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L’INCOGNITA DEMOGRAFICA

Taccuino del Sabato di Enzo Santochirico


Alcune settimane fa, mentre rientravo in studio, nel primo pomeriggio, incontro Gianni, impeccabile col suo gilet arabescato, sempre affabile, che mi saluta, rassicurandomi “Presidente, ti leggo sempre con attenzione”, riferendosi al mio taccuino settimanale. Lo ringrazio e, quasi a giustificarmi, preciso: “Cerco di proporre riflessioni, basandomi su dati e fatti. Ormai si parla sempre più a vanvera”.

E lui di rimando – non smentendo la sua sorprendente poliedricità culturale, che spazia dal teatro al cinema, dall’inchiesta alla ricerca – mi racconta: “A proposito di fatti, quando, agli inizi degli anni 170, ottiene il collegamento alla Basentana e realizza il ciclo dell’obbligo scolastico, Calciano dà l’incarico al gruppo Politecnico (Musacchio e altri), sugli effetti di quella scelta. La previsione, fu che, in assenza di sviluppo e occasioni di occupazione, quella conquista civile e culturale – l’istruzione – avrebbe favorito emigrazione e spopolamento. “All’epoca Calciano – mi dice Gianni – aveva 1812 abitanti e, a distanza di 40 e 50 anni dopo, ho amaramente verificato l’esito di quella profezia: nel 2011 gli abitanti di Calciano erano 812, nel 2021 si sono ridotti a 636”.

Mi è tornato in mente questo episodio al convegno di Confindustria Basilicata, ben introdotto da Francesco Somma, quando il Presidente della Regione ha annunciato di avere assunto come centrale nel Piano Strategico regionale, di recente redazione, la questione demografica, costituendo lo spopolamento il principale problema della regione. E i dati che ha fornito sono, in effetti, terrificanti. Considerando le previsioni demografiche dell’ISTAT per la Basilicata sono di una popolazione lucana di 500.000 abitanti alla fine del decennio 2021-2030, che si riducono a 400.000 nel 2051 e 350.000 nel 2065.

La strategia annunciata è quella di “mettere i giovani nelle condizioni di lavorare, di farsi una famiglia, di migliorare il numero annuo di nascite” e perciò fissa il duplice obiettivo: a) creare 30-35.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030 – raggiungendo il tasso medio nazionale di occupazione (passando dal 50 al 58%) e il numero di complessivi 220-225.000 occupati (dai 190.000 del 2000); b) invertire il trend demografico attraverso l’incremento del tasso di natalità in modo che superi quello di mortalità, e riportare in positivo sia il saldo naturale che quello migratorio.

Occorrerà leggere il Piano Strategico regionale per capire meglio gli strumenti e le misure che dovrebbero garantire tali obiettivi e valutare quanto realistico siano a beve e medio tempore tali traguardi, soprattutto quello demografico. C’è da augurarsi che, accanto alla positiva scelta di dare centralità alla questione demografica, se ne siano studiate le dinamiche con rigore e scientificità, scevri da ogni condizionamento ideologico. Ciò contribuirebbe anche a chiarire alcuni profili critici, sul piano culturale e valoriale, evidenziati da Lucia Serino su queste colonne.

Fra le tante, una recente pubblicazione, a cura dell’Associazione Italiana per gli studi della popolazione, per i tipi del Mulino (2021), “Rapporto sulla popolazione. L’Italia e le sfide della demografia”, offre un ricco repertorio di dati, elaborazioni, dinamiche, con una puntuale suddivisione geografica, settoriale, per genere, che aiuta a comprendere e valutare le tendenze in atto e le politiche che possono incidere. Il dato imprescindibile è il cd. “eccezionalismo demografico” dell’Italia, relativo a diverse dimensioni cruciali nella dinamica popolazione: “la struttura (invecchiata) per età, la (bassa) fecondità, la (lunga) transizione dei giovani allo stato adulto, i (forti) legami familiari, la (lunga) durata della vita, la (veloce) crescita della popolazione straniera”, ma anche la forte diversità delle tendenze a livello locale e in particolare la velocità del declino demografico in alcune aree del paese (la nostra è fra queste). La componente più direttamente e stabilmente connessa con il suddetto eccezionalismo è il flusso delle nascite.

Ormai il numero di figli per coppia è ridotto a 1,18 nel 2019, il Nord del paese supera il Centro- Sud per fecondità e una quota ormai del 15% dei nuovi nati ha genitori stranieri. A causa dell’invecchiamento della popolazione, il saldo naturale in Italia (differenza tra nascite e morti) è negativo da venti anni. In tale periodo cresce complessivamente la popolazione sino al 2014/15 (circa 61 milioni di abitanti), per poi diminuire a 59.257.566 nel 2021, solo perché saldo il migratorio positivo (differenza immigrati/emigrati) supera ampiamente quello naturale. Il 1° gennaio 2020 la popolazione straniera residente in Italia ha raggiunto la quota dell’8,8% del totale. La demografia si muove lenta (slow demography) – c’è da augurarsi che il Piano regionale lo abbia tenuto in debito conto – e uno dei principali processi connessi a tale andamento é l’invecchiamento della popolazione (l’Italia è a livelli record insieme al Giappone). Per non tediare con i numeri, basti questo dato: nel 2020 il gruppo per età più numeroso è quello dei cinquantacinquenni, con un’età media della popolazione pari a 45,7 anni e una quota di ultrasessantenni sul totale pari al 23%. Il peso dei minori di 18 anni è ridotto al 16%.

Questo fenomeno è definito “degiovanimento”. Per quel che riguarda specificamente il tema della fecondità, considerando gli ultimi venti anni si nota che nel primo decennio 2000 la crescita del tasso sino ad arrivare a 1,45 (numero medio figli per donna) è concentrato al centro/nord ed é dovuto per gran parte a stranieri, comunque diminuisce nell’ultimo (1,27), e aumenta l’età media del parto (33 anni). Per fecondità l’Italia è agli ultimi posti in Europa. I fattori che determinano una bassa fecondità, secondo i demografi, sono molti: soprattutto bassa partecipazione donne al mercato del lavoro, diseguaglianze di genere nel carico di cura, debolezza delle politiche per le famiglie, carenza di servizi per l’infanzia, ma anche ritardo dei giovani a diventare adulti.

Questa “trappola demografica” non solo fotografa la situazione attuale, ma condiziona anche il futuro. Pochi nati oggi significa avere pochi genitori domani. Secondo l’ISTAT la popolazione femminile in età fertile (15-49) anni) diminuirà notevolmente e questo inciderà sensibilmente (insieme a migrazioni e mortalità), oltre all’effetto COVID, già molto forte, sulla dinamica delle nascite future. In questo quadro, che vede la Basilicata, peraltro, nell’ultimo decennio avere anche un saldo negativo migratorio, oltre che naturale, è realistico un incremento demografico dovuto ad un aumento della natalità? Qualche risposta nel Taccuino di sabato prossimo.


Buon fine settimana


 

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