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BANDA DELLA UNO BIANCA, IL 4 GENNAIO 1991 I FRATELLI SAVI UCCIDONO 3 CARABINIERI AL PILASTRO, L’ANALISI DELLA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO

Il fatto che gli inquirenti ignorassero la figura dell’omicida seriale ha contribuito a far sì che l’opinione pubblica ed i media ritenessero credibili le ritrattazioni deliranti dei Savi e non le loro confessioni, circostanziate e concordanti

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE

BANDA DELLA UNO BIANCA, IL 4 GENNAIO 1991 I FRATELLI SAVI UCCIDONO 3 CARABINIERI AL PILASTRO, L’ANALISI DELLA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO

Tra il 2007 ed il 2008 ho analizzato le gesta criminali della cosiddetta Banda della Uno Bianca. Su questo gruppo criminale, i non addetti ai lavori hanno speculato a lungo elaborando ipotesi fantasiose come quella che vuole che la Banda fosse legata ai servizi segreti, nulla di più lontano dalla realtà.
I Savi non hanno mai goduto di protezioni “altolocate”, ciò che ha condizionato negativamente le indagini, permettendo alla Banda di agire per lungo tempo indisturbata, sono stati i depistaggi del brigadiere dei carabinieri Domenico Macauda, quelli degli informatori Anna Maria Fontana e Simonetta Bersani e la disorganizzazione nelle indagini per l’assenza di coordinamento tra i magistrati e le forze dell’ordine e non un fantomatico legame tra i Savi e i servizi segreti.

Criminologa URSULA FRANCO

Il fatto che gli inquirenti ignorassero la figura dell’omicida seriale ha contribuito a far sì che l’opinione pubblica ed i media ritenessero credibili le ritrattazioni deliranti dei Savi e non le loro confessioni, circostanziate e concordanti.

Dottoressa URSULA FRANCO
INTRODUZIONE

Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta la cosiddetta Banda della Uno Bianca ha seminato morte e terrore in un’area geografica che abbraccia le provincie di Bologna, Forlì e Pesaro.
Rapine, tentate rapine e omicidi apparentemente immotivati hanno caratterizzato le azioni di questa gang criminale composta dai tre fratelli Savi, di cui due poliziotti, e da altri tre agenti della Polizia di Stato.

Tra gli episodi criminosi attribuibili alla Banda della Uno Bianca, l’omicidio della guardia giurata Giampero Picello, l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, l’omicidio di due carabinieri in pattuglia a Castelmaggiore, i quattro tentati omicidi di guardie giurate e l’omicidio immotivato del pensionato Adolfino Alessandri, l’omicidio di Primo Zecchi, gli omicidi di Luigi Paschi e Paride Pedini, l’omicidio di tre giovani carabinieri in pattuglia nel quartiere Pilastro a Bologna, l’omicidio di Claudio Bonfiglioli, il duplice omicidio nell’armeria di via Volturno a Bologna, l’omicidio del benzinaio Graziano Mirri, quello del fattorino Massimiliano Valenti e del bancario Ubaldo Paci, hanno suscitato un vasto allarme sociale.

GLI EPISODI CRIMINOSI

1987

19 giugno – Pesaro: rapina al casello della A-14 di lire 1.300.000.
26 giugno – Riccione: rapina al casello della A-14 di lire 2.420.000.
2 luglio – Cesena: rapina al casello della A-14 di Cesena nord di lire 2.500.000.
2 luglio – Rimini: rapina al casello di Rimini nord della A-14 di lire 2.400.000.
6 luglio – San Lazzaro (Bo): rapina al casello della A-14 di lire 4.278.000.
18 luglio – Riccione: rapina al casello della A-14 di lire 5.000.000.
24 luglio – Ancona: rapina al casello della A-14 di Ancona nord di lire 5.530.000.
24 luglio – Coriano (Fo): rapina all’Ufficio Postale di lire 54.000.000.
27 luglio – San Lazzaro (Bo): rapina al casello della A-14 di lire 3.515.000.
4 agosto – Rimini: rapina al casello della A-14 di Rimini nord di lire 6.200.000.
13 agosto – Riccione: rapina al casello della A-14 di lire 2.000.000.
31 agosto – San Lazzaro (Bo): tentata rapina al casello della A-14, un ferito.
5 settembre – Cesena; rapina al casello della A-14 di lire 2.200.000.
10 settembre – Rimini: danneggiamenti all’Autosalone di Savino Grossi.
23 settembre – Rimini: danneggiamenti all’Autosalone di Savino Grossi.
3 ottobre – Cesena: tentata estorsione al km 104 della A14, tre feriti.
11 novembre – Idice (Bo): tentata rapina all’ Ufficio Postale.
21 novembre – Cesena: rapina alla Coop di lire 78.000.000, un ferito.
14 dicembre – Idice (Bo): tentata rapina all’Ufficio Postale.

