomparsa della moglie e non avrebbe di certo fatto leggere i suoi messaggi ai carabinieri, perché mai avrebbe dovuto accentrare l’attenzione degli inquirenti sul soggetto che aveva scatenato la sua furia omicida?

Aggiungo che non sta in piedi la seguente ipotesi della procura “Occorre interrogarsi del perché solo questi messaggi non erano stati cancellati (…) non aveva interesse a farlo da quando il marito li aveva trovati, letti ed esaminati (pag. 131 della richiesta di applicazione misura cautelare)”. E’ un problema di tempi, la Ceste infatti non smise di cancellare i messaggi di D. S. dal pomeriggio del 21 gennaio, ovvero non smise di cancellarli a partire dal momento in cui Buoninconti ebbe a disposizione quel telefono, la Ceste smise di cancellare i messaggi di D. S. a partire dal 20 gennaio e consegnò il proprio telefono al marito il giorno 21 gennaio senza preoccuparsi del fatto che lo stesso avrebbe potuto leggerli. Pertanto la causa di quell’atto mancato è da ascriversi ad una nella perdita del controllo da parte della Ceste, una perdita del controllo dovuta al suo disturbo psichico.

Michele non solo non lesse i messaggi inviati da D. S. ad Elena quando il 21 gennaio venne in possesso del telefonino della moglie, ma neanche li ritenne significativi quando, nel pomeriggio del 23 gennaio, la Ceste glieli fece leggere. Buoninconti pensò semplicemente che D. S. si fosse preso una cotta per Elena e che sua moglie non lo ricambiasse per il fatto che la stessa non solo non aveva cancellato quei messaggi, ma anche perché si era lamentata con lui dell’insistenza con cui D. S. tentava di contattarla.

Nella denuncia di scomparsa del 24 gennaio 2014 Buoninconti ha dichiarato: “Ovvio che se mia moglie avesse avuto intenzione di tradirmi mi avrebbe nascosto i messaggi, cancellandoli e non chiedendomi aiuto”.

Il maresciallo Grosso

Il 12 febbraio 2014, a quasi tre settimane dalla scomparsa di Elena, Buoninconti si recò su sua iniziativa alla stazione dei carabinieri di Govone e mostrò di non credere di essere stato tradito. A detta del maresciallo Claudio Grosso Buoninconti non mostrava alcun segnale di gelosia. A tal riguardo, nell’informativa dei carabinieri di Govone, si legge: ’Si notava che comunque, sebbene raccontasse che la moglie gli aveva confessato di essere stata coricata sul sedile passeggero di un’auto con un uomo sopra di lei, lui non associava il tradimento, ma un semplice comportamento errato (…) Il fatto che lui non veda il tradimento è molto evidente in quanto asseriva che il cellulare dell’amico di Costigliole era registrato su quello della moglie con il nome del figlio, come se fosse di quest’ultimo, senza pensare, invece, che poteva averlo registrato così la moglie per non farlo scoprire. Qui si nota la sua ingenuità, forse tanto sicuro della moglie che mai avrebbe dubitato di un tradimento (…) lo si notava stanco, sfiduciato, rassegnato”.

Il maresciallo Claudio Grosso, all’epoca in forza alla stazione dei carabinieri di Govone, aveva ragione.

Michele non era geloso e non controllava né il telefono di sua moglie, né il suo computer. Il fatto che Elena fosse libera di tradirlo non è forse la riprova che lui non la controllava? Non accomuna forse coloro che tradiscono il desiderio di tenere nascosti i tradimenti al proprio partner? In parole povere: Elena si comportava con Michele come la maggior parte dei soggetti che tradiscono il proprio partner, gli nascondeva i tradimenti e non perché lui fosse geloso.

L’incontro con F. R. il 22 gennaio

Riguardo al 22 gennaio la signora F. R. ha dichiarato a “Chi l’ha visto?”: “Io ero andata su per prendere le uova, c’era Michele, me le ha date lui e nel frattempo Elena scende le scale e io ho avuto impressione che fosse magonata, che avesse voglia di piangere, che avesse voglia di dirmi qualcosa, io non ho osato non avevo.. non ho nessun diritto di chiederle sue cose private e ci siamo lasciate così, che adesso col senno di poi potevo chiedere, dovevo chiedere, invece non ho osato (in onda il 9 aprile 2014)”.

Impressioni personali di F. R. compatibili con lo stato di disagio psichico della Ceste, un disagio che si concretizzò in una vera e propria crisi psicotica il giorno seguente.

Riguardo alla testimonianza della signora F. R. la procura, a pag.183 della richiesta di applicazione misura cautelare, scrive: “La signora R. aveva notato Elena in procinto di piangere quel 22 gennaio in cui, come ogni mercoledì, si era recata a casa di Buoninconti per acquistare le uova. Elena era scossa, si stava aprendo con lei, al punto da conservare il ricordo di una donna pronta a commuoversi, sino al sopraggiungere di Buoninconti che aveva bloccato le sue confidenze. Elena (era ancora controllata, osservata a vista) ed il marito erano entrambi in casa prima del suo arrivo. Aveva potuto percepire un forte disagio della donna, tesa e preoccupata”.

Perché la procura scrive “sino al sopraggiungere di Buoninconti che aveva bloccato le sue confidenze” se, in quell’occasione, “confidenze” non ve ne erano state? Che cosa intende la procura con “era ancora controllata, osservata a vista“? Da chi? Quando mai Buoninconti aveva “controllato e osservato a vista” sua moglie?

Voglio farvi riflettere su un altro punto. La procura a pag. 67 della richiesta di applicazione misura cautelare scrive: “in effetti, continuava la signora R., da fine ottobre al 22 gennaio in cui la ricordava sull’orlo del pianto, sottomessa e nuovamente taciturna“, eppure la teste non ha mai usato il termine “sottomessa”. Ecco che cosa disse la signora F. R. riguardo al 22 gennaio 2013: “Ricordo molto bene.. mi sono congedata da Elena che è salita nuovamente in casa, salutandomi sommessamente” (pag. 1, verbale di sommarie informazioni di F. R. del 15 dicembre 2014). Ebbene “sottomessa” e “sommessamente” non avendo lo stesso significato aprono a inferenze diverse. Un errore? E perché proprio “sottomessa”?

L’accensione della caldaia della casa di Govone

Tengo ad analizzare a questo punto l’episodio riferito dal padre di Elena a proposito dell’accensione della caldaia della casa di Govone e interpretato dalla procura come un sintomo riferibile ad “un clima di fortissima tensione” tra i coniugi Buoninconti.

A pag. 59 dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva si legge: “Riferisce in tal caso il testimone di aver sentito per telefono la figlia il 23 gennaio 2014 e, nell’occasione, di averle chiesto di ricordare a Michele Buoninconti di accendere la caldaia. A tale richiesta la persona offesa rispondeva al padre chiedendogli di pensarci lui a contattare direttamente il marito. Tale risposta appare sintomatica di un clima di fortissima tensione già in atto ben prima del momento indicato dall’indagato sia in quanto mai in precedenza Elena Ceste aveva rifiutato di riferire i messaggi del padre al marito (…) La rilevante entità del dissidio può in particolare essere apprezzata considerando che il rifiuto opposto al padre di comunicare al marito una richiesta tanto consueta quanto banale, manifestazione della volontà di evitare anche il minimo contatto anche a costo di vincere la sua ben nota riservatezza, si giustifica unicamente nella profonda avversione di Elena Ceste nei confronti dell’indagato”.

E invece la risposta è altrove. Nessuno dei vicini, dei quattro figli e dei parenti più stretti ha mai riferito di discussioni tra i due coniugi. Elena chiese al padre di rivolgersi direttamente al marito per dirgli di accendere la caldaia della casa di Govone perché pensieri ossessivi persecutori le occupavano la mente. Elena aveva difficoltà a concentrarsi e temeva di non ricordare di dire al marito ciò che le aveva riferito il proprio padre. Questo episodio, inoltre, alla luce degli eventi che lo precedettero e di quelli che lo seguirono, è la riprova che un disagio psichico affliggeva Elena già da quel 23 gennaio e non certo un segnale di incomunicabilità tra marito e moglie.

Quando parlo di eventi che lo precedettero intendo riferirmi ai “pensieri ossessivi persecutori” della Ceste che emergono dai racconti dei suoi confidenti (prodromi) e al contenuto della telefonata con la sorella del mattino del 23 gennaio, telefonato durante la quale Elena era in uno stato pre delirante.

ll giorno dopo la scomparsa di Elena, il 25 gennaio 2014, la sorella D. riferì agli inquirenti di aver parlato con Elena la mattina del 23 e che la stessa le aveva detto “di avere problemi alla testa, tant’è che io chiedevo se si trattasse di mal di testa od altro e lei non riusciva a spiegarsi. Sembrava volesse dire qualcosa ma non riusciva ad esprimersi bene”. Quello descritto è uno stato pre delirante, detto “wahnstimmung”.

Nel momento in cui un delirio nasce o riprende, se svanito, lo psicotico sperimenta uno stato pre delirante detto “wahnstimmung” durante il quale capisce che sta accadendo qualcosa ma non riesce a metterne a fuoco i dettagli.

Quei “problemi alla testa” e la sua incapacità “di spiegarsi” e di “esprimersi bene” erano il germoglio della crisi psicotica che la colpì poche ore dopo, crisi della quale fu testimone Michele Buoninconti nella notte tra il 23 e il 24 gennaio.

Quando parlo invece di eventi che seguirono l’episodio descritto dal padre intendo riferirmi al disturbo delirante (persecutorio) della Ceste del pomeriggio dello stesso giorno, durante il quale fece leggere i messaggi di D. S. a Michele, e alla crisi psicotica notturna che precedette l’allontanamento della donna

Le testimonianze dei figli

Secondo la procura i bambini mentirono riguardo all’assenza di palesi episodi di conflitto tra i genitori: “La falsità che si appalesa dalle dichiarazioni dei ragazzi” (pag. 59, ordinanza di applicazione di misura coercitiva), ma non mentirono invece quando riferirono che, a loro avviso, la loro madre stava bene la mattina della scomparsa.

I figli di Buoninconti non mentirono nei due casi, non assistettero mai a discussioni tra i genitori, perché mai ci furono, e non si accorsero del disagio psichico di Elena perché quella mattina, durante la colazione, la donna appariva serena, e manifestò solo poco prima che se ne andassero, e al solo Michele, il desiderio che non li portasse a scuola. Non solo i bambini si trovavano già in macchina, ma il disturbo della Ceste consisteva in un delirio lucido senza alterazioni dello stato di coscienza che, nonostante la inducesse a dire cose senza senso, la faceva apparire “normale”. Inoltre, Michele nascose tale disturbo ai figli e, al fine di non farli preoccupare, gli riferì di un generico mal di testa.

A seguito della richiesta di Elena di non portare a scuola i figli, Michele la invitò ad andare con lui, ma la Ceste gli rispose di voler restare a casa, allora lui, cercando una qualche forma di rassicurazione, le si rivolse con frasi del tipo: “Elena, mi fai stare tranquillo?” (Intervista di Michele Buoninconti alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, 28 maggio 2014).

Che i bambini fossero in auto nel momento in cui la Ceste chiese a Buoninconti di non portarli a scuola è nell’ordinanza di Marson, a pag. 57: “nessuno aveva sentito la madre dire di temere che loro fossero controllati e che, perciò, non dovevano essere portati a scuola. La migliore conferma di ciò è nel fatto che, senza alcun sviamento da quelle che erano le consuete abitudini, i ragazzi si trovavano tutti in auto, già equipaggiati ai loro soliti posti pronti ad andare a scuola”.

Un grossolano “sviamento da quelle che erano le consuete abitudini” in realtà ci fu: Elena non accompagnò i ragazzi a scuola, come era solita fare. Elena non accompagnò i ragazzi perché non se la sentiva, così come non se la sentì di riferire al marito di accendere la caldaia di Govone.

Conclusioni

Non ci fu una “crisi coniugale” nei mesi che precedettero l’allontanamento della Ceste da casa, semplicemente la donna riferì a familiari e amici di alcune sue paure, che non solo si sono rivelate infondate, ma che sono facilmente identificabili come pensieri ossessivi persecutori, prodromi della crisi psicotica che la colpì tra il 23 e il 24 gennaio 2014. La mancata “crisi coniugale” è un dato che ci permette di escludere che Michele abbia premeditato di uccidere sua moglie, come vuole la procura. Escludere la premeditazione equivale a riconoscere che Buoninconti ha detto la verità sul fatto che Elena stava male, perché escludere la premeditazione ci permette di escludere che Buoninconti si recato dal dottore per depistare, e dunque, Michele non può che essersi recato dal dottore perché Elena stava male. Aggiungo che anche i giudici del tribunale del riesame avevano escluso la premeditazione, una conclusione che avrebbe dovuto far implodere il castello accusatorio ed invece così non è stato, vedremo presto il perché.

I FANTOMATICI DEPISTAGGI

La procura di Asti ha definito depistaggio tutto ciò che non si confaceva alla propria ipotesi omicidiaria e ha dovuto far ricorso all’aggravante della premeditazione non solo per poter giustificare tempi strettissimi per la commissione del delitto e della messa in opera del cosiddetto occultamento, ma anche per poter definire depistaggio comportamenti di Buoninconti che spostavano l’ago della bilancia dalla parte dell’allontanamento volontario, uno su tutti: la sosta all’ambulatorio per informarsi sugli orari di ricevimento del sostituto del dottore, che Buoninconti fece prima di tornare a casa.

Il fatto che Buoninconti si sia fermato a controllare gli orari di ricevimento del sostituto del dottore è stato letto come un depistaggio frutto della premeditazione, eppure la figlia più grande dei coniugi Buoninconti ha confermato agli inquirenti di aver sentito i suoi genitori parlare della prevista visita dal dottore la mattina del 24 gennaio e proprio durante la colazione. Una conferma del fatto che Buoninconti ha raccontato la verità sullo stato in cui versava Elena la mattina della scomparsa.

Eppure a pag. 130 della Richiesta di applicazione misura cautelare in carcere si legge: “Era stato il padre a dire che avrebbe accompagnato la mamma dal medico”.

Peraltro sappiamo anche che non poteva che essere stata la Ceste a riferire al marito che il medico di base aveva nominato temporaneamente un sostituto che avrebbe potuto ricevere in orario diversi dal solito in quanto era passata dallo studio pochi giorni prima e aveva saputo di quella temporanea sostituzione. A tal proposito il medico curante, come si legge a pag. 52 della richiesta di applicazione misura cautelare, “precisava di aver avvisato la sig Ceste della sua assenza per i giorni 22, 23, e 24”.

Il gruppo di ricerca organizzato da Buoninconti

La sera stessa della scomparsa della Ceste Buoninconti organizzò un gruppo di ricerca che da casa sua si spinse anche nell’area del Rio Mersa, area in cui, 9 mesi più tardi, furono rinvenuti i resti di Elena. Secondo la procura Michele organizzò le ricerche in quella zona per evitare che vi tornassero i soccorritori.

Vediamo cosa ci dice la logica:

Se Buoninconti avesse ucciso sua moglie e ne avesse occultato il cadavere dove sono stati ritrovati i suoi resti, non solo non avrebbe scelto di costituire un gruppo per cercarla in quella zona, ma, come ho già detto, non l’avrebbe descritta a familiari, amici e inquirenti come una donna in difficoltà che si era allontanata nuda da casa. Dove l’avrebbero cercata i soccorritori se non intorno a casa sua, luogo dal quale si era allontanata? Dove avrebbero sguinzagliato i cani i gruppi cinofili se non intorno a casa sua, luogo dal quale si era allontanata?

Se Michele avesse ucciso sua moglie e l’avesse (inspiegabilmente) semi occultata sotto casa, avrebbe organizzato un gruppo di ricerca da un’altra parte, perché, pur dirigendo lui le operazioni, egli non avrebbe potuto di certo impedire agli uomini che partecipavano a quella ricerca di ritrovare la scomparsa.

Infine, le ricerche di quella sera non servirono ad evitare altre ricerche in quel luogo, pochi giorni dopo, infatti, il 29 gennaio, i soccorritori tornarono in quell’area e, una volta arrivati al grosso cespuglio al margine del Rio Mersa, fecero retromarcia e di certo non su suggerimento del povero Buoninconti che non si trovava neanche con loro durante quelle ricerche. Il fatto che Michele si informasse dell’andamento delle ricerche è stato letto come sospetto, eppure non è di certo inaspettato che un familiare si informi sulle ricerche di un proprio caro, è invece inaspettato il contrario.

E ora immaginatevi le ricerche di un disperso, soccorritori, cani, conduttori dei cani, familiari, amici, se Buoninconti avesse ucciso sua moglie e l’avesse semi occultata sotto casa, che cosa avrebbe potuto fare per impedire che la trovassero? Buoninconti non è un burattinaio, non teneva uomini e cani al guinzaglio. Buoninconti era un uomo disperato che cercava sua moglie e che, nelle vesti di esperto, prese in mano le ricerche prima dell’arrivo dei gruppi cinofili. Buoninconti non partecipò alle ricerche eseguite con l’ausilio dei cani da traccia, le sue telefonate ad un singolo per informarsi sull’andamento delle ricerche non avevano lo scopo di contrastare le ricerche, quale influenza possono aver avuto quelle telefonate sul fiuto dei cani?

La telefonata a nome di Armando Diaz

Nel giugno 2014, durante una telefonata con una giornalista, Michele Buoninconti, spacciandosi per Armando Diaz, suggerì: “Non controllate quel laghetto, ma cercate tra chi inviava messaggi a Elena. Che volevano da una mamma, una moglie, una casalinga? Alle persone bisogna chiedere, non ai luoghi”.

Come si possa individuare in questa telefonata un depistaggio è un mistero.

Se Michele avesse ucciso sua moglie e ne avesse occultato il corpo non avrebbe certo impedito le ricerche di Elena in aree nelle quali lui sapeva che non vi avrebbero trovato i suoi resti, anzi sarebbe stato ben lieto che gli inquirenti perdessero tempo a cercarli dove non erano.

Michele invitò a non cercare Elena nel laghetto e, come noto, il cadavere della Ceste nel laghetto non c’era, solo perché riteneva che fosse una perdita di tempo. Solo nel caso in cui i resti della donna fossero stati ritrovati nel lago il suo poteva essere considerato un tentativo di depistaggio.

La telefonata con E. B. durante le ricerche

Durante una telefonata con l’amico E. B., che risale al periodo delle ricerche, la linea telefonica cadde. La procura ha creduto che Michele avesse volontariamente interrotto la conversazione per impedire agli addetti alle ricerche di recarsi nella zona citata dall’amico E. B., Isola La Chiappa, dove successivamente venne ritrovato il corpo di Elena.

La trascrizione della telefonata (pag. 41, Ordinanza di riesame del 26 febbraio 2015):

Michele: Ascolta, quello vuole iniziare di nuovo le ricerche, però io credo, come ti devo dire, se c’era qui l’avremmo trovata, E., perché lui mi ha detto che lui aveva della gente in squadra con lui che, chi doveva andare via, chi è così, dice che lui non è sicuro dei parchi che hanno fatto gli altri però”

E. B.: Anche noi però.

Michele: La campagna è tutta pulita, l’elicottero l’avrebbe vista da sopra, non voglio credere che mia moglie è andata a trov… a cercare dei buchi quando non li conosce, perché lei, mia moglie usciva solo sulle strade, in campagna non c’è mai andata nelle strade di campagna.

E. B.: Ma sì, io sono andato a vedere dei posti, in certi posti, che cioè gli ho chiesto e poi li ho trovati per caso, però sono posti che se non li sai non li trovi neanche a morire, e quindi uno che non lo sa non va a cercare quei posti lì, perché non lo trova, capisci? C’era un posto lì ad Isola La Chiappa, in un campo, c’era un posto dietro ad un cespuglio che tu lo vedi dalla strada, ma non sai neanche che c’è, capisci? (cade la linea) pronto?

Michele: E.!?

Enzo: È caduta la linea.

Michele: Sì, è caduta la linea, me ne sono accorto.

Enzo: E lo so ma ti dicevo…

Michele: Rimaniamo così, passa da qua, parliamo da vicino.

