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PIÙ FOLLI TUTTO L’ANNO, PIÙ SOBRI A S. GERARDO

La riflessione di Lucia Serino

Arrivai a Potenza di maggio, quindici anni fa, e fui subito rapita dal clima di festa. A fine mese ero con un fascio di ginestre in mano e il grembiule da contadina. Le curve dallo stadio di via Marconi a via Pretoria, percorse insieme agli altri figuranti durante la “Parata dei Turchi”, mi sembrarono una scivolata, più che una salita, tanto era leggero e bello stare insieme agli altri. La festa, poi, nel giorno della nascita di mia figlia, era quasi un destino nella destinazione. La lucanità, come tutte le identità, è una radice che si può costruire oltre che ereditare. Se le radici si contaminano, in Basilicata come nel resto del mondo, è – a mio parere – un bene. È il motivo per il quale mi sono opposta all’insistenza di mio figlio che voleva tatuarsi la Basilicata sul petto. Vorrei che fosse uno zingaro, che amasse il mondo e tutti i cittadini del mondo, che mescolasse i ricordi della sua adolescenza con nuove esperienze, che mescolasse il suo dialetto potentino oltre che con il mio e quello di suo padre, con tutti quelli che mi auguro incontri nella sua storia di pendolare della vita. Circoscrivere e presidiare un’identità, fortificarla e rivendicarla perché “è così che qui si fa e si fa così da sempre”, è rischioso. Allora, Potenza e l’euforia della sua festa. Fu naturale, quando arrivai, non solo buttarmi subito nello spirito della città, ma anche difenderla dal moralismo zoppo di chi vedeva nel pranzo dei portatori solo un demoniaco baccanale. Resto di quell’idea, convinta anche che i comportamenti è difficile imporli o vietarli per decreto o per regolamento. Mi chiedo, però, oggi cosa sia un eccesso, se esso sia diverso da quello di quindici anni fa e, soprattutto, da dove nasca. Pandemia a parte, non si può banalizzare la discussione. E non si può non cadere nel trappolone dei moralisti quando si parla di giovani e responsabilità, anche se non credo che le bevute dei giorni di San Gerardo siano solo una questione di ragazzi. Mi chiedo però se Potenza e la politica potentina – intesa come capacità di guardare al futuro di tutta la comunità – sappia slacciarci dal codice rigido delle sue radici adeguandole al presente. Bere vino, per l’appunto. In una società rurale, con i suo valori, i suoi riti, i suoi contrappesi, non è la stessa cosa di uno stordimento cercato a tutti i costi in una occasione – una sola occasione – che diventa un liberi tutti perché o si prende al volo quell’occasione o non ce ne sono altre. Il mondo un tempo era piccolo, oggi no. E senza confini. Il digitale non è virtuale, è reale. E noi tutti ne siamo dentro. Quelle radici che diciamo di rivendicare con orgoglio – e che in passato si accompagnavano a una fenomenologia da piccolo mondo antico -sono oggi solo un pretesto di liberazione in un quotidiano sfuggente da governare diversamente per la pluralità di impulsi e di modelli che non si riesce a diluire in una dimensione locale altrettanto incoraggiante e stimolante. L’eccesso si governa a monte, non nell’occasione in cui si manifesta. Non può essere festa tutto l’anno, ma tutto l’anno bisogna che ci sia una città che si proccupi dei suoi giovani rendendoli partecipi per creare insieme dei modelli a misura urbana. Altrimenti ci resta la frustrazione di ciò che vediamo e ciò che non siamo. Potenza è candidata a città dei giovani 2024 per un modello di comunità sano, sti- molante, all’altezza delle aspettative di chi qui cresce. In bocca al lupo. Bisogna es- sere un po’ più folli tutto l’anno per essere più sobri a San Gerardo.

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