1988

31 gennaio – Rimini: tentata rapina alla Coop del quartiere Celle, un morto e sei feriti.
4 febbraio – San Lazzaro (Bo): rapina al casello della A-14 di lire 3.500.000.
19 febbraio – Casalecchio (Bo): tentata rapina alla Coop, un morto e tre feriti.
20 aprile – Castelmaggiore (Bo): attacco ad una pattuglia di Carabinieri, due morti.
24 maggio – Casteldebole (Bo): rapina alla Conad di lire 20.000.000.
13 agosto – Cattolica: rapina al casello della A-14 di lire 2.900.000.
19 settembre – Forlì: tentata rapina alla Coop, 3 feriti.
21 settembre – San Vito (Fo): rapina all’Ufficio Postale.
13 ottobre – Bologna: rapina alla Coop di via Massarenti di lire 98.000.000, due feriti.
12 novembre – Pesaro: rapina alla Coop di lire 159.500.000.

1989

26 giugno – Bologna: rapina alla Coop di via Gorki di lire 38.000.000, un morto e quattro feriti.
1 dicembre – Bologna: rapina ad un supermercato di lire 27.000.000.

1990

2 gennaio – Bologna: attacco ad un extracomunitario in via Aldo Moro, un ferito.
4 gennaio – San Lazzaro (Bo): rapina al casello della A-14 di lire 3.575.000.
15 gennaio – Bologna: tentata rapina all’Ufficio Postale di via Mazzini, sessantasette feriti.
25 gennaio – Cesena: rapina ad un distributore di lire 800.000.
7 febbraio – Rimini: rapina al casello della A-14 di lire 2.700.000.
9 febbraio – Bologna: rapina alla Coop di lire 14.000.000.
17 marzo – Cesena: rapina al Gross Market di lire 30.000.000.
30 aprile – Bologna: rapina di una Fiat Tipo presso il garage di via Saragozza, un ferito.
22 maggio – San Lazzaro (Bo): rapina al casello della A-14 di lire 3.935.550.
2 agosto – Bologna: rapina ad un distributore di lire 10.400.000.
9 agosto – Riccione: rapina al casello della A-14 di lire 2.875.350.
10 agosto – Cesenatico: rapina ad un distributore Monte Shell di lire 1.500.000, un ferito.
12 settembre – Pianoro (Bo): rapina ad un distributore di lire 7.200.000, un ferito.
13 settembre – San Lazzaro (Bo): rapina ad un distributore di lire 5.000.000.
6 ottobre – Longara (Bo): rapina al supermercato CRAI di lire 1.700.000.
6 ottobre – Bologna: rapina alla tabaccheria di via Zanardi di lire 700.000, un morto ed un ferito.
31 ottobre – San Mauro Pascoli (Fo): rapina alla Conad di lire 2.000.000.
10 dicembre – Bologna: assalto al campo nomadi di S. Caterina di Quarto, nove feriti.
22 dicembre – Borgo Panigale (BO): attacco a lavavetri extracomunitari in via De Gasperi, due feriti.
23 dicembre – Bologna: assalto al campo nomadi via Gobetti, due morti e due feriti.
27 dicembre – Castelmaggiore (Bo): rapina al distributore Esso di lire 1.200.000, un morto ed un ferito.
27 dicembre – Trebbo di Reno: un morto.