Non si stupisca il lettore che in questa intercettazione si parli dell’area in cui vennero poi ritrovati i resti della Ceste, d’altra parte Elena si era persa in quella zona ed è naturale che nelle telefonate si parli di quei luoghi, in altre conversazioni Michele e i suoi colleghi hanno citato altre località non distanti dalla casa della Ceste.

Dalla lettura della trascrizione di questa telefonata si evince che l’amico E. B. e Michele sono concordi sul fatto che la Ceste non possa essersi recata in posti che non conosceva. Non è forse l’amico E. B. a dire a MIchele: “Ma sì, io sono andato a vedere dei posti, in certi posti, che cioè gli ho chiesto e poi li ho trovati per caso, però sono posti che se non li sai non li trovi neanche a morire, e quindi uno che non lo sa non va a cercare quei posti lì, perché non lo trova, capisci? C’era un posto lì ad Isola La Chiappa, in un campo, c’era un posto dietro ad un cespuglio che tu lo vedi dalla strada, ma non sai neanche che c’è, capisci?”?

E’ semplicemente un caso che durante la telefonata sia caduta la linea, e il fatto che sia caduta non ha comportato un fermo delle ricerche, al riprendere della telefonata infatti Buoninconti non ha invitato l’amico a desistere dalle ricerche, ma a passare da lui per organizzarle.

Ancora, riguardo al contenuto della telefonata, Michele riferì a E. B. che Elena non era abituata a frequentare le strade di campagna, tale affermazione era veritiera, quel giorno però la donna era in preda al delirio e, proprio per questo motivo, non si comportò come al suo solito.

I pozzi

Il 4 aprile 2014, Michele Buoninconti ebbe a dire agli inquirenti: “Come vigile del fuoco mi sento di dire che nella provincia di Asti censiscono i pozzi, nei pressi di Cuneo no”. Gli inquirenti si sono spiegati questa sua dichiarazione come un tentativo di orientare le ricerche prospettando ricerche nei pozzi. A tal proposito a pag. 21 e 22 della richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “(Buoninconti) raccontava della presenza di pozzi censiti nella provincia di Asti, molto meno nella provincia di Cuneo, riferiva di aver esplorato alcuni pozzi… escludeva che la moglie potesse essersi tolta la vita buttandosi in un pozzo avendo a disposizione molte altre soluzioni suicidarie, anche in casa”. Dunque Michele riferì che c’erano pozzi non censiti nella provincia di Cuneo e poi escluse che Elena si trovasse in un pozzo. In poche parole: riferì di pozzi non censiti e poi invitò a non cercarla nei pozzi. Come si fa ad attribuirgli un depistaggio?

Peraltro i pozzi vengono controllati di routine durante le ricerche di un disperso e proprio su questo punto, l’ingegner Piazza, direttore del comando provinciale dei vigili del fuoco di Asti, coordinatore delle ricerche di Elena Ceste, il 29 ottobre 2014, sentito a sommarie informazioni, ha dichiarato: “altro è guardare nei cunicoli, dirupi o pozzi dove si può cadere, ma zone impraticabili a piedi per eccesso di vegetazione fitta e spinosa non può essere oltrepassata, né evidentemente sorvolata” e, il 17 ottobre 2014, un collega di Buoninconti ha riferito agli inquirenti: “Abbiamo fatto tanti recuperi nei pozzi anche pericolosi, livello pavimento, abbiamo sempre commentato che può essere facile finirci dentro”. Depistaggi pure questi?

Govone

Il fatto che, dopo aver scoperto che Elena si era allontanata da casa, Michele si sia diretto per due volte a Govone è stato considerato un depistaggio.

Pag.169 della Richiesta di applicazione misura cautelare: “DEPISTAGGIO ATTRAVERSO LE RICERCHE ESTESE A GOVONE L’esigenza di recarsi a Govone, in due distinti tragitti, si può spiegare solo come tentativo di depistare i suoi spostamenti e di disorientare le indagini potenzialmente a suo carico in quelle zone. L’aveva fatto dirigendosi a Govone per l’accensione della caldaia, parlandone con Oreste (al quale non aveva mai parlato in passato), l’aveva ribadito interloquendo con M. nella seconda parte del giro verso San Martino Alfieri e Govone, lo aveva ancora inserito maliziosamente nel corso dell’esame davanti al Pubblico Ministero ove aveva cercato di dirigere le ricerche in pozzi non censiti di quell’area geografica, in provincia di Cuneo. Non aveva alcun senso andare a Govone per garantire tepore nella casa dei suoceri, nel contesto della scomparsa della moglie in condizioni tanto misteriose, quanto preoccupanti. Le domande rivolte rivolte al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Govone circa la possibilità di localizzare le persone tramite le celle telefoniche come pure l’invito a visionare le riprese della telecamera della Banca di San Martino Alfieri si possono spiegare solo come esigenza di documentare la sua presenza lì, obiettivo esclusivo del suo vagare dopo l’omicidio e l’occultamento del cadavere. La telefonata fatta al suocero alle 9.33, in movimento, sul ponte del Tanaro condita dal racconto delle ragioni dell’affaccio, nel tentativo di localizzare la moglie viva o morta rientra nella stessa logica. Si ricorda che si tratta della prima telefonata fatta ai familiari della moglie per comunicarne la scomparsa (…) Aveva scelto un cammino documentabile, in più punti e per diverse ragioni, il ponte San Martino, come luogo dotato (secondo il suo ricordo) di telecamera per allerta meteo e livello d’acqua del fiume, celle telefoniche, avendo nel tragitto effettuato alcune telefonate, la telecamera della banca avendo scelto di passare da quella strada. Non esiste improvvisazione alcuna nel percorso fatto, nulla è parso casuale, fortuito, occasionale, tutto era studiato nei dettagli (…) Il secondo tragitto verso il territorio di Govone, documentato tra l’altro dalle dichiarazioni di C. F. oltre che dalla elaborazione delle celle dei tabulati telefonici, si giustifica solo per la necessità di collocarsi in area lontana da quella di Chiappa di Isola d’Asti e potenzialmente idonea a gettare dubbi su di lui infondati e, quindi, spiegabili (…) C. F. si diceva sicuro (si noti: “si diceva sicuro”, come se il fatto riferito dal contadino fosse particolarmente incriminante ndr) di avere notato Michele Buoninconti transitare in auto ad andatura assai moderata e la circostanza curiosa era che malgrado F. C. fosse rimasto a lavorare la vigna per circa due ore dalle 9.30, non aveva più visto Buoninconti tornare indietro dalla stessa strada”.

Si noti “ove aveva cercato di dirigere le ricerche in pozzi non censiti di quell’area geografica, in provincia di Cuneo”, eppure abbiamo appena visto che, un centinaio di pagine prima della stessa richiesta, a pag. 21 e 22, si legge: “(Buoninconti) escludeva che la moglie potesse essersi tolta la vita buttandosi in un pozzo avendo a disposizione molte altre soluzioni suicidarie, anche in casa”.

Si può facilmente escludere che Buoninconti si fosse diretto a Govone per depistare, egli, infatti, ai soccorritori descrisse Elena come una donna nuda e in stato confusionale, in pratica suggerì ai gruppi di ricerca di cercarla intorno a casa.

Possibile che anche l’andatura moderata di Buoninconti, notata e riferita dal signor F. C., che si trovava nella sua vigna mentre Michele, nell’atto di telefonare e con il finestrino abbassato, percorreva la strada di ritorno da Govone, sia stata interpretata come sospetta e non semplicemente come l’andatura che avrebbe tenuto chiunque stesse cercando un familiare scomparso?

Che cosa intende dire la procura con “Il secondo tragitto verso il territorio di Govone, documentato tra l’altro dalle dichiarazioni di C. F. oltre che dalla elaborazione delle celle dei tabulati telefonici, si giustifica solo per la necessità di collocarsi in area lontana da quella di Chiappa di Isola d’Asti e potenzialmente idonea a gettare dubbi su di lui infondati e, quindi, spiegabili”? Ammetto i miei limiti, non nego di avere difficoltà a interpretare queste parole. Ecco, è il GIP che mi viene in soccorso: “Un clamoroso tentativo di depistaggio è stato attuato anche davanti al pubblico ministero, quando l’indagato, sentito come persona informata sui fatti, ha dichiarato: “Come vigile del fuoco mi sento di dire che nella provincia di Asti censiscono i pozzi, nei pressi di Cuneo no (cfr faldone n.1 – fg.640)”.
Tale apparentemente innocente affermazione, resa nella accertata colpevolezza che il cadavere della moglie si trovava da tutt’altra parte occultato, non poteva che spiegarsi altrimenti che ritenendola funzionale ad introdurre un tema investigativo che è stato obbligato esplorare e che ha comportato rilevanti dispendio e dispersione di energie. Il fatto di aver indirizzato gli inquirenti su una strada che egli ben sapeva essere errata, attirando su di sé sospetti nella certezza che mai avrebbero potuto trovare conferma, non fa che confermare i pesanti sospetti che gravano sull’indagato, oltre a tratteggiare una personalità delinquenziale di assoluto spessore (…) La sua principale preoccupazione era stata viceversa quella di accreditarsi come presente nella zona di Govone, spingendosi fino a creare a suo carico elementi di sospetto, che ben sapeva essere indimostrabili, connessi alla presenza di pozzi non censiti proprio nei luoghi in cui era stato visto transitare ed aveva dichiarato, anche alla vicina di casa, essersi recato (pag. 33/34/35 dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva” .

Quindi, secondo l’accusa Buoninconti attirò i sospetti su di sè per indurre gli inquirenti a cercare Elena nei pozzi e sulla strada per Govone e per far naufragare lì i loro sospetti.

Secondo voi è possibile che la soluzione di un caso sia così contorta? La Kabbalah insegna: “Se un’idea – o un concetto – è complessa o contorta, è probabile che non sia la verità”.

Quale omicida cerca di attirare i sospetti su di sé? Quale omicida non immagina che, una volta attirati i sospetti su di sé, gli investigatori cercheranno il cadavere della sua vittima in tutti i luoghi dove lui è stato il giorno dell’omicidio? E allora, Buoninconti non aveva forse con sé il telefono quando si diresse nell’area di Chiappa di Isola d’Asti dopo aver allertato i vicini? Michele non si preoccupò del fatto che il suo telefonino potesse agganciare la cella di Chiappa di Isola d’Asti, perché non aveva nulla da nascondere, tantomeno il corpo di sua moglie.

Secondo voi, se il povero Buoninconti avesse studiato tutto nei dettagli, come vuole la procura, avrebbe portato con sé il telefonino durante il fantomatico occultamento, e dopo aver allertato i vicini, che avrebbero potuto richiamarlo, e, soprattutto, avrebbe chiamato il telefonino di Elena, per ben due volte, per rintracciarlo, come vuole l’accusa, mentre si trovava in quell’area? Se l’avesse uccisa che interesse avrebbe avuto a farsi localizzare dalle celle telefoniche in quell’area?

Ma, soprattutto, Buoninconti nulla fece per indurre i gruppi di ricerca a cercarla a Govone o nei pozzi, anzi, descrivendola per quello che era, una donna nuda in stato confusionale, invitò tutti a cercarla vicino a casa.

La verità è che Buoninconti si recò una prima volta a Govone in quanto non aveva punti di riferimento, mettetevi nei suoi panni, Buoninconti non sapeva dove cercare, raggiunse la casa dei suoceri e, poiché il suocero glielo aveva chiesto il giorno precedente, accese il riscaldamento, anche per esorcizzare quello che stava vivendo.

Infine, Michele era convinto di poter trovare Elena sulle strade percorribili dalle auto, escluse che si fosse diretta verso Costigliole d’Asti in quanto non l’aveva incrociata tornando a casa, escluse, dopo un rapido controllo, che si fosse diretta nel senso opposto e quindi decise di dirigersi a Govone, non commise un errore, infatti, la casa di famiglia di Govone avrebbe potuto rappresentare un punto di riferimento per Elena anche in quelle condizioni psichiche. Michele si diresse una prima volta a Govone ad una certa velocità e non solo per controllare se Elena fosse a casa, ma anche per cercarla sulla strada che porta al paese. Poi, non avendola trovata, tornò a perlustrare quelle strade a velocità ridotta.

Ho già detto in precedenza che non è difficile intuire il motivo per il quale Buoninconti non avesse chiamato gli anziani genitori di Elena prima delle 9.33, Buoninconti aveva sperato di poter ritrovare sua moglie così da non doverli avvisare della sua scomparsa, tra l’altro vissuta da lui come un fallimento personale.

I conflitti con gli inquirenti

I conflitti con gli inquirenti si spiegano facilmente. Michele era polemico e critico nei confronti dei carabinieri, perché era preoccupato per le sorti di sua moglie.
I familiari di soggetti scomparsi, che non sono coinvolti nella scomparsa del loro caro, difficilmente ringraziano gli inquirenti finché questi non risolvono il caso.
Assistiamo quotidianamente ad attacchi alle forze dell’ordine da parte di familiari di scomparsi o di familiari di vittime di omicidi, tale atteggiamento non è sospetto, lo è invece l’atteggiamento contrario.

Ma vediamo nel dettaglio la natura delle polemiche in questo caso. Il 29 gennaio 2015, nel corso di un’intervista, Buoninconti disse: “Quando chiedevo ai carabinieri se avessero guardato quegli indumenti ed il carabiniere mi ha risposto che non avevano importanza, perché quegli indumenti glieli avevo portati io, e allora io gli ho chiesto: “Portameli indietro, perché io devo vedere una cosa su quegli indumenti”, e lui mi ha detto: “Cosa devi vedere?, ho detto: “Io voglio vedere quelle calze come sono state tolte, perché sono delle calze talmente strette che non riesci a togliertele facilmente”. E lui è venuto a dirmi che le calze erano state tolte come si tolgono le donne, “Sono perfettamente integre”- mi ha detto, e io: “Cosa vuoi dire sono perfettamente integre?” e “No, come se le tolgono le donne da sedute, che non si sono rotte”, “Allora dimmi una cosa: se le ciabatte sono a 10-12 metri dalle calze, mi sai dire se quelle calze sono sporche o pulite?”. E lui è rimasto lì, è venuto ancora un’altra volta, è venuto a dirmi che le calze erano pulite. Però, dico io: “Vi consegno dei panni, volete guardarli subito o vi devo dire io ogni momento cosa dovete fare? (“Chi l’ha visto?”, puntata del 30 aprile 2014)”.

Vi pare “un’esplosione televisiva sproporzionata e potenzialmente rivelatrice di un coinvolgimento attivo del povero Buoninconti nella vicenda de quo (annotazione del 29 aprile 2014)”?

No, non lo è. Vi spiego il perchè. Come ho già detto, se Buoninconti avesse ucciso sua moglie avrebbe tentato di ingraziarsi gli inquirenti, non di inimicarseli E poi, in questa intervista Buoninconti mostrò di mettere in dubbio la propria ipotesi iniziale, ovvero che la Ceste potesse essersi denudata da sola rapidamente.

Buoninconti entrò semplicemente in conflitto con gli inquirenti perché, nonostante dicesse la verità, non gli credevano. E il fatto che non gli credessero, a suo avviso, viziava le indagini ritardando il ritrovamento della moglie.

In merito a quelle parole del povero Buoninconti, a pag. 31 della richiesta di applicazione misura cautelare, si legge: “Alle obiezioni opposte dai militari sulla inverosimiglianza della ricostruzione offerta, Buoninconti si confermava nervoso, silenzioso (…) Nel tracciare, ancora, la giornata del 24 gennaio, l’esordio era stato di riferire di avere sempre e solo detto la verità, segnalando che l’atteggiamento più cauto ed opportuno sarebbe stato quello di non far avere agli inquirenti i vestiti della moglie (forse ora penso che non avrei dovuto portare i vestiti). In questo contesto introduceva molti non ricordo ribadendo la genuinità del suo racconto sul rinvenimento dei vestiti”.

Buoninconti aveva raccontato la verità e si era riferito al proprio racconto dicendo che era la verità, ma nonostante tutto non è stato creduto. Egli aggiunse “forse ora penso che non avrei dovuto portare i vestiti” proprio perché, nonostante avesse raccontato la verità sul rinvenimento dei vestiti, quel rinvenimento, che risultò incomprensibile agli inquirenti, li stava portando sulla strada sbagliata. Abbiamo visto in precedenza il motivo dei “non ricordo” e anche di come Buoninconti non fosse stato l’unico ad avere ricordi confusi di quella mattina.

Gli occhiali della Ceste

Michele non consegnò ai carabinieri di Costiglione d’Asti gli occhiali che la moglie indossava quella mattina e che aveva ritrovato vicino ai suoi pantaloni e alle calze, ma un altro paio, perché, dopo aver consegnato gli abiti di Elena ai carabinieri di Costigliole d’Asti, aveva creduto che gli uomini dell’Arma non li avessero ben analizzati e gli stessi gli erano apparsi negligenti in quanto indicarono in un verbale il sequestro di una chiavetta USB che era rimasta in casa, e dunque pensò che sarebbe stato meglio far analizzare gli occhiali ad un esperto di sua scelta per cercare eventuali impronte lasciate da estranei, poi, però, contattò il comandante dei carabinieri di Govone dicendogli che avrebbe voluto dare al magistrato gli occhiali che aveva trovato in giardino.

Il ritorno a casa

I ROS hanno individuato nelle 8.45 l’orario di rientro a casa di Buoninconti la mattina del 24 gennaio. Ecco che cosa ha riferito in merito Buoninconti durante un’intervista rilasciata ad un giornalista di “Chi l’ha visto?”: “Se non fossero le otto e mezzo, fossero le 8 e 32, 33, massimo 35, io quella mattina non è che sono stato lì a guardare l’orologio al ritorno, all’andata (intervista andata in onda il 26 febbraio, ma di sicuro registrata in precedenza)”.

Ora, secondo voi, questa dichiarazione di Buoninconti è compatibile con la ricostruzione accusatoria che vuole che questo pover’uomo abbia “organizzato, preordinato, programmato l’assassinio della moglie” e abbia poi depistato in ogni modo possibile?

Buoninconti rientrò alle 8.45, non prima, fortunatamente lo si può inferire dalle immagini di alcune telecamere e dai tempi di percorrenza in auto. Secondo la procura alle 8.55.04 aveva già ucciso sua moglie e ne aveva caricato il cadavere in auto, non solo, a quell’ora stava già chiamando la vicina e si trovava già in viaggio per occultare il corpo della moglie. Tempi strettissimi. Impossibili. Ma veniamo all’intervista, secondo voi, se Buoninconti avesse ucciso sua moglie avrebbe detto di essere rientrato alle “otto e mezzo, fossero le 8 e 32, 33, massimo 35”, in netto anticipo quindi sull’orario effettivo? E perché? Per darsi la zappa sui piedi? Per fare il gioco della procura? Un kamikaze, insomma.

Sapete perché disse “otto e mezzo, fossero le 8 e 32, 33, massimo 35”? Perché Buoninconti si sentiva in colpa per non aver portato sua moglie con sé quella mattina, per aver perso tempo in comune per la rata dell’IMU, per aver perso tempo allo studio del medico di base per leggere gli orari di ricevimento del sostituto del dottore. Buoninconti si sentiva in colpa perché, nonostante avesse capito che Elena non stava bene, la lasciò sola. Buoninconti si sentiva in colpa per non aver dato la priorità alla salute di sua moglie.

Un’ultima riflessione

Il 24 gennaio 2014 Michele Buoninconti chiamò la vicina M. C. alle 8.55.04 per dirle che non trovava Elene, ma non le disse subito che era nuda. Un dato che si accorda perfettamente con il racconto di Buoninconti. In poche parole: quel giorno Buoninconti fornì alla vicina informazioni in work in progress, ovvero inizialmente informazioni parziali e poi complete perché le stava acquisendo in quei frangenti. Michele non le riferì subito che Elena era nuda, perché non lo capì subito, nel momento in cui aveva chiamato M. C. aveva trovato solo la maglia e le ciabatte sul tombino di fronte alla porta di casa, ma non gli altri indumenti, che trovò invece poco prima delle 8.57.28, mentre stava uscendo dal cancello per dirigersi a casa di A. R., e dunque solo dopo aver ritrovato la seconda serie di indumenti ipotizzò il denudamento.