1991

4 gennaio – Bologna: attacco ad una pattuglia di Carabinieri presso il quartiere Pilastro, tre morti.
15 gennaio – Pianoro (Bo): rapina al distributore AGIP di lire 1.200.000, un ferito.
18 gennaio – Foscherara: tentata rapina ad un supermercato.
20 aprile – Borgo Panigale (Bo): tentata rapina ad un distributore AGIP, un morto.
4 aprile – Rimini: rapina al casello della A-14 di lire 2.313.000.
24 aprile – Riccione: rapina al casello della A-14 di lire 1.240.000.
30 aprile – Rimini: attacco ad una pattuglia di Carabinieri, tre feriti.
2 maggio – Bologna: rapina di due pistole Beretta presso l’Armeria di via Volturno, due morti.
5 maggio – Riccione: rapina ad un’area di servizio della A-14 di lire 3.448.000.
5 maggio – Sant’Arcangelo (Fo): tentata rapina ad un distributore.
6 maggio – Cattolica: rapina ad un distributore di lire 4.100.000.
12 maggio – Gabicce (Ps): rapina ad un distributore di lire 2.480.000.
26 maggio – Rimini: rapina ad un distributore di lire 5.000.000.
1 giugno – Cesena: tentata rapina al distributore di San Mauro in Valle.
8 giugno – San Mauro di Cesena: tentata rapina al distributore Tamoil.
15 giugno – Torre Pedrera, Rimini: rapina ad un distributore di lire 400.000, un morto.
19 giugno – Gabicce (Ps): rapina ad un distributore di lire 1.000.000.
19 giugno – Cesena: tentata rapina al distributore Esso, un morto.
20 giugno – Cesenatico: tentata rapina al distributore Monte Shell.
25 giugno – Riccione: rapina ad un distributore di lire 1.000.000.
5 luglio – San Lorenzo di Riccione: tentata rapina all’Ufficio Postale.
13 luglio – Morciano di Romagna: agguato al direttore dell’Ufficio Postale di San Lorenzo di Riccione, un ferito.
15 luglio – Cesena: rapina ad un Ufficio Postale di lire 8.000.000.
9 agosto – Rimini: tentata rapina all’Ufficio Postale di via Campano, un ferito.
18 agosto – San Mauro Mare: attacco a tre cittadini senegalesi, due morti ed un ferito.
18 agosto – San Vito (Fo): attacco ad un auto con tre ragazzi a bordo, un ferito.
28 agosto – Santa Maria delle Fabbrecce (Ps): rapina all’Ufficio Postale di lire 7.700.000.
28 agosto – Gradara (Ps): scontro a fuoco con due poliziotti, due feriti.
4 ottobre – Castel San Petroterme (Bo): rapina ad una banca di lire 66.745.000.
25 novembre – Cesena: rapina alla Banca Popolare di Cesena, agenzia Stadio, di lire 138.703.570.

1992

17 febbraio – San Lazzaro: rapina ad un supermercato di lire 4.000.000.
24 febbraio – Bologna: rapina alla Banca Carimonte in via Gagarin di lire 301.852.000.
10 agosto – Cesena: tentata rapina al Credito Romagnolo, un ferito.
26 agosto – Casalecchio: rapina alla Cassa Risparmio di lire 160.000.000.
23 ottobre – Bologna: rapina alla Cassa Risparmio di lire 50.000.000.

1993

24 febbraio – Zola Predosa (Bo): rapina al Credito Romagnolo di lire 104.000.000, un morto.
10 maggio – Bologna: rapina alla Cassa di Risparmio di Ravenna in via Barelli di lire 72.000.000.
5 luglio – Cesena: rapina al Credito Romagnolo di lire 38.000.000.
7 ottobre – Riale (Bo): tentata rapina alla Cassa di Risparmio, un morto e due feriti.
12 ottobre – Bologna: rapina alla Banca di Roma in via Ferrarese di lire 76.000.000.
27 ottobre – Bologna: rapina alla Cassa di Risparmio di Bologna in via Toscana, di lire 30.000.000.
26 novembre – Rimini: rapina alla Cassa di Risparmio di lire 89.000.000.

1994

14 gennaio – Coriano di Rimini: tentata rapina al Credito Romagnolo, agenzia di Cerasolo d’Ausa, due feriti.
20 gennaio – Bologna: rapina alla Cassa di Risparmio in via Barelli di lire 83.000.000.
3 marzo – Bologna: tentata rapina all’Istituto di Credito Cooperativo di Imola in via Bainsizza, due feriti.
21 marzo – Cesena: tentata rapina alla Banca Popolare E.R. Sant’ Egidio.
31 marzo – Forlì: rapina al Credito Romagnolo in via Risorgimento di lire 75.000.000.
24 maggio – Pesaro: tentata rapina alla Cassa Risparmio di Pesaro, un morto.
7 luglio – Ravenna: rapina al Credito Romagnolo Rolo di lire 57.000.000.
6 settembre – Bologna: rapina alla Banca Popolare dell’Adriatico in viale Lenin di lire 127.000.000.
21 ottobre – Bologna: tentata rapina alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in via Caduti di via Fani, due feriti.

Ho redatto l’elenco degli episodi criminosi attribuiti alla Banda della Uno Bianca in base alle risultanze processuali, è assente la lista dei furti delle autovetture usate per commettere i diversi reati.

LA STRUTTURA DELLA BANDA
ROBERTO SAVI

La Banda della Uno Bianca è stata un gruppo criminale, dedito a rapine e omicidi, composto dai tre fratelli Savi, Roberto (Forlì, 19.05.54), poliziotto alla Squadra Mobile di Bologna, Fabio (Forlì, 22.04.60), autotrasportatore, ed Alberto, detto Luca (Cesena, 15.02.65), poliziotto presso la Polaria di Rimini e da altri tre complici, tre agenti della Polizia di Stato in forza alla Squadra Mobile di Bologna, tali Marino Occhipinti (Forlì, 25.02.65), Pietro Gugliotta (Messina, 21.05.60) e Luca Vallicelli.

FABIO SAVI

Nonostante un certo livello di complementarità tra Fabio e Roberto Savi, il capo di questo gruppo criminale è stato Roberto Savi, un leader capace di esercitare un alto grado di influenza sugli altri membri della Banda e libero di reclutarne di nuovi senza consultarsi con nessuno.

Fabio e Roberto sono stati l’hardcore della Banda della Uno Bianca, hanno partecipato a tutti gli eventi criminosi e hanno determinato il livello di violenza delle attività criminali del gruppo, riconosciuti colpevoli della quasi totalità dei reati di sangue ascritti alla Banda, sono stati condannati all’ergastolo.

Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli sono stati membri associati e non hanno mai condiviso lo stesso grado di coinvolgimento di Roberto e Fabio ma hanno rivestito un ruolo per certi versi passivo. In quanto gregari, non si sono mai occupati attivamente dell’organizzazione delle rapine, al contrario, solevano ricevere in macchina precisi ordini da Roberto poco prima di dirigersi verso il luogo prescelto.

Alberto Savi ha preso parte ad alcune rapine ai caselli autostradali, tra cui quella al casello di San Lazzaro, rapina durante la quale è stato ferito il casellante Ricuperati; allo scontro a fuoco durante il tentativo di estorsione ai danni di Savino Grossi; all’assalto alla Coop di via Massarenti; all’assalto all’Ufficio Postale di via Mazzini; alla rapina alla Carimonte di via Gagarin ma soprattutto al triplice omicidio dei tre carabinieri al Pilastro e per questi reati e per il reato associativo è stato condannato in via definitiva all’ergastolo.

Marino Occhipinti e Luca Vallicelli hanno partecipato alla rapina incruenta al casello di San Lazzaro, dopo la quale si è chiusa la carriera criminale di Vallicelli; Luca Vallicelli è stato condannato ad una pena irrisoria per il concorso in una sola rapina; Marino Occhipinti, avendo preso parte anche alla tentata rapina in danno della Coop di Casalecchio di Reno, una rapina conclusasi con un omicidio e tre tentati omicidi delle guardie giurate addette al prelievo dell’incasso, è stato condannato, per le due rapine e per il reato associativo, all’ergastolo. Nel gennaio 2012 ha ottenuto la semilibertà. Dal 3 luglio 2018 è un uomo libero.

Pietro Gugliotta è stato condannato in via definitiva a 20 anni per aver partecipato al tentato omicidio di un extracomunitario, tale Driss Akesbi, all’assalto all’Ufficio Postale di via Mazzini e ad alcune rapine incruente; è un uomo libero dal luglio 2007, grazie all’indulto e alla buona condotta.

Alberto Savi, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti hanno partecipato ad alcune attività della Banda per motivi economici, per appagare il proprio bisogno emozionale di appartenenza e per compiacere Roberto Savi, il loro leader. Al contrario, il profitto non è mai stato il vero obiettivo di Roberto e Fabio Savi che, nonostante gli introiti, a differenza dei loro gregari, non cambiarono mai il proprio tenore di vita.