Buoninconti solo intorno alle 9.30 riferì a M. C. del denudamento della moglie. Non ci sono pertanto incongruenze nel racconto di Buoninconti

Aggiungo per completezza che, come già detto, in quel rinvenimento non si può individuare uno “staging”. Lo “staging” ha infatti regole ben precise: coloro che alterano una scena del crimine infatti “preparano” la scena perché la vedano gli inquirenti o eventuali testimoni. Se Michele Buoninconti avesse ucciso la moglie e avesse optato per uno “staging” dei suoi indumenti in cortile non li avrebbe poi rimossi prima che qualcuno li vedesse in terra. Oltretutto, a che scopo Buoninconti avrebbe dovuto inventarsi di aver trovato gli abiti in due zone diverse del giardino? Solo Elena aveva ragione di lasciare i suoi vestiti in due zone diverse del giardino, ella, infatti, dopo essere rientrata in casa ed essersi tolta la giacca, che Michele le aveva messo sulle spalle, premette il pulsante di apertura del cancello automatico, uscì di nuovo, si tolse prima le ciabatte e il maglione, che lasciò sul tombino di fronte alla porta di casa, quindi si avvicinò al cancello per impedire che si chiudesse e lì finì di denudarsi.

Buoninconti quella mattina raccolse gli abiti abbandonati da Elena in giardino e li mise in macchina, perché sperava di ritrovare sua moglie e rivestirla.

Il convincimento di Michele Buoninconti

Buoninconti credette inizialmente che Elena avesse fatto “un gesto folle”, ma, dopo giorni di ricerche infruttuose, si convinse che Elena non potesse essersi allontanata volontariamente e da quel momento cominciò a ipotizzare soluzioni alternative, indagando, cercando risposte e, comprensibilmente, aspettandosele, in specie, dagli inquirenti: “Non si sarebbe potuta allontanare, né da me, né dai miei figli da sola, non l’avrebbe mai fatto… deve tornare, se qualcuno l’ha presa, la riporti a casa” (intervista a “Chi l’ha visto?”, 5 febbraio 2014).

Dunque Buoninconti ipotizzò inizialmente che Elena si fosse allontanata da casa in stato confusionale e poi cambiò idea perché si era convinto di aver fatto ricerche impeccabili intorno a casa. Buoninconti, infatti, all’epoca non immaginava che Elena si sarebbe potuta nascondere a causa del delirio persecutorio. Concetto duro da digerire alla maggior parte degli italiani che hanno gridato allo scandalo una volta che ho divulgato la mia ricostruzione dei fatti, eppure è un concetto semplice e lineare. Mi spiego meglio. Se foste inseguiti da un malintenzionato armato di coltello, che fareste? Vi nascondereste per non essere accoltellati. Ecco, un soggetto in preda ad un delirio persecutorio può immaginare che qualcuno voglia ucciderlo, avvelenarlo o, come nel caso della Ceste, portarlo via da casa, e dunque fugge e si nasconde. La sfortuna ha voluto che nessuno vedesse la Ceste allontanarsi da casa nuda (d’altra parte viveva in mezzo alla campagna), che nessuno tra i soccorritori la trovasse nelle prime ore, che fosse stremata dal delirio tanto da addormentarsi e, soprattutto, che si fosse nasconda in un rio in pieno inverno. Se, infatti, si fosse allontanata in primavera o in estate, la Ceste sarebbe stata avvistata dai contadini nei giorni seguenti alla sua fuga.

Ora, il fraintendimento degli inquirenti nasce non solo dal non aver preso in considerazione il fenomeno del denudamento negli psicotici, ma anche dal non aver tenuto in conto il convincimento di Buoninconti riguardo alle ricerche sue e degli altri soccorritori, eppure è comune a tanti soccorritori dirsi convinti di aver fatto ricerche impeccabili. C’è di più, molti di loro, quando vengono ritrovati i resti del disperso in un’area da loro battuta ipotizzano che quei resti non ci fossero al momento delle ricerche, si veda il caso di Yara Gambirasio. Rientra dunque nella norma che Buoninconti fosse convinto che Elena non potesse essere vicino a casa altrimenti l’avrebbe trovata. Da qui bisogna partire per comprendere la sua reazione alla notizia del rinvenimento dei resti di sua moglie. E poi è necessario sapere quanto segue:

Dalla richiesta di applicazione misura cautelare, pag. 67: “Una grande parte dell’indagine sin dai primissimi momenti successivi alla formalizzazione della denunzia di scomparsa della donna è stata dedicata alla verifica e riscontri delle segnalazioni effettuate (…) il tema degli avvertimenti, molti anonimi con scritti di ogni genere (…) è stato curato con estrema attenzione, anche laddove appariva con evidenza frutto di farneticanti ricostruzioni, ove non suggestioni ed esclusivo interesse ad apparire in televisione (…) la risonanza mediatica di questi fatti non ha di certo giovato alla lealtà e spontaneità del contributo fornito dai cittadini, interessati al proprio momento di popolarità ben più che a favorire l’accertamento della verità. Si sono palesati soggetti pronti a simulare fatti, effettuare scherzi, incurante dei risvolti investigativi (…) Nulla di quanto portato all’attenzione degli inquirenti, nelle maniere più bizzarre (sms indirizzati ai familiari della donna, sensitivi e loro ricostruzioni, asseriti amici di Elena) è stato tralasciato (…) In ordine cronologico, dalla fine del mese di settembre, le ricerche si sono dovute concentrare oltre Nazione per un avvistamento segnalato e documentato a Tenerife (…) Mostrato il fotogramma alla famiglia, parte di loro (escluso il marito che evidenziava diversità somatiche e di postura) aveva riconosciuto, autoalimentando le proprie legittime e giustifica speranze, in quella donna in attesa presso un ambulatorio medico di Tenerife il proprio congiunto (…) Nelle giornate del 18 e 20 ottobre 2014 il nucleo investigativo dei CC di Asti è stato impegnato nel riscontro di altre due segnalazioni.

Dunque, prima della notizia del rinvenimento di resti umani nel canale vicino a casa, familiari ed inquirenti erano stati bombardati da segnalazioni di ogni tipo, che si erano poi rivelate tutte una perdita di tempo ed energie.

È dal contesto che è necessario partire per analizzare le parole di qualcuno.
Il contesto è la chiave: Michele era convinto di aver fatto ricerche impeccabili ed era stato bombardato da segnalazioni di ogni genere tutte cadute nel vuoto.

Voglio farvi riflettere su un altro punto: avrete notato che la procura ha messo tra parentesi il fatto che, nel settembre 2014, Buoninconti non avesse riconosciuto nella foto della donna di Tenerife sua moglie, mentre gli altri familiari sì.
È inaspettato che un’informazione di tale portata sia tra parentesi.
Il fatto che Buoninconti, a differenza degli altri parenti di Elena, non abbia riconosciuto in quella donna la Ceste non può essere considerato un dato di nessuna rilevanza.

Se Buoninconti avesse ucciso sua moglie, una volta fornitagli una via d’uscita su un vassoio d’argento, perché non l’avrebbe percorsa?

Perché Buoninconti riferì a chi indagava che quella: no, non poteva essere Elena, nonostante gli altri parenti fossero convinti che lo fosse?

Perché non lo era e perché non l’aveva uccisa lui.

In sintesi: la procura ha sottovalutato tutto ciò che portava ad escludere una responsabilità di Buoninconti nella scomparsa della moglie.

Vedremo presto il perché.

Infine, non vi chiedete anche voi se la seguente riflessione non valga anche per tanti dei testimoni di cui si è servita la procura: “la risonanza mediatica di questi fatti non ha di certo giovato alla lealtà e spontaneità del contributo fornito dai cittadini, interessati al proprio momento di popolarità ben più che a favorire l’accertamento della verità. Si sono palesati soggetti pronti a simulare fatti, effettuare scherzi, incurante dei risvolti investigativi”.

La notizia del rinvenimento dei resti

Il 18 ottobre 2014, circa 9 mesi dopo la scomparsa della Ceste, alcuni operai addetti alla bonifica di un’area del Rio Mersa, distante poche centinaia di metri da casa Buoninconti, ritrovarono i resti della donna. L’analisi dei resti della Ceste escluse le più comuni cause di morte violenta e non permise di risalire alla causa della sua morte. Pertanto, non solo quel ritrovamento a poche centinaia di metri da casa, ma anche le risultanze autoptiche e il fatto che non vi fossero brandelli di tessuto sui resti della Ceste si sommarono a tutti gli altri dati che deponevano per un suo allontanamento volontario, previo denudamento, in preda al delirio.

Il 18 ottobre 2014 l’amico L. informò telefonicamente Buoninconti del ritrovamento dei resti di un corpo umano a poche centinaia di metri da casa sua. La procura ha ritenuto che il contenuto della telefonata confermasse l’ipotesi omicidiaria. Vediamo invece come gli scambi con l’amico escludano che Buoninconti sapesse che quei resti erano di Elena.

Prima di ricevere la telefonata dell’amico L., Buoninconti era stato già avvisato di quel ritrovamento da una sua conoscente. La figlia di G. si era recata, infatti, a casa sua per dirgli che un corpo era stato rinvenuto in un canale a circa due km da casa sua.

La telefonata dell’amico L.

L.: Ciao Michele, eh nient.. è stato trovato un corpo però non si sa niente.

Michele: Lo so perché è venuta la figlia di G. fino a casa, ha detto due km da qui, ma dimmi: Ti risulta sia in avanzato stato di decomposizione? E’ avanzato stato di decomposizione? E’ avanzato?

L.: Non te lo so dire.

Michele: E vabbò, tanto non ci sarei andato lo stesso, era solo curiosità di sapere se era verso Isola o verso Motta e se è in avanzato stato di decomposizione.

In primis, visto che Buoninconti era già stato informato dalla figlia di G., non stupisce il fatto che abbia mostrato all’amico L. di sapere che i resti fossero stati ritrovati in un canale.

La frase “E vabbò, tanto non ci sarei andato lo stesso, era solo curiosità di sapere se era verso Isola o verso Motta” si spiega facilmente: lo ripeto, Michele, come gli altri soccorritori, si era illuso di aver fatto ricerche impeccabili in quell’area e riteneva impossibile che Elena si fosse nascosta in una zona più volte battuta, lo provano le intercettazioni dei giorni seguenti e poi tutte le precedenti segnalazioni erano cadute nel vuoto.

E non stupisce neanche il fatto che Buoninconti abbia fatto domande sullo stato di conservazione di quei resti, Michele era stato informato di più recenti ricerche di altri scomparsi, un contadino e una prostituta e per questo fece domande sullo stato di quel corpo. Se l’amico gli avesse, infatti, risposto che il corpo ritrovato era in buone condizioni, evidentemente egli avrebbe potuto facilmente escludere che potesse trattarsi di quello di sua moglie, eventualità che tendeva ad escludere proprio perché era convinto di aver cercato bene intorno a casa.

Peraltro, se Buoninconti avesse ucciso la Ceste e l’avesse nascosta nel Rio Mersa dove furono ritrovati i suoi resti, non avrebbe avuto senso che chiedesse all’amico notizie sullo stato di conservazione del corpo, egli avrebbe, infatti, saputo che, trattandosi proprio del corpo di Elena, dopo nove mesi in un fosso, esposto alle intemperie, non poteva che essersi decomposto, ma, quand’anche avesse avuto dubbi sullo stato dei resti, avrebbe potuto accertarsi personalmente delle condizioni degli stessi.

Il comportamento di Buoninconti dopo il ritrovamento dei resti della moglie

Nei giorni successivi al ritrovamento dei resti della Ceste, Michele riferì ai familiari di aver cercato la moglie proprio nei pressi del luogo del rinvenimento, nei pressi, si badi bene, non in quel luogo preciso. In merito, durante l’interrogatorio di garanzia, Buoninconti ha detto: “io ho fatto la strada che da casa mia va verso la stazione; dalla stazione c’è una stradina che sbuca vicino alla… alla CR Asti, ho percorso quella lì, sono ritornato indietro… ho fatto un cerchio… di là sono ripartito, ho fatto la chiesetta… ho girato per via Remonzino, da lì ho tirato dritto, sono andato fino ad Isola d’Asti, forse non ci sono nemmeno arrivato completamente, però mi ricordo che sono andato in quella direzione lì (pag. 24 della trascrizione)”.

Conversazione tra la sorella di Elena e Michele:

Michele: Però io dico: possibile? E’ anche una zona che io sono… sono andato sia con la macchina al mattino presto e sia alla sera, sono andato con le pile a vedere, là ci sono dei tubi, no? per attraversare.

D.: Quando sei andato con D. e G.?

Michele: Ecco brava, noi, e io ero andato anche la mattina presto.

D.: Vicino alla ferrovia.

Michele: Ecco sì.

D.: D. me l’ha detto, ma sarà anche una zona che eravate andati di sera.

Michele: E che diamine! Ma possibile che non l’abbiamo vista?

D.: Ma lì c’è tanta acqua?

Michele: No, no, ma non credo sia stato il motivo dell’acqua lì, sicuramente lei si sarà incamminata e avrà avuto un malore ed è caduta lì dentro, perché, se voleva annegare, c’era più acqua qui vicino a casa nostra.

D.: Ah.

Michele: E sicuramente lei si è incamminata e vagava, vagava senza meta ed è caduta lì dentro presa da malore, però la cosa strana è che io quella strada lì, quando mi sono incamminato con la macchina, sono sceso dalla macchina, ho guardato se ci fossero impronte… ho riconosciuto le impronte delle lepri, ma impronte di piedi non ne ho…

D.: Ah, lì vicino, al mattino questo?

Michele: Al mattino, sì, il primo diciamo, perché lei sicuramente si è incamminata in quella strada dove voleva andare. E’ una strada che lei non ha mai fatto comunque, però non so, lei era in uno stato di confusione… e solo che dico io, dico, possibile che non avvertiva il freddo, perché non hai provato a camminare scalza su una zona fredda, dopo un po’ non riesci più ad appoggiare i piedi per terra, lei ne ha fatto un km.

Si notino le domande che si fa Buoninconti. Non sono le domande di un assassino. In quell’ottica sarebbero controproducenti. Se l’avesse uccisa lui, infatti, che vantaggi avrebbe tratto dal porsi queste domande al telefono con la sorella?

Ancora dichiarazioni di Buoninconti:

“Solo che mi meraviglio che non l’abbiano vista, perché io in quella zona lì ci sono andato, anche io personalmente con dei colleghi, eh non l’abbiamo vista, io non posso dire che non c’era, non l’abbiamo vista e proprio quando uno dice di non devi vederla, non devi trovarla, perché io la prima strada che ho fatto quella mattina è stata quella strada lì, ci pensi!”.

“Lei me lo aveva detto che voleva andarci su quella strada, anche se non l’aveva mai fatta… E io là c’ero andato, per primo. Ma là non ho visto niente, solo le impronte delle lepri”.

“Non c’erano impronte di piedi, solo quelle delle lepri… io quella mattina sono andato fino a là con la macchina, è la prima strada che ho fatto con la macchina, che l’ho infangata tutta, prima di infilarmi nella strada sono sceso per non impomaciarla tutta e lì ho visto che non c’erano impronte di piedi, ma solo di lepri, ed allora sono andato via, se avessi visto le impronte di un piede, se avessi guardato più attentamente, figurati, si vedevano tutti i campi puliti e il grano appena seminato, che sarà stato 5 cm, era tutto fango e impronte di lepri”.

La logica e il buon senso ci aiutano a comprendere le parole di Buoninconti:

Buoninconti aveva cercato in diverse zone e pure nei pressi del luogo dove sono stati rinvenuti i resti della moglie, non stupisce, posto che Elena si era persa in quei paraggi. Non può dunque apparire sospetto che abbia riferito inizialmente solo genericamente dei molteplici luoghi battuti e che, solo in seguito a quel rinvenimento, abbia invece affermato di essere stato nelle immediate vicinanze del sito del rinvenimento, per la sorpresa che ebbe nel sapere che la donna era stata ritrovata in un luogo dove lui era stato a cercarla senza trovarla. Eppure la procura la definisce “la pregressa mancata rivelazione”. Quante volte ci è capitato di dire le stesse parole di Michele dopo aver trovato un oggetto che avevamo perso e poi cercato senza trovarlo proprio nel luogo del successivo ritrovamento?

Ma il punto più importante è che Buoninconti non ha mai avuto motivo di giustificare la sua presenza nei pressi del luogo del rinvenimento dei resti della moglie, come invece ha sostenuto la procura, in quanto le celle telefoniche non collocano un soggetto in un punto preciso, ma in una vasta area di territorio che equivale alla superficie della cella, e nessun testimone ha mai dichiarato di averlo visto a ridosso di quell’area. Anzi, il fatto che lo abbia raccontato prova che non aveva nulla da nascondere e che era invece torturato dal pensiero di essere stato vicino a trovare sua moglie la mattina della scomparsa.

Non esiste altra spiegazione logica a queste frasi ripetute quasi in loop, non vi è altra ragione per la quale Buoninconti racconti di essere stato in quel luogo, se non il rammarico per non aver trovato sua moglie, un rammarico che non gli dà pace.

Il sito del rinvenimento dei resti

A pag. 28 dell’ordinanza di riesame i giudici si esprimono in merito all’intercettazione di una telefonata intervenuta tra Buoninconti e un parente poco dopo il ritrovamento dei resti di Elena: “Peraltro, dalla propria abitazione, Buoninconti manteneva un monitoraggio sulla zona, qualora vi fossero segnali di un eventuale ritrovamento del cadavere, monitoraggio evidentemente utile a nono trovarsi impreparato in caso di novità delle ricerche (progr. 26847 del 27.10.2014, con un parente di Agri: “Però io la riesco a vedere dal balcone di casa mia, Giampà! Io la tenevo sotto il mio sguardo, Giampà! Io la tenevo sotto il mio sguardo… da casa mia si vede! Io mi.. quell… quel sabato quando ho visto quella confusione, ho capito subito”)”.

Le parole di Buoninconti non sono un’ammissione, ci rivelano invece il suo stupore per quell’inaspettato ritrovamento proprio a due passi da casa e, per di più, in una zona battuta da lui e dagli altri soccorritori. Alle parole riportate dai giudici seguirono altre parole di Buoninconti, parole che diradano la nebbia, ma che inspiegabilmente non sono state riportate nell’ordinanza, le seguenti: “senza sapere niente mi sono immaginato subito tutto. Mi sono detto: “Noi abbiamo il prosciutto davanti agli occhi e, quando mi vengono a dire “occultamento di cadavere” e io gliel’ho rinfacciato: “Ma come, all’aria aperta occultamento di cadavere? Questa è l’ultima beffa che mi fate”– ho detto.”

Su questo punto a pag. 202 della richiesta di applicazione misura cautelare si legge : “Nel corso delle laboriose ricerche Buoninconti aveva mantenuto un controllo vigile nei primissimi momenti gestendole e organizzandole in prima persona, dissimulando seri intenti perlustrativi, nelle fasi successive prendendovi parte a distanza, facendosi aggiornare. Del resto scrutava e studiava dall’abitazione il punto esatto dell’occultamento del cadavere dall’interno guardando attraverso la finestra del piano superiore pronto eventualmente ad intervenire con occasionali privati passanti”.

Il lettore è già a conoscenza del fatto che il povero Buoninconti non fu l’unico ad organizzare le ricerche di sua moglie intorno a casa, non gli si può pertanto attribuire in alcuno modo il fallimento delle ricerche dei gruppi cinofili

A pag. 203 della stessa richiesta si legge: “Non gli è stato possibile operare in occasione dell’effettivo rinvenimento del corpo, stante la veste pubblica dell’evento, in quanto la bonifica veniva gestita ed eseguita dal Comune di Isola d’Asti, con immediato intervento delle forze dell’ordine. Da questo momento in poi avrebbe inserito nella scaletta del suo racconto (non disponendo di soluzioni eversive), come da programma architettato e studiato nei dettagli in prevenzione, lo scenario del delirio e della crisi emotiva di una donna in preda a preoccupazioni insorte nella notte prima e nella stessa mattinata della scomparsa. A suo modo di vedere, anche nel contesto del pur remoto ritrovamento del corpo poteva dimostrare di avere qualcosa da dire di sensato, credibile, attendibile in ragione della coerenza del narrato sin dai primissimi istanti dell’atto di denuncia, non poteva temere le ricerche innanzitutto perché sino ad allora avevano dimostrato di aver fallito in ogni caso perché la ricerca mirata avrebbe condotto altrove e perché, a far tempo dalla scomparsa, non sarebbe stato rinvenuto un cadavere investigativamente utile”.

Come si fa a pensare che Buoninconti abbia premeditato l’omicidio di sua moglie e, con circa 4 ore di tempo a disposizione, ne abbia semi occultato il corpo sotto casa e dopo aver allertato i vicini?

Perché mai Buoninconti avrebbe invitato poi i soccorritori a cercarla intorno a casa per averla descritta in stato confusionale e nuda?

Perché avrebbe organizzato anch’egli ricerche in quella zona?

Buoninconti non poteva di certo inseguire e condizionare ogni componente dei gruppi di ricerca per impedirgli di ritrovare sua moglie, tantomeno i loro cani, e poi a distanza, come avrebbe potuto essere sicuro che le ricerche avrebbero fallito?

Come avrebbe potuto fare affidamento sulla possibilità che “non sarebbe stato rinvenuto un cadavere investigativamente utile”?

La procura ipotizza che Buoninconti fosse “pronto eventualmente ad intervenire con occasionali privati passanti”?

Buoninconti lavorava, badava ai figli e all’orto, vi pare possibile che passasse il suo tempo alla finestra a controllare che nessuno si avvicinasse ai resti della Ceste?

E poi, chi gli avrebbe garantito che quei resti, una volta scheletrizzati, non sarebbero scesi a valle del rio?

LE RICERCHE

Le ricerche dei dispersi eseguite con l’ausilio dei cani addestrati possono fallire per molteplici ragioni: l’invecchiamento della traccia olfattiva; le condizioni climatiche; la contaminazione della scena per l’accorrere di molti soggetti (familiari, inquirenti e curiosi); la scelta del testimone d’odore, un oggetto o un indumento appartenente al disperso che può trattenere residui del profumo dei saponi da bucato o può risultare contaminato dall’odore di un altro soggetto.
A volte le ricerche falliscono a causa dell’errata interpretazione delle indicazioni del cane (lettura del cane) da parte del conduttore.

Investire nelle ricerche dei dispersi permette di salvare vite umane e, in caso di morte dei dispersi, se i corpi vengono ritrovati rapidamente, le autopsie danno risposte esaustive.
In altre povere: investire nelle ricerche permette di ridurre i costi delle indagini e gli errori giudiziari. Se il corpo di Elena Ceste fosse stato trovato subito si sarebbe potuto concludere senza ombra di dubbio per una morte per assideramento e Michele Buoninconti non sarebbe in galera.

La casistica docet

Prima di affrontare il tema “Le ricerche di Elena Ceste”, vi invito a riflettere sulla casistica:

– Nel tardo pomeriggio del 24 dicembre 2018 alcuni sciatori hanno avvistato il corpo senza vita di Mattia Mingarelli, 30 anni, nel bosco di Chiesa Valmalenco (Sondrio), in località Barchi, a poca distanza dal rifugio nel quale era stato visto per l’ultima volta il 7 dicembre in compagnia del proprio cane e dal quale, per giorni, erano partite le infruttuose ricerche con i cani.

– A Noventa Padovana, durante le ricerche del corpo di Isabella Noventa, una ruspa ha scavato senza esito in un punto indicato dai cani.

– Il cadavere di Christiane Seganfreddo, scomparsa il 30 dicembre 2013, fu rinvenuto per caso il 15 febbraio 2014, a soli 2 chilometri da casa e in una zona già battuta infruttuosamente dagli addetti alle ricerche. All’indomani di quel rinvenimento il questore di Aosta Maurizio Celia dichiarò: “Saremo stati neanche a 50 metri di distanza, con noi avevamo i cani ma non hanno fiutato nulla” (16.2.2014, lastampa.it, Christian Pellissier), mentre Renato Guillet, marito di Christiane Seganfreddo, disse: “È paradossale. Proprio stamattina ho avuto un’altra segnalazione e un attimo dopo mi dicono che Christiane è stata trovata nelle vigne sopra casa nostra dove era passato anche il cane da ricerca. Ho un po’ di rabbia addosso” (15.2.2014, ilmessaggero.it).

– Il cadavere di Eleonora Gizzi fu rinvenuto per caso da un tecnico della Società Autostrade che stava effettuando le verifiche periodiche dei piloni di un viadotto, 5 mesi dopo la sua scomparsa, a soli 2 chilometri da casa e a pochi metri dal luogo dove era stata avvistata l’ultima volta da un parente, e, soprattutto, in una zona che era già stata battuta senza esito dai soccorritori e dai cani da traccia. I gruppi cinofili erano passati nella zona del ritrovamento nei giorni successivi all’allontanamento da casa di Eleonora, squadre di volontari avevano battuto l’area giorno e notte senza localizzarla; eppure lei era lì, a pochi metri di distanza dal punto in cui era stata avvistata l’ultima volta il giorno della sua scomparsa. Il padre di Eleonora, Italo Gizzi, all’indomani del ritrovamento, dichiarò: “Sono certo che sia lei, me lo sento. La cosa che mi tormenta è che è poco distante da casa ma soprattutto sono luoghi che sono stati battuti da chi la cercava. Non riesco a trovare pace ma io non mi muovo da qui, aspetto finché non mi daranno delle risposte” (24.8.2014, tgcom24.mediaset.it).

– Nel caso di Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate il 26 novembre 2010, tre dei cani dei gruppi cinofili seguirono una traccia olfattiva che portava al cantiere di Mapello fuorviando le indagini. Il corpo della giovane venne poi individuato per caso da un appassionato di aeromodellismo il 26 febbraio 2011, tre mesi dopo l’omicidio, in un campo di Chignolo d’Isola che era stato già battuto dai soccorrittori. In seguito al ritrovamento dei resti di Yara non mancarono le polemiche riguardo alle ricerche.

– Nel caso dell’omicidio di Melania Rea, un cane da traccia, dopo aver fiutato gli indumenti della donna, si diresse nei pressi del monumento ai Martiri della Resistenza, a Colle San Marco. Le indagini appurarono che la Rea, quel giorno, non era stata in quella zona.

– Durante le ricerche di Laura Winkler, una ragazza di 13 anni di Brunico (Bolzano), scomparsa il 21 aprile 2013, i cani Bloodhound fiutarono le tracce della ragazza fino ai bordi della strada provinciale, all’altezza di un hotel chiuso in località Bagni di Salomone, eppure la Winkler non vi era transitata. Due giorni dopo la sua scomparsa, la Winkler fu ritrovata in un burrone della Valle di Anterselva poco distante dal maso del nonno dal quale si era allontanata.

– I conduttori dei cani del gruppo cinofilo che intraprese le ricerche del piccolo Tommaso Onofri riferirono che i cani avevano suggerito “direzione autostrada”, le indagini conclusero che i rapitori avevano preso la direzione opposta.

– Il 3 agosto 2020, Viviana Parisi e suo figlio Gioele si sono allontanati da casa in auto. La Parisi è stata coinvolta in un incidente in autostrada nei pressi di Caronia, Messina, a più di cento chilometri da casa sua. Dopo il sinistro la Parisi ha scavalcato il guard rail con il bambino in braccio e si è allontanata nel bosco. Il corpo di Viviana Parisi è stato ritrovato 6 giorno dopo, il 9 agosto, a poche centinaia di metri dal punto in cui era stata vista l’ultima volta con suo figlio Gioele, e in una zona che era già stata battuta dai soccorritori. I resti di Gioele sono stati rinvenuti da un carabiniere in pensione a poche centinaia di metri dal luogo del rinvenimento del corpo della madre 10 giorni dopo, il 19 agosto.

LE RICERCHE DI ELENA CESTE

Dopo le prime infruttuose ricerche della Ceste, organizzate da Buoninconti, cui parteciparono alcuni suoi colleghi e i familiari, le ricerche vennero condotte dai gruppi cinofili.

Neanche i gruppi cinofili riuscirono a trovare il cadavere di Elena Ceste nonostante la donna si fosse nascosta a poche centinaia di metri da casa.

Durante le operazioni di ricerca della Ceste del 25 e del 27 gennaio 2014, i gruppi cinofili utilizzarono i cosiddetti testimoni di odore (metodo americano o Whitney), ovvero fecero annusare ai cani un oggetto o un indumento appartenuto alla scomparsa.

I testimoni d’odore utilizzati durante le ricerche di Elena Ceste furono: una garza sterile che era stata per 20 minuti a contatto con la “zona ascellare” dell’accappatoio della Ceste; un assorbente non usato e stropicciato prelevato da una borsetta della donna; un pigiama della Ceste; una garza sterile tenuta all’interno di un paio di scarpe in uso alla Ceste; un paio di calze di lana della Ceste; una garza sterile tenuta 20 minuti all’interno di uno stivale di gomma in uso alla Ceste; una garza sterile tenuta 20 minuti a contatto con una delle ciabatte indossate dalla Ceste la mattina della scomparsa e abbandonate in giardino.

Viene da chiedersi se tre dei sette oggetti utilizzati come testimoni d’odore siano stati una buona scelta. L’accappatoio è, infatti, utilizzato dopo la doccia e può trattenere tracce di sapone che inquinano la traccia; l’assorbente si trovava in una borsa all’interno della quale solitamente transitano una miriade di oggetti che possono avere odori molto forti (soldi, portafogli in pelle, burro di cacao, rossetto, fazzoletti di carta); le ciabatte che Elena aveva ai piedi la mattina della scomparsa, e che si era tolta in cortile, furono indossate dalla madre a poche ore dalla sua scomparsa.

La “traccia rituale”

Il Maresciallo Capo A. G., illustrando il metodo di lavoro del Centro Carabinieri Cinofili addetti alle ricerche di Elena Ceste, disse che i cani avevano fiutato una cosiddetta “traccia rituale”, ovvero una traccia corrispondente al tragitto percorso quotidianamente da Elena Ceste a bordo della sua vettura.

Quella “traccia rituale” portava verso la chiesa del paese, una chiesa frequentata dalla famiglia Buoninconti. Il Maresciallo riferì anche che i conduttori dei cani non erano stati in grado di seguire la traccia olfattiva in direzione opposta, ovvero quella lasciata dal cadavere della Ceste quella mattina, perché, sebbene più “fresca”, era una “traccia minima” in quanto il corpo della donna doveva essere stato trasportato a bordo di un veicolo e non esposto all’aria.

Dunque, secondo il Maresciallo Capo A. G. i cani individuarono una “traccia rituale”, ma non la “traccia fresca”, perché il corpo della Ceste si trovava chiuso nel bagagliaio dell’auto o semplicemente all’interno dell’abitacolo durante il percorso da casa al luogo in cui furono ritrovati i suoi resti.
Eppure la Ceste, il 22 gennaio aveva fatto il percorso fiutato dai cani, opposto a quello di quella mattina, a bordo dell’auto e, poiché era inverno, di sicuro aveva guidato con i finestrini chiusi, in una condizione evidentemente di “traccia minima” pari a quella che si sarebbe creata nel caso la donna fosse stata trasportata al Rio Mersa chiusa nel bagagliaio di un’auto o all’interno dell’abitacolo, non è quindi inaspettato che i cani, a parità di “traccia minima”, abbiano fiutato la “traccia vecchia” e non la “traccia fresca”?

Alla luce delle risultanze investigative, non vi è dubbio che Elena si sia diretta a piedi nel luogo del rinvenimento dei resti

Aggiungo che non solo i cani addetti alle ricerche della Ceste non fiutarono la “traccia fresca” e non “minima” lasciata dal suo corpo in movimento a piedi, ma, evidentemente, non fiutarono neanche la “traccia fresca” prodotta dai suoi abiti che si trovavano all’interno dell’auto di Buoninconti, “minima”sì, però “fresca”.

A queste mie riflessioni si aggiunga il fatto che entrambe le auto dei coniugi Buoninconti furono sequestrate e analizzate dai RIS e gli esperti non vi rilevarono alcun segno del trasporto di un cadavere

Il cane di Elena

I media hanno ricamato molto sul cane di Elena e Michele è stato sospettato di averlo volutamente tenuto fuori dalle ricerche della moglie per il timore che ne trovasse il corpo. Un’accusa infondata. Il figlio della vicina, M.C., sentito il 4 aprile 2015, ha riferito agli inquirenti: “Dopo pranzo le ricerche erano proseguite con Michele, il cane ed il figlio G.”. E’ pertanto falso che lo spaniel Gandalf non abbia partecipato alle ricerche della sua padrona. Michele lo condusse con sé il giorno stesso della scomparsa della moglie nella speranza che la ritrovasse, ma si rese conto che, non essendo addestrato, il cane non era in grado di seguire eventuali tracce e per questo motivo credette che fosse una perdita di tempo consegnarlo all’amico G. S. successivamente. La casistica prova quanto sia difficile anche per i cani addestrati trovare i dispersi, pertanto non può stupire che Gandalf non abbia trovato la propria padrona, stupisce invece che qualcuno si aspettasse che la trovasse.

Dei fantomatici depistaggi attribuiti a Buoninconti durante le ricerche della Ceste abbiamo in parte già parlato. E’ venuto il momento di farvi riflettere su alcune delle parole di un amico e collega di Buoninconti che partecipò alle prime ricerche “ipotizzavamo una donna in transito in aree camminabili, calpestatili (questo ci impone il protocollo) in zone superficiali: al più poteva essere una donna scivolata e avremmo trovato cosa che avremmo cercato (senza trovarne) tracce di scivolata. La zona dove è stato trovato il corpo non aveva senso che venisse esplorata, è ingarbugliata di rovi, noi si guardava superficialmente”. Le parole riportate sono state pronunciate al termine di una lunga e drammatica testimonianza da un collega di Michele, che, si badi bene, non è stato sentito nell’immediatezza dei fatti, ma il 17 aprile 2015, ben 15 mesi dopo i fatti, più di 2 mesi e mezzo dopo l’arresto di Buoninconti, dunque in pieno processo mediatico, ma, nonostante tutto, ha pronunciato parole che lo scagionano. Infatti, il collega, al termine del colloquio con il magistrato, ha detto “ipotizzavamo”, riferendoci che non fu il solo Buoninconti ad “ipotizzare” e che quei primi soccorritori seguirono semplicemente il protocollo.

E dunque non vanno forse rivisti i metodi di ricerca standard di persone scomparse in stato confusionale se è vero che “il metodo di ricerca standard di persone scomparse in stato confusionale è quello di battere aree di potenziale pericolo visibili, non esplorare luoghi inaccessibili, nascosti, sperduti, inarrivabili, grossi cespugli, rovi, boschi, fossi impraticabili al camminamento” così come riferito da un addetto alle ricerche di Elena Ceste? Lo dico perché gli psicotici si nascondono e vanno quindi cercati proprio nei “luoghi inaccessibili, nascosti, sperduti, inarrivabili, grossi cespugli, rovi, boschi, fossi impraticabili al camminamento”.

Le microtracce di terra sugli abiti di Elena Ceste

La procura ha ritenuto che due micro tracce di terra repertate sugli abiti abbandonati dalla Ceste in cortile il 24 gennaio 2014 potessero supportare l’ipotesi omicidiaria.

A pag. 172 della Richiesta di applicazione di misura cautelare si legge infatti:

“TRACCE DI TERRA COMPATIBILI CON QUELLE DEL RIO MERSO (MERSA ndr) SU UNA DELLE CALZE E SUL PANTALONE (TRACCE TRA LORO UGUALI), INCOMPATIBILI CON IL TERRENO PRESENTE NEL CORTILE DELL’ABITAZIONE

Come esposto, nei vari temi trattati in questa richiesta, le tracce di terra sugli indumenti: pantalone ed una delle calze autoreggenti sono incompatibili con la composizione chimica del terreno ove Buoninconti aveva riferito di averli rinvenuti, del tutto compatibili con il sito di giacenza dei resti cadaverici. Non solo quindi è dimostrato che Buoninconti si era recato in quel luogo (Rio Mersa ndr) ma che lo avesse fatto stando a contatto con il terreno, sporcandosi le mani con cui aveva poi afferrato gli indumenti della moglie sino alla materiale consegna ai carabinieri. Sono indumenti che lui aveva toccato per averli presi, messi nella busta, mostrati ai genitori di Elena dalle rispettive vetture, quindi afferrati per la definitiva consegna alle forze dell’ordine. Indumenti che non erano mai stati in cortile a contatto con quel suolo”.

Vediamo come invece non si può parlare né di compatibilità delle tracce di terra ritrovate sugli indumenti della Ceste con i campioni di terra prelevati al Rio Mersa, né di incompatibilità tra dette tracce e il campione di terra prelevato a casa Buoninconti Ceste.

Il quesito della procura

Gli indumenti della Ceste sono stati prima genericamente analizzati dai RIS e poi da un consulente della procura, un dottore in chimica industriale, Ivo Pavan.

Al dottor Pavan la Procura ha posto il seguente quesito:

“Esaminata la relazione dei RIS Carabinieri di Parma accerti quali approfondimenti possono essere necessari per stabilire l’esatta natura e origine dei terreni”

Il dottor Pavan ha analizzato 7 campioni di terra, tra questi un unico campione di terra proveniente dal giardino di casa Buoninconti e 4 campioni di terra provenienti dall’area del Rio Mersa.

Il dottor Pavan non ha effettuato personalmente la campionatura dei terreni, ha lasciato che fosse un carabiniere a prelevare i campioni.
Il carabiniere ha prelevato 4 campioni nell’area del Rio Mersa e un unico campione nel giardino di casa Buoninconti.
Tutti i campioni sono stati prelevati a più di 9 mesi dai fatti.

Dopo il prelievo effettuato dal carabiniere nel giardino di casa Buoninconti, a Michele Buoninconti è stato chiesto di firmare il relativo verbale, e lui, invece di firmare, ha scritto in calce:

“Mi rifiuto di firmare per l’ennesima presa in giro”

Il consulente della Procura Pavan ha riferito in udienza che “la quantità di campione che era presente, sia sugli abiti, sia sul pantalone, che era al livello di uno sbuffo proprio, di micro tracce, e sia a livello della calza, era estremamente minima ed estremamente contenuta”: 6 particelle di terreno sui pantaloni e 6 o 7 sulla calza.

Pavan ha comunque proceduto all’analisi mettendo a confronto i 7 campioni in suo possesso e ha concluso così: “Le tracce di terreno riscontrate sui pantaloni e su uno dei collant di Elena Ceste, sono compatibili con i terreni dell’area circostante il rio e con il terreno della zona di rinvenimento del cadavere, e non sono compatibili con il terreno dell’abitazione di Buoninconti Michele.”

Una conclusione che ha elevato ad indizio quell’esigua presenza di terra sugli abiti di Elena

Ma veniamo all’analisi del dottor Pavan.

Pavan, durante il confronto con la geologa Di Maggio, consulente della difesa, ha detto:

“con ragionevole certezze ed un’elevata probabilità, che l’unico terreno in cui non erano presenti contemporaneamente gli elementi fosforo e zolfo, era il terreno dell’abitazione di Buoninconti Michele”

Si noti che Pavan, riferendosi a quell’unico campione di quell’unico prelievo di terra effettuato nel giardino di Buoninconti, ha parlato genericamente di “terreno dell’abitazione di Buoninconti Michele”, vedremo come questo termine sia inappropriato.

Ma vediamo come il chimico Pavan è giunto alle sue conclusioni e quale materiale ha analizzato

Sono stati oggetto d’analisi:

il residuo della calza
il residuo dei pantaloni
il fango del rio
il terriccio della zona limitrofa al rio Mersa
il fango della zona rinvenimento del cadavere
le terre nelle vicinanze del rio Mersa
le terre dell’abitazione di Buoninconti

Si noti come Pavan abbia impropriamente definito “terre dell’abitazione di Buoninconti” un unico campione di terra prelevato a casa di Buoninconti.

Alcune riflessioni sulle analisi dei terreni per eventuali comparazioni

Il terreno di una zona antropizzata, come può esserlo un’aia di un’abitazione di campagna, è estremamente disomogeneo a causa della costante presenza di fenomeni riferibili alle attività dell’uomo, come il transito delle autovetture, lo scarico delle merci più disparate, che, per un qualsiasi motivo, possono “inquinare” aree ristrette, e per la presenza in alcune aree di terricci che possono provenire da serre che hanno cresciuto piante poi trapiantate nel terreno d’interesse, o per la presenza di terre prelevate altrove per ripianare alcune aree, ad esempio durante la costruzione della casa.

Solo nel caso si voglia definire da un punto di vista chimico una miscela omogenea, quale può esserlo una soluzione, si ottengono informazioni precise sulla composizione di tutto l’insieme anche analizzandone un solo campione. Ma, come è facilmente intuibile, un terreno non è una miscela omogenea in soluzione, un terreno non è una miscela omogenea di particelle diverse mescolate e distribuite in modo uniforme, per questo motivo un unico campione non è rappresentativo di tutto il terreno e neanche di un metro quadrato del terreno.

Per definire da un punto di vista chimico un terreno disomogeneo qual è quello di un’aia di un’abitazione privata è necessario sottoporlo a svariate decine di prelievi secondo una mappatura a maglia ben disposta e solo dopo averli esaminati tutti e dopo aver fatto una media dei risultati ottenuti è possibile caratterizzarlo, sempre però con una certa approssimazione.

La geologa Di Maggio, nella sua consulenza, ha sostenuto che un unico campione di terreno prelevato nel giardino di Buoninconti non era sufficiente per una comparazione e che la quantità di terreno presente sugli indumenti non era sufficiente per svolgere tutte le analisi che di regola vengono svolte sui campioni di terreno in ambito forense e che non era idonea a ben caratterizzare il terreno al punto di dare compatibilità tra i terreni presenti sugli indumenti e i terreni presenti nelle zone del Rio Mersa e non compatibilità con i terreni presenti nell’abitazione di Buoninconti.

L’osservazione di almeno 2000 particelle è idonea a ben caratterizzare un campione di terreno, 2000 particelle sono pari in termini di peso a 80 milligrammi di terra, è infatti necessario un numero sufficientemente elevato di particelle per avere risultati statisticamente significativi.

Dunque, la quantità di particelle presenti sugli abiti della Ceste non solo era irrisoria, ma la composizione di quell’unico campione di terra prelevato nel cortile di casa Buoninconti non è rappresentativo del terreno del giardino di casa Buoninconti, e neanche del terreno che si trova a un metro di distanza dal sito del prelievo

In merito, a pag. 6 delle Motivazioni della Suprema Corte di Cassazione si legge: “le tracce di terriccio presenti sui collant e sui pantaloni della Ceste, per la loro esiguità, non consentivano di operare un confronto scientificamente affidabile. Si rilevava che andava ugualmente apprezzato sul piano meramente indiziario, con tutti i limiti del caso, come la rilevata presenza di zolfo e fosforo sui pantaloni e collant fosse incompatibile con la composizione del terreno del giardino di casa”.

Si sbagliano i giudici della Suprema Corte, se, infatti, la prima parte di questo stralcio è condivisibile, non lo è la seconda, il fatto che non ci fossero zolfo e fosforo nell’unico prelievo di terra eseguito a casa di Buoninconti non significa nulla perché la composizione del terreno raccolto con quell’unico prelievo non rappresenta “la composizione del terreno del giardino di casa”. Peraltro, tutti i campioni di terreno sono stati prelevati più di nove mesi dopo i fatti e tutti i terreni, nel frattempo, sono mutati, in specie per quanto riguarda il contenuto di zolfo e fosforo, due elementi ritenuti dirimenti dal consulente. Infatti, la composizione di un terreno di un’area antropizzata varia con il tempo, non è costante come può esserlo quella di un terreno non frequentato dall’uomo.

In sintesi, secondo voi il terreno del Rio Mersa è un terreno sempre uguale a se stesso o è un terreno che cambia da un punto di vista chimico da un giorno all’altro a seconda delle sostanze che raggiungono il corso d’acqua?

In poche parole: come si fa a pensare che il terreno prelevato al Rio Mersa dopo il rinvenimento dei resti della Ceste fosse sovrapponibile per composizione di elementi al terreno presente al Rio Mersa 9 mesi prima? Chi ci dice che all’epoca della morte della Ceste lo zolfo e il fosforo fossero presenti nei terreni del Rio Mersa?

La relazione dei RIS

La relazione tecnica dei RIS di Parma sullo stato degli indumenti di Elena Ceste ritrovati in giardino, e consegnati da Buoninconti ai Carabinieri il 24 gennaio, espone quanto segue:

“Gli indumenti sono apparsi in uno stato di apparente utilizzo, il maglione e due collant autoreggenti di taglia e colore diversi erano rovesciati e le calze non mostravano lacerazioni sotto la pianta dei piedi.

Sui pantaloni sono state rinvenute tracce di varia natura in quantità esigua e ne sono state campionate due. La prima è stata genericamente definita terriccio. La seconda ha mostrato la presenza di granuli fluorescenti attribuibili a materiale di origine vegetale.

Le tracce di terriccio sono state rinvenute in posizione posteriore.

Una delle due calze, la più chiara è risultata imbrattata da una traccia di terriccio compatibile con quella rinvenuta sui pantaloni.

Sulla pianta dei piedi sono stati notati e descritti aloni fluorescenti propri di tracce di sudore, come pure di calpestio di superficie umida senza scarpe, né pantofole.”

Un quadro compatibile con la mia ricostruzione dei fatti e con il racconto di Buoninconti.

– Le tracce di terra sulle calze e sui pantaloni non sono databili ed essendo microtracce avrebbero potuto trovarsi sugli abiti della Ceste da giorni.

– Sui pantaloni sono state rilevate tracce di varia natura, un dato che apre alla possibilità che la Ceste avesse già indossato quei pantaloni nei giorni precedenti.

– Le calze della Ceste furono ritrovate insieme ai pantaloni vicino al cancello, il maglione e le ciabatte di fronte alla porta di casa. Gli aloni fluorescenti presenti sulle calze sono compatibili con la camminata dalla porta di casa al cancello sul terreno coperto di guazza, ce lo dicono i RIS.

– Le calze, nonostante la camminata, non si ruppero, perché si trattava di spesse calze elastiche del costo di 100 euro l’una. Alla Ceste era stata da poco asportata una grossa vena varicosa e per questo indossava le calze contenitive. Quel tragitto dal tombino al cancello con le sole calze elastiche ai piedi è dunque compatibile con le condizioni in cui furono ritrovate le stesse dal marito. Perché i giudici del riesame, a pag. 50, sostengono che se Elena avesse percorso i pochi metri dal tombino al cancello tali indumenti si sarebbero danneggiati o lacerati? Non erano a conoscenza del fatto che si trattava di spesse calze elastiche?

La ricostruzione più probabile è la seguente: Elena si bagnò la pianta delle calze camminando senza le ciabatte dal tombino al cancello e, togliendosi i pantaloni, ne sporcò la parte posteriore lasciandoci uno “sbuffo” di terriccio e residui vegetali (repertati dai RIS nella forma di granuli fluorescenti attribuibili a materiale di origine vegetale).

Nonostante nella relazione dei RIS si legga che gli aloni potevano pure essere “di calpestio di superficie umida senza scarpe né pantofole”, la procura ha ritenuto di poter affermare con certezza che gli aloni sotto le calze fossero stati prodotti dal sudore senza disporre un’indagine più approfondita. Nel sudore sono presenti infatti oltre all’acqua, urea, immunoglobuline, acidi grassi volatili, colesterolo e ioni di sodio, potassio e cloro.

La procura avrebbe dovuto far esaminare le calze ad un esperto che avrebbe dovuto trovare questi elementi in una concentrazione proporzionale alla quantità di sudore che avrebbe potuto creare quegli aloni di umidità sotto le calze.

Peraltro, quand’anche si fosse potuto affermare con certezza scientifica che la terra sugli abiti della Ceste è compatibile con quella del Rio Mersa, non saremmo certo stati in grado di datarne la deposizione. Il Rio Mersa, infatti, si trova a pochi metri da casa Buoninconti ed Elena avrebbe potuto sporcarsi nei giorni precedenti.

Infine voglio farvi riflettere su questa parte dello stralcio della richiesta di applicazione misura cautelare che ho riportato in testa all’articolo:

“Non solo quindi è dimostrato che Buoninconti si era recato in quel luogo (Rio Mersa ndr) ma che lo avesse fatto stando a contatto con il terreno, sporcandosi le mani con cui aveva poi afferrato gli indumenti della moglie sino alla materiale consegna ai carabinieri. Sono indumenti che lui aveva toccato per averli presi, messi nella busta, mostrati ai genitori di Elena dalle rispettive vetture, quindi afferrati per la definitiva consegna alle forze dell’ordine. Indumenti che non erano mai stati in cortile a contatto con quel suolo”

Secondo voi, se Buoninconti si fosse calato nel Rio Mersa con il cadavere di sua moglie sarebbe risalito in auto con le scarpe pulite, i pantaloni puliti e con sole 13 particelle di terra sulle mani e granuli fluorescenti attribuibili a materiale di origine vegetale, che non avrebbe trasferito sul volante dell’auto, ma, invece, sugli abiti della moglie e a mo’ di “sbuffo”.

Vi rispondo io, se Buoninconti avesse condotto il cadavere di sua moglie al Rio Mersa i RIS avrebbero trovato in auto segni di quel trasporto e fango del Rio Mersa in specie sui pedali.

L’omicidio per mano di “una persona diversa”

Vediamo come, nel tentativo di escludere che la fuga della Ceste potesse essere stata “architettata da altri” e nel tentativo di escludere che l’omicidio della Ceste potesse essere stato commesso da una “persona diversa”, l’accusa abbia tratto conclusioni che permettono di escludere che un omicidio sia stato commesso e che accreditano, invece, l’ipotesi dell’allontanamento volontario in preda ad una crisi psicotica.

A pag. 194 della Richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “Del pari impraticabile la eventualità di una fuga architettata da altri. Per cominciare: la donna era nuda, scalza, con i suoi indumenti nel cortile di casa, il che non si giustifica in nessun modo. Irragionevole agevolarne la fuga e disfarsi dei vestiti. Ancora più implausibile, tale ricostruzione, in ragione del ritrovamento del cadavere nudo presso il Rio Mersa a una distanza esigua dalla privata abitazione (…) immaginare quindi l’interesse di qualcuno ad uccidere Elena Ceste tra le ore 8.15 e le 8.40 del 24 gennaio 2014 approfittando dell’assenza del marito da casa (malgrado fosse inusuale che andasse a portare i bambini a scuola), caricando il corpo di lei per disfarsene nel Rio Mersa ad un chilometro da casa appare del tutto impraticabile. Se i tempi, per come ricostruiti sono compatibili con l’essere stato Buoninconti ad uccidere la moglie ed occultarne il cadavere, tanto più sarebbero inadeguati per l’azione di una persona diversa che, senza l’uso delle chiavi, spogliandola completamente, abbia lasciato tutto in casa, vestiti in cortile, portandosi via Elena Ceste, gettandola nel Rio Mersa senza essere visto, senza le urla di lei (anomalie tutte negate dai vicini presenti nelle rispettive abitazioni). Il tempo a disposizione peraltro, essendo ella stata vista alle 8.15 e il marito di ritorno alle 8.40/8.45, avrebbe dovuto anche tener conto di un rientro di Buoninconti anticipato non potendo essere state messe in conto la sosta al comune e quella per l’esame del foglio con indicazione dell’orario di ricevimento del medico di base. In questo brevissimo tempo si sarebbe dovuto consumare l’assassinio, il denudamento, l’allontanamento da casa silenzioso ed occulto”.

Perché nessuno ha collegato il denudamento con la psicosi che era stata diagnosticata alla Ceste dallo psichiatra della procura? Il fatto che i resti della Ceste siano stati rinvenuti nascosti, ma non occultati, e ad una “distanza esigua dalla privata abitazione” non è un’ulteriore riprova che Elena raggiunse quel luogo da sola?

Se l’avesse uccisa Buoninconti l’avrebbe propriamente occultata e ad una certa distanza da casa. Se l’avesse uccisa Buoninconti e avesse occultato il corpo sotto casa, non l’avrebbe poi descritta come una donna nuda e in stato confusionale. Se l’avesse uccisa Buoninconti niente e nessuno l’avrebbe costretto a dare l’allarme con il cadavere in auto, e niente e nessuno l’avrebbe costretto a nasconderne il corpo a poche centinaia di metri da casa. Se Buoninconti avesse ucciso sua moglie al suo ritorno dal paese, come contestatogli dall’accusa, egli avrebbe potuto prendersi tutto il tempo possibile prima di dare l’allarme, almeno fino al ritorno dei bambini dalla scuola.

Secondo i giudici del riesame Buoninconti era “pressato nel suo agire dall’unica esigenza di dare l’allarme in tempi quantomeno ragionevoli“ (pag. 51 dell’Ordinanza di riesame). Un comportamento da innocente de facto, evidentemente. Non è forse illogico pensare che, pochi secondi dopo aver commesso un omicidio e dopo aver messo in auto il cadavere della vittima, un assassino faccia due telefonate, ma soprattutto informi i vicini della scomparsa della vittima per accentrare l’attenzione su di sé prima dell’occultamento del cadavere a 800 metri da casa? Una ricostruzione illogica e che non ha pari nella casistica.

Si noti “(malgrado fosse inusuale che andasse a portare i bambini a scuola)“. Perché nessuno ha associato il malessere di Elena con il fatto che quella mattina non avesse accompagnato i bambini a scuola come era solita fare?

Elena non accompagnò i bambini a scuola perché non se la sentiva e non se la sentiva perché non stava bene.

Per lo stesso motivo Elena aveva chiesto a suo padre di chiamare Michele per chiedergli di accendere la caldaia della casa di Govone, temeva, infatti, di non essere in grado di riportare al marito le parole del padre e questo perché pensieri ossessivi persecutori le occupavano la mente.

Perché la procura non ha associato il fatto che Elena non abbia accompagnato i bambini a scuola con l’accordo da lei preso con il marito per recarsi dal dottore in mattinata?

Perché la procura ha messo tra parentesi “(malgrado fosse inusuale che andasse a portare i bambini a scuola)“?

Vi ricordo che la procura ha messo tra parentesi un’altra informazione come questa, ovvero un’altra informazione che pesava sul piatto della bilancia dell’allontanamento volontario, quella relativa alla donna segnalata a Tenerife e riconosciuta come Elena dai familiari, ma non da Michele Buoninconti (Pag. 67 della richiesta di applicazione misura cautelare).

Non appare anche a voi inaspettato che informazioni di tale portata siano state poste tra parentesi?

E ora, se volessimo credere alle conclusioni della procura, ovvero che Elena non sia morta per assideramento, ma sia stata uccisa, è evidente che una “persona diversa” avrebbe avuto molto più tempo di Buoninconti per uccidere la Ceste e per condurne il corpo al Rio Mersa. Michele lasciò la propria abitazione intorno alle 8.10 per farvi ritorno circa 35 minuti dopo, alle 8.45, quindi una “persona diversa” avrebbe potuto uccidere la Ceste in quell’intervallo di tempo, un intervallo di tempo maggiore di quello a disposizione di Michele che dopo essere rientrato a casa alle 8.45 e, secondo l’accusa, aver, in qualche imprecisato modo, ucciso la moglie e averne caricato il corpo in auto, già alle 8.55.04 chiamò la vicina M. C. con il cadavere di Elena in auto e mentre era in viaggio verso il luogo del rinvenimento dei resti.
Roba da Superman.

Versione che, peraltro, come abbiamo visto in precedenza, non tiene conto di ciò che era emerso dai tabulati telefonici e dalle testimonianze, ovvero che alle 8.55.04 Michele era a casa e che alle 8.57.28 Michele si trovava davanti al cancello dell’abitazione di A. R., ovvero ancora nei pressi di casa sua e quindi non ebbe mai neanche il tempo materiale per raggiungere il sito del rinvenimento dei resti di Elena.

Infine “gettandola nel Rio Mersa senza essere visto, senza le urla di lei (anomalie tutte negate dai vicini presenti nelle rispettive abitazioni)” e “In questo brevissimo tempo si sarebbe dovuto consumare l’assassinio, il denudamento, l’allontanamento da casa silenzioso ed occulto”, non sono forse considerazioni che valgono per tutti, anche per Buoninconti, o a Michele vogliamo attribuire dei superpoteri?

A pag. 70 dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva il Gip prova ad argomentare i motivi per i quali abbia escluso che l’omicidio potesse essere stato commesso da un estraneo affermando di ritenere “del tutto inverosimile che nel corso di tali eventi Elena Ceste non abbia opposto alcuna resistenza, né abbia urlato, tentando di attirare l’attenzione dei vicini, che pure erano presenti e non hanno registrato alcuna anomalia”. Questa lettura dei fatti non vale forse anche per il povero Buoninconti?

L’assenza di segni di una colluttazione

A pag. 58 dell’Ordinanza di riesame si legge: “certamente Buoninconti non mostrava alcun segno che potesse testimoniare una colluttazione o una qualche forma di reazione da parte della sua vittima”.

Se la Ceste fosse stata aggredita si sarebbe difesa. Elena era giovane e sana fisicamente, se fosse stata aggredita avrebbe reagito dilatando i tempi di questo fantomatico omicidio.

Possibile che il fatto che Buoninconti non mostrasse “alcun segno che potesse testimoniare una colluttazione o una qualche forma di reazione da parte della sua vittima” non abbia indotto i giudici del riesame a mettere in dubbio l’ipotesi omicidiaria? Possibile che l’assenza di conferme all’ipotesi omicidiaria (assenza di segni sul corpo di Buoninconti, assenza di segni di trasporto di un cadavere sulle auto in uso a Buoninconti, assenza di segni riferibili all’occultamento sulle calzature di Buoninconti, sui suoi abiti, e sulla sua auto) non abbia indotto i giudici del riesame a mettere in dubbio il castello accusatorio della procura?

È anche irrilevante al fine della ricostruzione degli eventi che si susseguirono quella mattina il fatto che il cane della famiglia Buoninconti sia rimasto in cortile dopo l’apertura del cancello e l’allontanamento di Elena, il cane, infatti, non si allontanò neanche quando fu Michele ad aprire ripetutamente il cancello quel giorno.

È interessante, invece, il fatto che quel cane non abbia abbaiato mai quella mattina richiamando in tal modo l’attenzione dei vicini, un comportamento di certo non dirimente, ma di sicuro non una conferma della fantomatica aggressione.

Inoltre, come ho già detto, Buoninconti lasciò la casa verso le 8.10 e al suo ritorno, circa 35 minuti dopo, trovò la casa come l’aveva lasciata, nonostante Elena fosse rimasta a casa per occuparsi delle faccende domestiche e “per preparare il pranzo”, come vuole la procura.

Il fatto che, al ritorno di Michele, la casa fosse ancora in disordine avvalora l’ipotesi dell’allontanamento volontario della Ceste di poco posteriore alla partenza del marito e dei figli.
Se la Ceste fosse rimasta in casa, avrebbe, infatti, rifatto i letti dei ragazzi e avrebbe sistemato la cucina, di sicuro non avrebbe perso tempo, posto che doveva fare le faccende, preparare il pranzo per sei persone e recarsi dal dottore con Michele.

Del letto matrimoniale rifatto si è già detto, fu Elena a rifare quel letto e lo rifece in compagnia del figlio più piccolo prima che lo stesso lasciasse l’abitazione con il padre per la scuola.

Infine, nella richiesta di misura cautelare in carcere, a pag. 152, la procura afferma che, dopo aver ucciso la moglie nuda, Buoninconti non ebbe il tempo di rivestirla. Ma come? Se Buoninconti avesse ucciso Elena avrebbe avuto almeno 4 ore di tempo per rivestirla ed occultarne il corpo.

L’autopsia negativa per una morte violenta

Il vero punto cruciale di questo caso è che nulla indica che sia stato commesso un omicidio, neanche l’esame medico legale, eppure un uomo è stato condannato in via definitiva a 30 anni di carcere

A pag. 8 dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva e a pag. 15 dell’Ordinanza di riesame si legge:

“l’avanzato stato di decomposizione della vittima non consenta di pervenire a conclusioni scientificamente sostenibili in merito alle ragioni del decesso”

A pag. 49 dell’ordinanza di riesame si legge:

“fronte di tutto ciò, come detto, la causa della morte rimane un dato agnostico potendosi al più ipotizzare per via deduttiva, secondo i consulenti, un omicidio per asfissia in sé compatibile con le altre risultanze investigative”

Compatibile con quali “altre risultanze investigative”? 

Nessun segno di una colluttazione fu rilevato sul corpo di Buoninconti e i vicini di casa non registrarono alcuna anomalia la mattina della scomparsa della Ceste; nessun segno del trasporto di un cadavere fu rilevato sulle auto in uso a Buoninconti; nessun segno riferibile al fantomatico occultamento di un cadavere nel Rio Mersa è mai stato rilevato sulle auto, sugli abiti, sulle calzature e sul corpo di Buoninconti, non vi erano, infatti, tracce di fango all’interno delle auto dei coniugi Buoninconti, né sugli abiti di Michele, né sulle sue calzature ascrivibili al fantomatico occultamento.

Nei casi in cui non si può risalire alla causa di morte attraverso lo studio dei resti, sono le altre risultanze investigative a far testo, e in questo caso le risultanze investigative, comprese quelle autoptiche, non sono di supporto ad una ricostruzione omicidiaria, ma pesano tutte e, lo ripeto, tutte sul piatto della bilancia dell’allontanamento volontario della Ceste, previo denudamento, e susseguente morte accidentale per assideramento.

A pag. 191 della Richiesta di applicazione misura cautelare si legge: “il corpo della donna era pervenuto al luogo del ritrovamento completamente nudo (…) l’esame necroscopico condotto sui resti cadaverici non è risultato utile a stabilire la causa del decesso, i resti cadaverici non mostrano lesioni di carattere traumatico”.

Dunque al momento del ritrovamento il cadavere della Ceste era in parte saponificato e in parte scheletrizzato e non vi erano fratture, né segni riconducibili a colpi d’arma da fuoco, né segni riconducibili a lesioni da arma da taglio. Ma, nonostante tutto, l’accusa ha rinviato a giudizio Buoninconti per omicidio. Come è possibile che un’autopsia negativa per morte violenta abbia giocato a sfavore di Michele Buoninconti?

Come si è potuta sostenere una causale connessa ad asfissia nella più totale assenza di riscontri investigativi?

Non solo non vi era, infatti, sul cadavere della Ceste alcuna lesione di carattere traumatico, ma non è stata trovata neanche su quei resti nessuna traccia di un mezzo atto a cagionarla (nei casi di strangolamento è frequente che si trovi ancora intorno al collo del cadavere il mezzo usato per portare a termine il delitto) e poi non vi era alcun segno di una colluttazione sul corpo di Buoninconti.

Nel libro Istituzioni di Medicina Legale di Clemente Puccini, alle pag. 431 e 432, riguardo al genere di omicidio ipotizzato dall’accusa, si legge:

“La soffocazione diretta, si vede raramente negli omicidi di soggetti adulti sani in quanto è difficile mantenere la compressione degli orifizi aerei nell’individuo che si difende vigorosamente”

Vi invito a riflettere sui tempi di un omicidio per asfissia, tempi incompatibili con i pochissimi minuti a disposizione di Buoninconti.

Non è una coincidenza che a Buoninconti sia stato attribuito un omicidio premeditato.

L’accusa, infatti, gioca sempre la carta della premeditazione quando non riesce a giustificare dei “tempi impossibili” per la commissione di un delitto, un’aggravante contestata in quasi tutti gli errori giudiziari, perché gli innocenti de facto hanno sempre alibi insormontabili.

Nel caso di specie la procura ha dovuto sostenere la premeditazione anche perché non avrebbe potuto inserire nella propria ottica omicidiaria la sosta di Michele dallo studio del medico di base.

In parole povere: se la procura non avesse ipotizzato l’omicidio premeditato nn avrebbe avuto modo di giustificare la sosta di Buoninconti dal dottore, una sosta non poteva che supportare l’ipotesi in un allontanamento volontario in stato confusionale.

La morte per assideramento

Durante il confronto in aula, uno dei medici legali consulenti della procura, riguardo all’assideramento, ha affermato: “È una causa che abbiamo, non escluso, non abbiamo ritenuto di assumere in considerazione immediatamente per il contesto, innanzitutto, in cui è stato trovato, sono stati trovati resti di Elena Ceste. È un contesto che, non dico mal si attiene, è estraneo a quei contesti delle morti per assideramento. Per intenderci e per esemplificare la morte per assideramento è quella che coglie l’homeless, quella che cogli il cacciatore che si perde in un bosco, un bimbo che si perde in un bosco. È una morte accidentale. Non risultava agli atti che la Ceste potesse avere delle, così, dei fatti psicopatologici di entità tali che la inducessero ad un allontanamento da casa, repentino, e nuda oltretutto (Verbale di Udienza, 22 luglio 2015).”

Anche il medico legale consulente delle parti civili si è espresso in questo senso: “Se noi abbiamo – e ripeto, abbiamo semplificato molto – due ipotesi contrapposte, l’ipotesi proposta di una fuga dissociativa come primo episodio di un disordine psichico che non è mai stato evidenziato in precedenza, rispetto a quella dell’omicidio, ci permette di affermare che statisticamente l’ipotesi che sia un omicidio è 999.999 volte più probabile. Quindi dal punto di vista statistico non è un’ipotesi che si possa escludere, perché non ci sono degli elementi perentori che lo escludono, ma statisticamente è un’ipotesi marginale (Verbale di Udienza, 22 luglio 2015).”

Eppure, nella sua consulenza, redatta prima del rinvenimento dei resti, lo psichiatra nominato dalla procura all’indomani della scomparsa della Ceste non solo aveva riconosciuto che la donna era stata colpita da una crisi psicotica pochi mesi prima dei fatti, ma riguardo al periodo in questione si era espresso come segue: “è possibile affermare che all’epoca dei fatti per cui si indaga sussistesse un’incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, un abbassamento intellettuale e delle capacità di critica tali da indurre una condizione di deficienza psichica (pag. 38)”.

Fu proprio la ridotta capacità critica indotta dalla psicosi a condurre la Ceste a morte. Ella, infatti, dopo essersi nascosta ai suoi immaginari persecutori nel tunnel di cemento del Rio Mersa si addormentò e poi morì per assideramento. Per questo motivo l’autopsia non rilevò lesioni traumatiche.

Aggiungo che, a mio avviso, a fine ottobre, inizio novembre, la Ceste non ebbe una vera e propria crisi psicotica, ma manifestò, invece, i prodromi della crisi psicotica che la colpì poi a fine gennaio, tali prodromi erano proprio quei pensieri ossessivi persecutori che la tormentavano e di cui hanno parlato agli inquirenti ed ai giornalisti i suoi conoscenti e amici. In ogni caso, se la Ceste avesse avuto una crisi psicotica in autunno, dopo quella crisi, che evidentemente non può che essersi risolta spontaneamente, non fu sottoposta alcuna terapia farmacologica per impedire eventuali ricadute. E dunque, come si fa ad escludere che abbia avuto una seconda crisi a fine gennaio?

La posizione dei resti

Durante il confronto in aula, riguardo alla posizione dei resti, uno dei medici legali consulenti della procura ha affermato: “Poi la cosa più importante, quella che dicevo all’inizio, è il contesto in cui sono stati ritrovati i resti, sono stati ritrovati proni, con quindi il volto ed il torace adagiati sul letto, diciamo così, su quel rigagnolo del rio Mersa, ed è una postura che non si attiene assolutamente a quella di un assideramento. Molto spesso i soggetti assiderati, laddove ritengono di doversi riparare dalla ipotermia, assumono una posizione cosiddetta fetale, rannicchiata; oppure li si rinviene, tenuto conto delle alterazioni di coscienza che intervengono nelle fasi della ipotermia, li si rinviene in posizioni piuttosto anomale, strane, che immediatamente fanno pensare ad una morte magari dovuta ad altre cause. Questa postura dei resti cadaverici non fa assolutamente pensare ad un assideramento, anzi consente proprio di escluderlo su base logica (Verbale di Udienza, 22 luglio 2015).”

Non solo lo stato dei resti della Ceste, ma anche la posizione in cui sono stati ritrovati è compatibile con un assideramento accidentale in un soggetto in preda ad un disturbo psicotico. La Ceste non assunse una posizione fetale, non si rannicchiò, perché era incapace di percepire il freddo a causa del suo disturbo psichico, se, infatti, avesse percepito il freddo non si sarebbe neanche spogliata prima di allontanarsi da casa.

La Ceste entrò nel letto del Rio Mersa da un varco nella vegetazione, raggiunse il tunnel di cemento, vi si nascose, si addormentò, morì per assideramento e poi cadde a faccia in giù.

Durante il confronto in aula, sempre riguardo alla posizione dei resti, il consulente medico legale delle parti civili ha detto “Allora, quello che voglio dire è che quella posizione non è la posizione di una persona che cade e muore. È una posizione che fa pensare, ripeto, non si può dire con certezza, ma che fa pensare ad un corpo che viene adagiato e lasciato in una posizione estremamente composta: esattamente sul fondo del canale, con le braccia tese lungo il corpo, le gambe stese e la faccia appoggiata per terra (Verbale di Udienza, 22 luglio 2015).”

Se il povero Buoninconti avesse “adagiato” il cadavere della Ceste sul fondo del canale “con le braccia tese lungo il corpo, le gambe stese e la faccia appoggiata per terra” si sarebbe sporcato di fango le calzature e gli abiti e avrebbe di conseguenza infangato anche l’interno della sua auto. Non vi chiedete anche voi il perché l’assenza di questi reperti non sia bastata ad escludere che fosse stato Michele a condurre la Ceste in quel rio? Perché la procura non è tornata sui propri passi nel momento in cui, all’assenza di segni di una colluttazione sul corpo di Buoninconti si è aggiunta l’assenza di segni riferibili all’occultamento, a cominciare dall’assenza di segni sull’auto riferibili al trasporto di un cadavere, per finire con l’assenza di fango sulle calzature e all’interno dell’auto di Buoninconti?

Il fascicolo d’indagine

Negli Stati Uniti, per ridurre al minimo gli errori giudiziari, i prosecutor non solo non mettono al corrente dell’ipotesi investigativa i propri consulenti, ma gli impediscono di consultare il fascicolo d’indagine; gli consegnano, invece, solo i dati necessari per svolgere le loro consulenze. E’ compito, infatti, del prosecutor e dei suoi collaboratori mettere a confronto tutte le risultanze investigative (il più possibile scevre da pregiudizi) per ricostruire il puzzle.

Il fantomatico movente

Vediamo insieme che cosa ha scritto la procura nella richiesta di applicazione misura cautelare in merito al tema del movente:

Pag.173: “La ragione dell’omicidio deve essere ricercata nell’esigenza di Buoninconti di affermare il suo dominio. Esistono ruoli e come tali devono essere interiorizzati e rispettati, sua moglie tutto questo non lo faceva più. L’incarico della famiglia veniva espletato in modo inadeguato. Una donna che incontra altri uomini, una donna che trascorre molto del suo tempo al computer con amicizie virtuali, non è una brava moglie, tanto meno una brava madre. Questo era il messaggio nel tempo inculcato ad Elena dal marito e solo da lui nel periodo in cui aveva manifestato disagio e preoccupazione“.

Pag. 174: “Poiché, come adeguatamente segnalato dagli esperti, i periodi di crisi come quelli di deprivazione affettiva non si superano se non si affrontano in assenza di terapia farmacologica o supporto psicologico, si deve convenire che Elena avesse affidato il proprio forte disagio alle confidenze fatte al marito. Tutto ciò a novembre (…) Lo scompenso che ne era derivato, di tipo psicotico – proiettivo delirante veniva confermato dall’osservazione di tutti i suoi interlocutori. La sua natura traditrice appariva ormai svelata”.

Pag. 179: “Dopo il 3 novembre non si verificarono più episodi del genere. La crisi psicotica, le proiezioni e i diffusi spunti deliranti che le avevano fatto perdere il controllo sul dato reale, erano rientrati (…) E’ quindi già dal mese di ottobre che ha avuto insorgenza il proposito criminoso immutato e costante malgrado il lasso temporale si sia rivelato più che apprezzabile per consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità di recesso, rinvigorito e rafforzato dagli eventi di gennaio. Invero, sino al 20-21 gennaio, data in cui D. S., dopo averle inviato numerosi messaggi sul telefono cellulare, implorandola di farsi sentire, di rispondere e di richiamare, era incappato telefonicamente in Buoninconti Michele che aveva con sé l’apparecchio di Elena fuori di scuola: l’ideologia dell’omicidio era rimasta dormiente ma tuttavia presente”.

Pag. 182: “Il tenore dei testi si presentava pesante ed innervosente per un marito che solo a ottobre e novembre aveva ricevuto le confidenze della moglie su iniziative della moglie di rapporti adulterini che si accingeva a dover nuovamente subire. Tutto questo aveva scatenato in lui una volontà di morte che lo aveva indotto da subito ad organizzare, preordinare e programmare l’assassinio della moglie senza soluzioni di continuità sino alla commissione del crimine (…) Rischiava di perdere tutto, non tanto la moglie di cui aveva da subito manifestato la facilità di sostituzione quanto invece i risparmi di una vita. Un uomo parsimonioso ed attento come lui, con la casa costruita manualmente, tuttavia intestata a quella moglie incapace di tutto, persino di assicurare fedeltà (…) Tutto pronto a sgretolarsi: famiglia, capienze patrimoniali, risparmi, orgoglio, pudore, onore (…) Il movente dell’omicidio correlato correlato all’occultamento del cadavere per ottenerne l’impunità va ricercato nell’odio maturato nel tempo verso una donna alla quale aveva offerto una famiglia una casa la dignità del proprio lavoro la condivisione dei guadagni e da cui invece era stato ripagato con vergogna, mortificazione e disonore (…) I sentimenti prevalenti in lui erano stati da subito la rabbia, l’inquietudine, la vergogna e l’infamia (…) La scoperta di quei messaggi che Buoninconti aveva sempre negato di aver letto sino all’esibizione per mani di Elena, aveva invece generato rabbia, risentimento, avversione totale verso la moglie che aveva affrontato, una volta rientrato in casa. Il tutto aveva riacutizzato e rinvigorito l’astio e il risentimento già esistenti dal mese di ottobre a causa dell’inoltro via mms del testo con fotogramma allegato da parte di D. S. e delle necessitate confidenze di lei. Ciò spiega nuova ira e collera.”

Pag: 206: La scoperta senza il tentativo di comprenderne le ragioni intime dell’autonomia della sua donna, che aveva sempre gestito e governato, ha generato un sentimento di odio che l’ha condotto all’assassinio. Una donna tanto insignificante, quanto modesta, era riuscita a porre in discussione la sua personalità, il vigore del suo carisma. Questa donna a prescindere dal ruolo domestico e familiare, doveva essere eliminata, la fonte del disonore, la ragione della vergogna doveva essere annullata. La preparazione materiale e mentale si è rivelata indice della inclinazione alla violenza, sintomo dell’assenza totale di freni inibitori verso la brutalità. Ha lasciato che il corpo di questa giovane mamma venisse rosicchiato dagli animali, occultato nel ruscello guardato a vista, sotto gli occhi inconsapevoli dei suoi bimbi in trepidante attesa (…) La inaudita violenza voluta da Buoninconti verso questa giovane vita è indice inequivoco di brutalità (…) una donna che aveva messo in discussione tutto questo andava eliminata, inscenandone la misteriosa scomparsa. La preparazione del delitto unitamente alla preparazione dell’occultamento del corpo di lei, in un luogo studiato e ben scelto portano a valutare come la pericolosità del soggetto sia attuale e concreta. E’ bastato che la sua donna sia ricaduta in una spirale di crisi personale e coniugale per non averle offerto scelta;: il desiderio di morte aveva avuto il sopravvento su tutto, bambini inclusi”.

Abbiamo visto in precedenza che, in autunno, non ci fu alcuna crisi coniugale, che Buoninconti non venne a sapere in quell’epoca dei tradimenti e anche che non era geloso di D. S., anzi aveva buoni rapporti con lui. In autunno la Ceste non confidò al marito i suoi tradimenti, gli chiese soltanto di contattare il nipote per aiutarla a risolvere un problema al computer. Peraltro, a Michele, Elena non rivelò la natura del suo problema al computer, ovvero il timore che qualcuno si fosse introdotto nel suo profilo di Facebook, ma gli parlò invece di un problema con i cookie. Una riprova del fatto che Elena non solo non gli raccontò dei propri amanti, ma non voleva neanche insospettirlo, e che quindi era ancora capace di controllarsi. Pertanto, non si può far risalire a quell’epoca un eventuale proposito criminoso, non si può parlare di “odio maturato nel tempo”. Aggiungo anche che è difficile immaginare che un proposito criminoso sia maturato in seguito alla lettura del messaggi di D. S., messaggi di non univoca interpretazione. E poi c’è un dato che pesa sul piatto della bilancia dell’allontanamento volontario in preda ad una crisi psicotica, ed è il fatto che Buoninconti si sia accordato con la Ceste per andare dal dottore, testimone la figlia più grande, e che, una volta accompagnati i bambini a scuola, sia passato dallo studio del medico di base per informarsi sugli orari di ricevimento del sostituto, mostrando di avere un proposito sì, ma non criminoso, il proposito di far visitare la moglie per aiutarla a superare i suoi problemi mentali.

Peraltro, anche il tribunale del riesame ha escluso la premeditazione per l’assenza di “indici rivelatori di un proposito criminoso risalente nel tempo”. Il riesame ha. però, ipotizzato il “dolo d’impeto”, eppure escludere la premeditazione avrebbe dovuto condurre i giudici altrove, perché escludere la premeditazione significa escludere che il passaggio di Buoninconti dal dottore sia stato un depistaggio e dunque significa ammettere che Elena stava male.

La mancanza di conferme all’ipotesi omicidiaria

Un caso giudiziario è materia di studio grossolana, nel caso di specie non c’è nulla che possa sostenere l’ipotesi omicidiaria.

– Buoninconti ha un alibi per il fantomatico occultamento. L’alibi glielo forniscono i tabulati telefonici, che, evidentemente, nessuno ha mai messo a confronto con le testimonianze dei vicini.

Buoninconti, infatti, alle 8.57.28, si trovava davanti al cancello di casa di A. R. e non in auto verso il Rio Mersa ad occultare il cadavere della moglie. Per l’esattezza: Michele chiamò A. R. alle 8.57.28, A. R. ha riferito che il campanello e il suo telefono suonarono in contemporanea, pertanto, a quell’ora, Buoninconti non poteva che trovarsi proprio di fronte a casa di A. R., dove, dalla sua finestra, lo vide anche la vicina M. C., che lui aveva allertato poco minuti prima. Pertanto, non può che essere errata la seguente inferenza dell’accusa “all’atto in cui aveva telefonato a M. C. (8.55.04 ndr) doveva trovarsi già fuori casa nel tragitto verso il luogo già scelto per il definitivo occultamento del cadavere (Richiesta di applicazione misura cautelare, pag 161)”. Come abbiamo visto, infatti, Michele si diresse verso l’area del Rio Mersa (senza neanche raggiungere il sito del rinvenimento dei resti della Ceste, non ne ebbe neanche il tempo materiale) per un breve giro esplorativo e solo dopo essere passato da casa di A. R., dopo avergli suonato il campanello (campanello che Michele suonò mentre provava a contattare lo stesso A. R. sul telefono fisso) e dopo avergli parlato, quindi dopo le 8.57.28 e non prima, come ipotizzato dalla procura.

Dunque, la presenza di un alibi inattaccabile per il fantomatico occultamento, un alibi basato su un dato scientifico, ovvero l’orario della telefonata ad A. R., permette di escludere che sia stato commesso un omicidio.

Tutte le risultanze investigative si accordano perfettamente con la mia ricostruzione dei fatti, ovvero che la Ceste non sia stata uccisa, ma che, in preda ad una crisi psicotica caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio, si sia denudata, si sia allontanata nei campi, si sia nascosta ai suoi immaginari persecutori in un tunnel di cemento del Rio Mersa, si sia poi addormentata, in quanto era stremata dal delirio, e sia stata uccisa dalle basse temperature.

Le risultanze investigative:

– Sui resti della Ceste non sono stati rilevati segni riferibili ad una morte violenta.

– Sul corpo di Buoninconti non sono stati rilevati segni riferibili ad una colluttazione.

– Sulle due auto in uso ai coniugi Buoninconti non sono stati rilevati segni del trasporto di un cadavere.

– I vestiti e le calzature che Buoninconti indossava il 24 gennaio 2014 non erano sporchi di fango e non lo era neanche l’interno della sua auto.

– La presenza di particelle di terra sugli abiti della Ceste è un dato di nessun valore per i motivi che abbiamo già visto in precedenza: la quantità di particelle rilevate sugli abiti della Ceste era di molto inferiore alla quantità standard che permette di giungere a conclusioni scientificamente affidabili su una eventuale compatibilità, 13 particelle contro 2000; la deposizione di terra non è databile; non si può ipotizzare che il contenuto di zolfo e fosforo presenti in un certo terreno rimanga costante per mesi; il numero di campioni analizzati (un unico campione nel giardino di Buoninconti, 4 campioni al Rio Mersa) non è sufficiente per definire i terreni d’interesse. In sintesi: non si può parlare né di compatibilità delle tracce di terra ritrovate sugli indumenti della Ceste con i campioni di terra prelevati al Rio Mersa, né di incompatibilità tra dette tracce e il campione di terra prelevato a casa Buoninconti Ceste e questo non solo perché “le tracce di terriccio presenti sui collant e sui pantaloni della Ceste, per la loro esiguità, non consentivano di operare un confronto scientificamente affidabile (Motivazioni Suprema Corte di Cassazione, pag. 6)”.

– Non ci fu una crisi coniugale nei mesi che precedettero l’allontanamento da casa della Ceste.

– Il 23 gennaio 2013 Elena chiese al padre di rivolgersi direttamente al marito per dirgli di accendere la caldaia della casa di Govone perché pensieri ossessivi persecutori le occupavano la mente. Elena aveva difficoltà a concentrarsi e temeva di non ricordare di dire al marito ciò che le aveva riferito il proprio padre.

– Michele Buoninconti non era geloso di D. S. e non lesse i messaggi da lui inviati ad Elena finché non fu lei a mostrarglieli nel pomeriggio del 23 gennaio. Buoninconti non si preoccupò di quei messaggi, si preoccupò del benessere psichico di Elena.

– La mattina del 24 gennaio 2014 la Ceste non accompagnò i bambini a scuola perché non se la sentiva, un fatto inusuale e improvviso che si spiega facilmento con il suo disturbo psichico. In merito a pag. 69 dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva si legge: “La circostanza che fosse l’indagato ad accompagnare i figli a scuola è stata peraltro descritta come tutt’altro che usuale e, con riferimento alla mattina del fatto, non era stata neppure preventivamente pianificata, così da essere conoscibile all’esterno del nucleo familiare”.

– Il 24 gennaio 2014, prima di tornare a casa, Buoninconti si fermò allo studio del medico di base per informarsi sugli orari di ricevimento del sostituto. Durante la colazione si era accordato con Elena, testimone la figlia più grande. Peraltro fu Elena ad informare Michele della presenza di un sostituto e proprio per questo motivo Buoninconti andò ad informarsi su eventuali cambiamenti degli orari di ricevimento.

– Il 24 gennaio 2014, “Elena si era trattenuta a casa per preparare il pranzo quotidiano (Richiesta di applicazione misura cautelare, pag. 180)”, eppure al suo ritorno a casa Buoninconti trovò l’interno dell’abitazione nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciato, letti dei bambini da rifare e tazze della colazione da lavare, una riprova del fatto che Elena si allontanò da casa non appena lui e i bambini lasciarono l’abitazione per raggiungere la scuola.

Voglio farvi riflettere sul fatto che non è un caso che non ci sia nulla a supporto dell’ipotesi omicidiaria della procura: non c’è nulla semplicemente perché un omicidio non è stato commesso e il denudamento e la morte della Ceste si spiegano facilmente con la psicosi, malattia della quale Elena soffriva e che le era stata riconosciuta dallo psichiatra consulente della pubblica accusa.

L’ERRORE GIUDIZIARIO

L’errore giudiziario è il frutto di un insieme di cofattori che non tratterò in toto in questa sede.

L’errore giudiziario che ha travolto il povero Buoninconti trae origine da una “cecità di collegamento” degli inquirenti.

La procura ha infatti indagato Buoninconti per omicidio perché nessuno ha mai collegato le risultanze dell’autopsia psicologica eseguita sulla Ceste dallo psichiatra Pirfo (nominato dalla procura stessa all’indomani della scomparsa della donna) con il suo denudamento.

Questo mancato collegamento ha ristretto il campo ad un’unica ipotesi investigativa e ha trascinato gli inquirenti nel tranello della “Tunnel Vision”

La “Tunnel Vision” è un pregiudizio cognitivo che può colpire chi indaga nelle prime fasi delle indagini ed è rappresentabile come una visione centrale ristretta.

L’assenza della visione periferica conduce chi ne è colpito a ritenere che i fatti esaminati abbiano un’unica spiegazione quand’anche a supporto della propria visione dei fatti non vi sia nulla di concreto.

La “Tunnel Vision” induce chi ne è colpito a sottovalutare, disgregare, ignorare e sopprimere i dati che non sono di supporto alla propria erronea visione dei fatti e a sopravvalutare informazioni di sostegno alla propria ipotesi, anche se irrilevanti, non credibili e inaffidabili.

A tal proposito vi invito a leggere alcuni stralci degli atti.

Dalla richiesta di applicazione misura cautelare:

“Il rinvenimento degli indumenti di Elena Ceste ha rappresentato sin dai primi momenti dell’indagine il tema di maggior sospetto. Era apparso da subito strano che una donna in fuga o in difficoltà emotiva avesse lasciato i propri vestiti nel cortile dell’abitazione (…) la fuga nuda a piedi e scalza appariva perciò scarsamente plausibile. Ancor più dubbioso si manifestava il contesto dell’abbandono di quei vestiti secondo il racconto di Buoninconti (pag. 151)”.

“è apparso illogico che Elena Ceste avesse lasciato la sua abitazione nuda, scalza e senza occhiali da vista, da cui non si separava mai. Altrettanto irrazionale che avesse abbandonato all’aperto i suoi indumenti in due luoghi distinti del cortile senza aver lacerato le calze la cui trama si presenta perfettamente integra (pag. 154)” .

Delle calze di Elena abbiamo già detto. Le calze erano spesse calze elastiche e la Ceste percorse pochi metri, quelli che separano il tombino di fronte a casa dal cancello, perché avrebbero mai dovuto lacerarsi? Peraltro, abbiamo visto come i RIS avessero descritto quelle calze: ” Sulla pianta dei piedi sono stati notati e descritti aloni fluorescenti propri di tracce di sudore come pure di calpestio di superficie umida senza scarpe, né pantofole”, suggerendo dunque che quegli aloni potevano essere il frutto di una breve camminata senza calzature.

“C’è spazio per una sola ricostruzione (LOGICA e DIMOSTRATA) la morte per mani di Buoninconti Michele accecato dalla rabbia per il comportamento di lei, ossessionato dal rischio di perdere tutto; l’occultamento del cadavere, la simulazione della fuga o del sequestro da parte di altri (…) per orientamento dottrinale e giurisprudenziale costante, le ipotesi alternative devono restare ancorate al probabile senza sconfinare nel possibile. Restando all’alternativa del probabile, non può che concludersi che i fatti dimostrati non ammettono soluzioni diverse rispetto a quelle proposte dal quadro indiziario esposto. Non esiste cioè una probabile alternativa che regga il confronto con la soluzione offerta come unica chiave per riepilogare gli eventi così da uscire vincente a qualsiasi confronto o obiezione. Non sussiste rispetto a quanto offerto indiziariamente altra strada ricostruttiva idonea a smentire o ridurre la portata indiziaria sino ad azzerarla, se non sconfinando nell’illimitato territorio del possibile disancorato dalla realtà dalla logica fattuale e dalla grave portata indiziaria concretamente esposta (pag. 195)”.

Ed invece una strada idonea a smentire sino ad azzerarla la soluzione offerta dalla procura c’è ed è l’unica strada che si confà a tutte le risultanze investigative perché è capace di ripercorrere la verità dei fatti.

Dall’ordinanza di applicazione di misura coercitiva del Gip di Asti Giacomo Marson (diffusa online all’indomani dell’arresto):

“Ciò che in particolare connota il caso di specie è, infatti, l’assoluta impossibilità di formulare ipotesi alternative rispetto all’ipotesi accusatoria, così come non è logicamente possibile formulare differenti teorie ricostruttive dotate di una seppur minima plausibilità (pag. 4)”

“l’esclusione di ipotesi alternative rispetto all’ipotesi accusatoria, dotate di un grado accettabile di plausibilità e l’assenza di un alternativa probabile che regga il confrronto con la soluzione delineata dal PM nella propria richiesta di misura cautelare non fanno altro che rafforzare la grave portata indiziaria degli elementi fin qui considerati (pag. 20)”

“Anche il ritrovamento degli abiti di Elena Ceste ha rappresentato sin dai primi momenti dell’indagine un tema nodale, attesa la scarsa plausibilità del fatto che una donna in fuga o in difficoltà emotiva potesse aver lasciato i propri vestiti nel cortile dell’abitazione che si stava accingendo ad abbandonare (…) la fuga nuda a piedi e scalza appariva perciò scarsamente plausibile. Ancor più dubbioso si manifestava il contesto dell’abbandono di quei vestiti secondo il racconto di Buoninconti (pag. 62)”

ASSENZA DI IPOTESI ALTERNATIVE

In relazione a quest’ultimo gruppo di indizi, non si può che ribadire quanto sopra si è già affermato in termini generali a proposito del valore probatorio che assume l’assenza di ipotesi alternative capaci di giustificare in maniera ragionevole una differente ricostruzione del fatto. Anche rispetto al tema dell’individuazione delle condotte per cui si procede, i notevoli sforzi investigativi compiuti non hanno prodotto risultati apprezzabili, non essendo emerse alternative plausibili alla testi accusatoria fatta propria da questo giudice (pag. 68)”.

Eppure nella stessa Ordinanza, diffusa su internet all’indomani dell’arresto di Michele Buoninconti, a pag 49/51, riguardo allo stato psichico di Elena in relazione a ciò che aveva confidato a parenti ed amici, si legge: “Lo scompenso… qualificato dai consulenti psicologi e psichiatri (della procura ndr) come di tipo psicotico proiettivo delirante veniva notato da tutti i suoi interlocutorii… si era presentata una crisi psicotica con proiezioni e diffusi spunti deliranti…” e nella consulenza dello stesso psichiatra a pag. 38 si legge la soluzione del caso: “è possibile affermare che all’epoca dei fatti per cui si indaga sussistesse un’incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, un avvistamento intellettuale e delle capacità di critica tali da indurre una condizione di deficienza psichica”.

Ed è noto che, sebbene una crisi psicotica possa risolversi spontaneamente, se non trattata farmacologicamente, può recidivare.

Ed è anche noto che “i soggetti in preda al delirio ed alle allucinazioni possono mettere in atto comportamenti imprevedibili di tipo grossolanamente disorganizzato, ovvero condotte strane con carattere d’impulso, immotivate, irrazionali, inutili, insensate, assurde, tra queste si riscontrano smorfie, stereotipie, automatismi verbali, fughe senza meta, denudamento, suicidio e delitti senza scopo (Ugo Cerletti, Scritti sull’elettroshock, Roberta Passione, Franco Angeli Editore)”.

Il Tribunale del Riesame

E’ di estremo interesse il fatto che i giudici del riesame abbiano escluso la circostanza aggravante della premeditazione. Vediamo cosa scrivono a pag. 56: “Nel caso di specie, indici rivelatori di un proposito criminoso risalente nel tempo, non possono trarsi né da particolari atteggiamenti comportamentali assunti da Buoninconti a far data dall’ottobre 2013 (epoca a cui l’Accusa ancora l’insorgenza di detto proposito criminoso) – atteso che nel frattempo il rapporto coniugale viveva un periodo di apparente tranquillità -, né dalle modalità della condotta. Quanto al primo profilo, invero, anche la ritrovata serenità di Elena, dopo le confessioni di disorientamento personale e, forse, di infedeltà di quell’epoca contrastano con l’ipotesi che Buoninconti abbia maturato “una volontà di morte che lo ha portato ad organizzare, preordinare e programmare l’assassinio della moglie, senza soluzione di continuità sino alla commissione del crimine. La coppia non appariva in conflitto dopo il periodo in questione. Sono stati riferiti momenti di turbamento della vittima (la preoccupazione del video, di essere sulla bocca di tutti, di perdere il controllo sul suo mondo di rapporti virtuali), ma nessuno allude a situazioni di crisi o comportamenti significativi del ricorrente, tali da esulare dalla conduzione di una regolare vita famigliare” e pag. 60: “un dolo d’impeto (quale è verosimilmente quello proprio della fattispecie, alla luce di quanto sopra evidenziato sulle modalità del delitto) escluder la possibilità di trovarsi in presenza di un gesto preordinato e puntualmente programmato da parte dell’indagato”

Si noti che i giudici del riesame non solo hanno escluso la premeditazione, ma hanno anche messo in dubbio il convincimento della procura che, in autunno, Elena avesse confessato a Michele i tradimenti. Vi chiederete il perché l’abbiano messo in dubbio, la risposta è semplice, l’hanno messo in dubbio perché non c’è nulla agli atti che possa supportare l’ipotesi della “crisi coniugale”.

I giudici del riesame, escludendo la premeditazione, hanno di conseguenza escluso che Buoninconti si fosse recato dal dottore per depistare e dunque non può che essersi recato lì perché sua moglie stava male.

Peraltro, i giudici del riesame non solo hanno escluso la premeditazione, ma hanno anche rilevato che la procura non aveva fornito una completa ricostruzione della dinamica omicidiaria e neanche della specifica causale dell’azione criminosa:

“è innegabile che l’analisi delle concrete modalità in cui si è svolta l’azione delittuosa può peccare di incompletezza (pag. 57)”, “mancata individuazione di una specifica causale dell’azione criminosa (pag. 60)”.

E allora perché i giudici del riesame non hanno fatto implodere il castello accusatorio della procura? Perché i giudici del riesame hanno respinto il ricorso della difesa? Perché anche loro sono stati infettati dal virus della “Tunnel Vision”, ovvero anche loro hanno creduto che il rinvenimento dei resti della Ceste privi degli abiti non potesse che spiegarsi con un omicidio:

“l’impossibilità di formulare ipotesi ricostruttive alternative, segnatamente rispetto ad un allontanamento coattivo o volontario della Ceste, dalla propria abitazione, prima della sua morte (pag. 5)”, “assoluta impossibilità di formulare ipotesi ricostruttive alternative rispetto a quella accusatoria (pag 8)”.

Ma torniamo a a leggere alcuni stralci dell’Ordinanza di riesame: “è innegabile che l’analisi delle concrete modalità in cui si è svolta l’azione delittuosa può peccare di incompletezza (pag 57)”, “ma pure le modalità dell’azione rivelano ancor più l’estrema pericolosità del prevenuto (pag. 58)”, “la mancata individuazione di una specifica causale dell’azione criminosa, in ogni caso sproporzionata, contribuisce a non rendere prevedibili ulteriori manifestazioni di aggressività dell’indagato, laddove anche alcuni testimoni descrivono detta aggressività come solo inibita, ma certamente esistente (…) non può ovviamente ritenersi che il dato dell’incensuratezza, rispetto a manifestazioni di violenza così eccedenti rispetto a qualsiasi comportamento della vittima, risulta del tutto ininfluente rispetto al rischio di ulteriori, analoghe, manifestazioni di reità (…) già il fatto di reato in se stesso considerato per la sua assoluta gravità e per le modalità concrete in cui è stato posto in essere (pag. 60)”.

Non è paradossale che nella stessa ordinanza si affermi che “l’analisi delle concrete modalità in cui si è svolta l’azione delittuosa può peccare di incompletezza” e al contempo che “le modalità dell’azione rivelano ancor più l’estrema pericolosità del prevenuto” e che si faccia poi riferimento alle “modalità concrete in cui è stato posto in essere”. Quali “modalità”?
I giudici del riesame non si sono chiesti il perché la procura non sia stata capace di ricostruire l’omicidio della Ceste per “modalità” e “specifica causale”? I giudici del riesame non hanno fatto due più due dopo aver letto a pag. 24 della consulenza medico legale disposta dalla procura che “i resti cadaverici esaminati non mostravano segni di lesioni violente di qualsivoglia natura” e dopo aver saputo che sulle auto in uso a Buoninconti non erano stati repertarti segni del trasporto di un cadavere e neanche segni riferibili al fantomatico occultamento? Possibile che abbia giocato a sfavore del prevenuto il fatto che lo stesso non mostrasse “alcun segno che potesse testimoniare una colluttazione o una qualche forma di reazione da parte della sua vittima (pag. 57/58 ordinanza di riesame)”? Eppure la procura aveva ipotizzato un complicato omicidio per asfissia.
Perché, con un quadro così, i giudici hanno sottovalutato il dato dell’incensuratezza del prevenuto e sopravvalutato invece le affermazioni di alcuni testimoni che, a detta della procura, avrebbero riferito di una fantomatica “aggressività” di Buoninconti “solo inibita, ma certamente esistente”? “Alcuni testimoni”, quali? Dov’è la fonte di tali affermazioni? Perché non sono state riportate le parole dei testimoni? E se davvero alcuni testimoni avessero descritto Buoninconti in questo modo, perché certe affermazioni di non esperti hanno pesato più dei fatti?

Il ruolo del processo mediatico

Voglio farvi riflette ora sul tragico ruolo rivestito dal processo mediatico in questo drammatico caso. Non intendo intrattenervi sulla cosiddetta pressione idraulica che opinione pubblica e Media sono capaci di imprimere sugli inquirenti, che può essere concausa di errore e che, nonostante tutto, è l’obiettivo di tanti conduttori e opinionisti di tante trasmissioni televisive. Non voglio rappresentarvi l’ovvio raccontandovi di quanto il processo mediatico a senso unico abbia influenzato i testimoni e di come, proprio attraverso le loro dichiarazioni agli inquirenti, sia entrato a gamba tesa nel procedimento, in specie perché sono state acquisite agli atti nuove testimonianze di soggetti già sentiti all’indomani della scomparsa della Ceste e testimonianze di soggetti sentiti solo tardivamente.

Voglio, invece, farvi riflettere sul fatto che, all’interno del processo mediatico architettato contro Buoninconti da tanto giornalisti allo scopo di apparire paladini di una nobile causa e allo scopo di riempire le giornate di tanti internauti e telespettatori, non è stato dato spazio alla tesi innocentista e dunque agli inquirenti è mancato un “Contrarian”.

Il “Contrarian” è un esperto capace di contrastare i pregiudizi cognitivi di coloro che indagano, è un anti virus in grado di proteggere gli inquirenti dalla “Tunnel Vision”. In pratica: il “Contrarian” è una sorta di avvocato del diavolo che ha l’incarico di sfidare coloro che investigano nei casi all’apparenza più difficili.

LE DICHIARAZIONI SPONTANEE

Il 4 novembre 2015 Michele Buoninconti ha letto in aula le seguenti dichiarazioni spontanee:

“Signor Giudice, io, Michele Buoninconti, nato a Sant’Egidio del Monte Albino il 28 luglio 1969, vedovo a causa di una tragica fatalità e padre di quattro figli, sono la vittima di un errore giudiziario. Mia moglie Elena Ceste si è allontanata da casa nuda durante una crisi psicotica il 24 gennaio 2014 ed i suoi resti sono stati ritrovati il 18 ottobre dello stesso anno a poche centinaia di metri da casa nostra, nel letto del Rio Mersa.

Già all’indomani della scomparsa di Elena i carabinieri della stazione di Costigliole mi si rivolsero chiamandomi “Misseri” e “Parolisi”.

Signor Giudice, nulla mi accomuna a questi due signori e non credo che lei possa biasimarmi per le parole di disistima rivolte ai carabinieri dopo che gli stessi si erano permessi di darmi dell’assassino in un momento così disgraziato della mia vita. Questi stessi carabinieri sono stati la causa prima dell’errore giudiziario, il luogotenente Giuseppe Toledo, il maresciallo capo Michele Sarcinelli ed il carabiniere scelto Stefano Trinchero, poiché ignorano la psichiatria, non hanno creduto alle mie parole, alle parole di uomo disperato alla ricerca di sua moglie e si sono convinti, a torto, che Elena non potesse essersi denudata e allontanata da casa con le sue gambe in preda ad una crisi psicotica.

Non solo la mia consulente, ma ben prima i consulenti dell’accusa hanno concluso che mia moglie era psicotica, e allora perché attribuirmi la sua morte?

Elena non era mai stata sottoposta a terapia farmacologica in quanto nessuno di coloro che l’aveva avvicinata nei mesi di ottobre e novembre 2013 aveva riconosciuto in lei i sintomi della psicosi. Signor Giudice, non si guarisce dalla psicosi senza una terapia specifica.

All’indomani dei risultati dell’autopsia sui resti di mia moglie sono stato arrestato e da allora mi trovo in carcere, perché? Le ricordo che mi è stato perfino impedito di assistere ai funerali di mia moglie, con i miei figli, non lo trova imperdonabile? Riguardo alla causa della morte, i medici legali non sono giunti a determinarla e hanno escluso la maggior parte delle cause di morte violenta, e allora, le chiedo ancora, perché io sono stato arrestato e mi trovo qui davanti a lei?

Al momento del ritrovamento dei resti di mia moglie non ho nominato un consulente medico legale, perché non avevo nulla da temere, non avendola uccisa, ma la procura di Asti, evidentemente, non è quella di Aosta e cercava, a tutti i costi, un responsabile in carne ed ossa.

Perché cercare dai medici legali una risposta precisa se gli stessi non sono stati in grado di darla analizzando i soli resti della povera Elena quando attraverso l’analisi delle risultanze delle indagini si poteva giungere facilmente alla causa della morte di mia moglie?

L’ipotesi dei medici legali dell’accusa rimane limitata all’analisi dei resti di Elena, mentre le indagini allargano la prospettiva, permettono di escludere l’omicidio e accreditano la tragica casualità.

Signor Giudice, se i medici legali avessero avuto certezza dell’asfissia, secondo lei, non avrebbero scritto “Causa della morte: omicidio per asfissia”? O mi sbaglio?

Signor Giudice, io mi trovo davanti a lei senza un motivo, non c’è alcuna certezza che mia moglie sia stata uccisa e la procura non può provarlo, né ora, né mai, semplicemente perché non è accaduto.

Ma davvero lei crede che sia possibile che io con una mano abbia serrato gli orifizi di mia moglie (come sostenuto dal pubblico ministero Laura Deodato nella sua requisitoria: “Quando un delitto è premeditato, non serve una pistola, un coltello, un’arma, basta mettere una mano sulla bocca” ndr) per sei lunghissimi minuti, un tempo interminabile, senza che lei si difendesse, senza che lei provasse a togliermi la mano, senza che mi mordesse o mi graffiasse, allungando così inesorabilmente i tempi del presunto omicidio? Lei è a conoscenza che questa modalità omicidiaria, che si chiama soffocazione diretta, si vede raramente negli omicidi di soggetti adulti sani in quanto è difficile mantenere la compressione degli orifizi aerei nell’individuo che si difende vigorosamente, così come si legge nel libro di Medicina Legale di Clemente Puccini, un libro tanto amato dai medici legali dell’accusa, i quali però hanno accusato la mia consulente di non dire il vero quando la stessa, durante l’udienza, l’ha citato riguardo a questo tipo di soffocazione?

Elena delirava e sentiva le voci quella notte e si picchiava in testa, non me lo sono inventato, questa crisi psicotica si ascrive perfettamente nel quadro dei suoi disturbi precedenti, quei disturbi di ottobre e novembre, li chiami crisi psicotica, come vuole l’accusa, o pensieri ossessivi persecutori, come vuole la consulente della difesa. Quella mattina, con i miei figli, ho lasciato Elena a casa verso le 8.10 e, circa 35 minuti dopo, Elena non c’era più e la casa era nelle stesse condizioni in cui l’avevo lasciata, nonostante Elena fosse rimasta per fare le faccende domestiche. Secondo lei mia moglie rimase in casa 35 minuti senza fare niente o si allontanò subito dopo che la vide la signora R. R. in cortile, come vuole la logica? Se Elena fosse rimasta in casa, avrebbe rifatto tutti i letti e sistemato la cucina, di sicuro non avrebbe perso tempo sapendo che avrebbe dovuto sistemare la casa, recarsi dal dottore e preparare un pranzo per sei persone. Elena non stava bene, per questo motivo non accompagnò i bambini a scuola quella mattina, per questo motivo saremmo dovuti andare dal dottore e per questo motivo si allontanò. Elena era vestita di tutto punto con abiti che profumavano di pulito ed era solita farsi la doccia alla sera.

Quella mattina, Signor Giudice, Elena non si fece la doccia, non la trovai nuda e non la uccisi, è un’accusa falsa ed infamante e priva di fondamento. Ci vogliono le prove per condannare un uomo e la procura non le ha perché non esistono, non si può trasformare a piacimento un innocente in un colpevole, tra l’altro, di un omicidio che non c’è stato.

Vede Signor Giudice, sono riuscito a sopravvivere all’ingiustizia grazie alla forza della verità, una verità che nessuno potrà mai togliermi, nessuno potrà mai modificare i fatti di quella mattina, fatti che saranno uguali a se stessi in eterno essendo già accaduti.

Il 24 gennaio 2014 io non ho ucciso la madre dei miei figli e non ho occultato il suo corpo.

Quella mattina, dopo essere tornato a casa, dopo aver cercato Elena in cortile e dentro l’abitazione, ho chiamato la vicina M. C. e poco dopo l’altro vicino A. R., dopo la telefonata senza risposta ai R. mi sono recato da loro, saranno state più o meno le 9.00, mi ha visto M. C. dalla finestra mentre beveva il caffè, ma i citofoni non hanno memoria, non si possono richiederne i tabulati!

Signor Giudice, non vorrei ridurmi a dire quello che mi accingo a dire, ma vi sono costretto: non c’è assolutamente nulla che provi questo presunto osceno occultamento, non sono stati trovati segni del trasporto di un cadavere in auto, né alcun segno su di me prodotto dai rovi, o macchie di fango sui miei vestiti, o fango sulle mie scarpe, nonostante io sia stato accusato di aver occultato un corpo sotto il fango in una zona abitata dai rovi.

E poi, non le pare impossibile che io abbia potuto, come sostiene l’accusa, aver occultato un corpo in quel modo in soli due minuti? Nessuno occultò il cadavere di Elena, mia moglie si nascose in quel rio con tutta probabilità entrando a monte del tubo di cemento per raggiungerlo.

Elena era stanca, non aveva dormito ed aveva passato la notte a delirare, una volta sentitasi al sicuro si addormentò, lo stato soporoso ed il coma subentrarono al sonno a causa dell’ipotermia e la portarono a morte.

Signor Giudice, la presenza dell’acqua in quel rio favorì l’assideramento, particolare che mi sembra sia sfuggito ai tre medici legali in aula lo scorso 22 luglio!

Signor Giudice, come avrà avuto modo di leggere sulle carte, io non avevo alcun motivo di uccidere mia moglie. Un presunto motivo se lo sono inventato i miei accusatori, ma non l’hanno provato, il loro libero convincimento non ha alcun fondamento, l’accusa si è inventata una crisi matrimoniale che non c’è mai stata, non ho mai avuto una discussione con Elena, né mia moglie si è mai lamentata di me con nessuno, né ha mai parlato con me o con altri di divorzio. Ed io non ero a conoscenza dei suoi presunti tradimenti, mia moglie era malata, si sono approfittati di lei e, nonostante in molti avessero compreso il suo disagio, nessuno dei suoi confidenti me lo ha mai comunicato.

Elena, a me, fino al pomeriggio del 23 gennaio ha tenute nascoste le sue paure. Come è possibile che nella richiesta di applicazione della misura cautelare a pag. 131 la dottoressa Deodato concordi con me sul fatto che il contenuto dei messaggi inviati da S. a mia moglie fosse innocuo e al contempo li consideri il movente di un omicidio? Non è anche per lei l’ennesima offesa al buon senso? Io quei messaggi non li lessi il giorno 21 e non mi fecero alcun effetto il giorno 23 quando mia moglie me li fece leggere. Come sostiene anche la Deodato, sempre a pag. 131 dello stesso documento, Elena non rispose a quei messaggi ed appariva semplicemente il bersaglio di attenzioni non gradite, null’altro.

La mia vita è ormai un libro aperto e non c’è nulla di cui io non vada orgoglioso, ho solo il rimorso di non aver capito l’entità del disagio psichico di mia moglie quella notte e di non aver chiamato un medico. Non ho creduto ai suoi tradimenti e ho ancora difficoltà a crederci. Ritengo che Elena abbia invece frequentato soggetti che si sono approfittati di lei in un momento di debolezza e quando si sono accorti delle sue difficoltà hanno taciuto. Ha taciuto anche Don Roberto che non mi ha voluto riferire che cosa gli avesse confidato Elena, a me, suo marito, ma lo stesso Don Roberto non ha avuto remore a rilasciare interviste televisive dove si è aperto invece con i giornalisti e ciò mi ha profondamente addolorato.

Mi si accusa di depistaggi e di aver premeditato tutto in quanto conosco le tecniche di ricerca. Davvero lei può credere che io avrei potuto prevedere che i cani dei gruppi cinofili non avrebbero trovato mia moglie a due passi da casa nostra? Crede davvero che io fingessi di cercare Elena in auto a velocità moderata con il finestrino abbassato sulla strada da Govone, o crede forse semplicemente che la cercassi come vuole la logica? Crede davvero che se avessi ucciso mia moglie avrei perso tempo al telefono ed avrei chiamato i vicini prima di occultarne il corpo a poche centinaia di metri da casa?

Niente di ciò che sostiene l’accusa è sorretto dalla logica, non chiamai i vicini per preordinarmi una linea difensiva, li chiamai semplicemente perché non trovavo mia moglie. Se avessi ucciso Elena e subito dopo avessi chiamato la vicina, chi mi avrebbe garantito che M. C., dopo la mia telefonata delle 8.55.04, non sarebbe uscita a cercarla verso l’area del Rio Mersa dove secondo la procura io nascosi il suo corpo? Perché, se l’avessi uccisa, avrei dovuto avere fretta di denunciare la scomparsa di Elena ai vicini, ai suoi familiari ed ai carabinieri? Crede davvero che sia possibile che un assassino al suo primo omicidio uccida e nel giro di pochi secondi sia pronto ad occultare il corpo della sua vittima e che in quel frangente chiami i vicini?

Solo io trovo la ricostruzione della procura illogica o anche lei? Crede che io abbia un ruolo in ciò che ha riferito mio figlio Giovanni, o che la madre invece gli prospettò una fuga poco prima che io lo accompagnassi a scuola e che Elena purtroppo già premeditasse di scappare?

Mi sono chiesto, rileggendo per l’ennesima volta l’ordinanza del Giudice Marson, poi l’ordinanza dei tre Giudici del riesame ed infine la richiesta di giudizio immediato dello stesso Giudice Marson, come sia possibile che, se il Giudice Marson ha ritenuto nell’ordinanza la premeditazione fondante, dopo che è stata esclusa con vigore dai giudici del riesame, smontando così in gran parte il castello accusatorio, il suddetto Giudice abbia richiesto, nonostante tutto, il mio rinvio a giudizio?

Signor Giudice, la verità è che io sono stato rinviato a giudizio perché nessuno si è spiegato diversamente la morte di mia moglie se non per mano mia, ma ora che esiste una spiegazione alternativa logica e plausibile, cui tra l’altro si confanno tutte le risultanze investigative, perché sono ancora in carcere? Perché sono stato costretto a raggiungere quest’aula ammanettato? La prego, me lo spieghi lei!

Come è possibile Signor Giudice che nell’ordinanza del Giudice Marson si descriva il luogo in cui sono stati ritrovati i resti di Elena come impraticabile, inaccessibile, impervio e difficilmente raggiungibile, e questo alle pagine 15 e 17, e invece solo alla pagina 29 della stessa ordinanza il luogo sia descritto come agevole per un’attività di occultamento? Come possono variare così drasticamente le condizioni dei luoghi agli occhi dello stesso Giudice nella stessa ordinanza? Impervie per nascondervisi ma agevoli per occultare. Non è indubbio, anche secondo lei, che quali che fossero le condizioni del Rio Mersa, il letto del rio sarebbero stato sempre più facile da raggiungere da parte di un singolo nell’atto di nascondersi invece che da parte di un soggetto intento ad occultare un ingombrante cadavere?

Ed ancora, all’indomani del ritrovamento dei resti della povera Elena sono stato accusato di non aver rivelato di essere stato in quel luogo quella mattina. Ho cercato mia moglie dappertutto, non avrebbe avuto senso fare un elenco dettagliato dei luoghi battuti. Sono stato anche accusato di aver rivelato di essere stato lì per un preciso motivo, ma come lei ben sa non ho mai avuto alcun motivo di giustificare a nessuno la mia presenza nei pressi del Rio Mersa, non esiste, Signor Giudice, una fatidica “pregressa mancata rivelazione”, sono rimasto semplicemente basito nel momento in cui ho saputo che avevano ritrovato i resti di Elena in un luogo dove l’avevo cercata. E’ capitato a tutti di dire parole simili alle mie dopo aver ritrovato un oggetto smarrito in un luogo dove lo si era già cercato. Per me, Signor Giudice, è stato un enorme dolore apprendere di essere stato vicino a trovare Elena quella mattina e di non essere riuscito a salvarla e sarà per sempre il mio cruccio.

Signor Giudice, sono stato sottoposto in carcere ad una perizia psichiatrica. Come è possibile che in un paese libero come il nostro, un innocente venga sottoposto a questa umiliazione? Allo psichiatra che mi ha analizzato, al dottor Pirfo, contro ogni protocollo di tutela di un sospettato e poi di un indagato, la dott.ssa Deodato ha fornito gli atti dell’accusa prima che mi incontrasse, le testimonianze, l’ordinanza e, ahinoi, pure le annotazioni dei carabinieri di Costigliole. Come può il giudizio del dottor Pirfo, dopo tali letture, essere stato scevro da pregiudizi? Egli ha letto, tra l’altro, solo gli atti dell’accusa, non essendo ancora disponibile la consulenza criminologica della difesa, il dottor Pirfo si è fatto così involontariamente un’idea preconcetta dei fatti occorsi il 24 gennaio 2014. La sua disposizione nei miei confronti era viziata, non libera da pregiudizi, come avrebbe dovuto essere, e le conclusioni della sua consulenza, proprio per questo motivo, non hanno alcun valore scientifico. Egli ha redatto semplicemente una consulenza di parte, nel senso dispregiativo del termine. Lei sa che quattro relazioni, tra l’altro riportate nella consulenza dello stesso dottor Pirfo, sul giudizio di idoneità al servizio personale di ruolo di vigile del fuoco, redatte nel 2002, 2006 e nel 2009 concludevano che il mio sistema neuropsichico era integro, mentre nell’ultima relazione redatta in data 30 luglio 2013, sei mesi prima della scomparsa di Elena, dal comando provinciale dei vigili del fuoco di Cuneo si legge: “(…) dai contenuti riferiti e dall’osservazione diretta della persona non si rilevano segni evidenti di psicopatologie in atto. Dagli stessi contenuti non si rilevano segni evidenti di deficit e disagi psicologici in atto”. Non vi è quindi all’anamnesi, un’anamnesi che copre più di dieci anni e tutta riferibile all’età adulta, nulla che supporti assolutamente le conclusioni del dottor Pirfo, quanto il contrario. Vede, il disturbo che mi è stato diagnosticato dal dottor Pirfo è un disturbo di personalità ed ogni disturbo di personalità è un modello inflessibile e pervasivo di personalità che affligge un soggetto nell’età adulta in modo permanente, quindi tale disturbo avrebbero dovuto già diagnosticarmelo nel corso degli esami neuropsichici cui mi hanno sottoposto i vigili del fuoco in precedenza. Signor Giudice, non crede anche lei che qualcuno si sbagli? Non si sbaglia la procura a pensare che Elena fosse guarita pur senza fare alcuna terapia e che io mi sia invece improvvisamente ammalato di un disturbo di personalità che rende coloro i quali ne sono affetti capaci di uccidere?

Sono stanco Signor Giudice di lottare contro le ingiuste accuse che mi sono mosse, sono più di 9 mesi che mi trovo in carcere accusato di un infamante omicidio che non ho commesso, le chiedo di porre fine a questo strazio per i miei figli, per me e per Elena, che non avrà pace finché tutta la verità non verrà fuori.

Signor Giudice, sono stato privato senza motivo della libertà e sottoposto ad impensabili umiliazioni. Lei crede che coloro che mi hanno condotto qui di fronte a lei, ignorando la verità e qualsiasi giustizia, saranno mai in grado, una volta che sarò fuori, di ridarmi la mia vita passata? Come potrò, Signor Giudice, dopo la distruzione che i responsabili di questo errore giudiziario hanno aggiunto al dolore per la perdita della loro madre, ricostruire il rapporto con i miei figli ormai violato per sempre dalle calunnie e dal sospetto?

E’ con profondo rispetto che glielo chiedo: Non si renda complice, Signor Giudice, di questo errore giudiziario, sia il primo rappresentante di questo sistema, che garantista non è, a guardare i fatti dalla giusta prospettiva, non aggiunga dolore al dolore, non rallenti l’esplosione della verità e della giustizia, non permetta che un solo giorno in più di carcere scontato da un innocente pesi sulla sua coscienza, mi faccia tornare a crescere i miei figli. Ne ho il diritto”.

L’errore giudiziario cristallizzato dalla Suprema Corte

Alle 17.45 del 4 novembre 2015, il giudice Roberto Amerio ha condannato Michele Buoninconti, un innocente de facto, a 30 anni di carcere, condanna confermata in appello e in cassazione. Non è forse un paradosso che un innocente de facto sia stato condannato in via definitiva a 30 anni per un omicidio che non c’è stato? Michele Buoninconti, nato a Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno) il 28 luglio 1969, vedovo a causa di una tragica fatalità, padre di quattro figli e vittima di malagiustizia sconta la sua pena nel carcere di Alghero (Sassari).

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Dispositivo di sentenza e contestuale motivazione. Tribunale di Asti. Ufficio del giudice per le indagini preliminari. N. Reg. 450/15 Sent. Giudice Roberto Amerio. Data sentenza 4/11/2015. Data del deposito 4/01/2016.

Dispositivo di sentenza e contestuale motivazione. 1° Corte d’Assise di Appello di Torino. N. 4/17 Reg. Sent. N. 9/16 R. G. N. 5984/14 R.G.N.R. Pres. Rel. dott Fabrizio Pasi, consigliere dott.ssa Isabella Diani. Data sentenza 15/02/2017. Data del deposito16/05/2017.

Dispositivo di sentenza e contestuale motivazione. Corte Suprema di Cassazione. Sent. n. Sez. 648/2018 U.P- 17/05/2018 R.G.N. 35589/2017. Presidente Angela Tardio, relatore Roberto Binenti, Francesco Cestofanti, Antonio Cairo, Carlo Renoldi. Data sentenza 17/05/2018. Data del deposito 27/11/2018.

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Ordinanza di Applicazione Misura Coercitiva. Tribunale di Asti. Ufficio del giudice per le indagini preliminari. Giudice Giacomo Marson. Depositato in Cancelleria del Tribunale il 27- 01-2015.

Ordinanza. Tribunale di Torino. Sezione del Riesame. Presidente Dr. Cristina Domaneschi, Dr. Elisabetta Chinaglia, Dr. Silvia Salvadori. Depositato in Cancelleria. Torino. il 26-02-2015.

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Richiesta di applicazione misura cautelare. Proc 5984/2014 r.g.n.r., già 1530/2014 Mld 44. Procura della Repubblica di Asti. Pubblico ministero Laura Deodato. Depositato in Cancelleria del Tribunale di Asti il 23-12-2014.

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