I MOVENTI

Il pubblico ministero Walter Giovannini ha insistito spesso durante il processo di Bologna sui temi dell’efferatezza e della gratuità delle azioni dei Savi.

Ecco alcuni interessanti stralci della sua relazione introduttiva: “Una vicenda caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata (…) Episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale, che però connota quell’associazione di caratteristiche particolari… Il 2 gennaio 1990 feriscono un cittadino marocchino, tale Driss Akesbi. Ditemi voi che interesse, che motivo ci poteva essere? (…) Il 22 dicembre 1990 su una Golf scura nel parcheggio dell’Ipercoop di via De Gasperi, verso le 13.00, la Smith & Wesson di Roberto Savi spara su due lavavetri extracomunitari e vengono entrambi feriti. Questa volta non c’è neanche la scusante o giustificazione della prova del fuoco. Il tentato omicidio è confessato da entrambi. Questo è ancor meno spiegabile, almeno dovevano iniziare Gugliotta, questa volta no! (…) Il 10 dicembre del 1990 è l’inizio di un dicembre di sangue, un terribile dicembre di sangue. Alle 19,40 al campo nomadi di Santa Caterina di Quarto giungono quattro persone su una Uno bianca. Sparano due armi, una carabina AR70 e un Revolver 357 e fanno 9 feriti, dentro e fuori le roulottes. È pluritentato omicidio, perchè va bene ai feriti! Perché sparano non l’abbiamo capito! (…) Il 23 dicembre 1990, via Gobetti, ore 8,15, spara l’AR70 di Roberto: due morti e due feriti, guardate le fotografie di queste povere vittime! Quel giorno o la sera prima il bisogno di sangue di questi volgari assassini era ben maggiore. È solo e soltanto furia omicida? (…) Il 20 aprile del 1991, altra storia che ha dell’incredibile! Omicidio che non ci convince. Dovevano avere un estremo bisogno di denaro!! Uccidono Bonfiglioli ed il suo cane ma lasciano le banconote sparse per terra. Sono così interessati al denaro che ne perdono la maggior parte (…) Il 21 ottobre del 1994, ore 8.00, via Caduti di via Fani, la banca ha la porta bloccata, sparano su 3 persone. È un fatto di sangue, anche questo, di una violenza bestiale, sembra che quel giorno non interessasse il denaro! (…) A questo punto vi leggerei pochissime righe del Senatore Libero Gualtieri che ha curato la prefazione ad un libro che si è occupato della Banda della Uno Bianca: Non hanno mai sparato per aprirsi la strada verso l’obiettivo, né per proteggersi la fuga, sparavano per uccidere sembra che solo questo importasse loro, più ancora del bottino. Gli omicidi eseguiti e quelli tentati sono stati nella quasi totalità sproporzionati all’economia dell’azione in corso, sono stati commessi sempre per eccesso, indifferenti alla reazione che tanta ferocia avrebbe provocato….”.

E ancora, uno stralcio della requisitoria del pubblico ministero Giovannini al processo di Bologna: “Un bagno di sangue efferato e troppe volte inspiegabile……. è stato troppe volte connotato da altissimi livelli di ambiguità sia sotto il profilo degli obiettivi che delle azioni….. agghiacciante messaggio di morte di paura di terrore…… esplosione in maniera drammaticamente eclatante della furia omicida del gruppo troppe volte gratuita, seminando sovente in maniera del tutto gratuita panico e terrore sulla popolazione con azioni apparentemente non sorrette da finalità di lucro…. Da subito freddezza, efferatezza lucidità, violenza gratuita”.

Infine, una affermazione della presidentessa dell’Associazione Vittime della Uno Bianca, Rosanna Zecchi, appare particolarmente significativa: “Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione”

La risposta ai quesiti ricorrenti del pubblico ministero Giovannini è semplice: la Banda della Uno Bianca è stata un gruppo criminale il cui zoccolo duro era composto da una coppia di serial killer, Roberto e Fabio Savi, due uomini determinati ad uccidere categorie di persone diverse, in situazioni diverse, con moventi diversi l’uno dall’altro.

A dispetto dei luoghi comuni, il serial killer, troppo spesso considerato una specie a parte che agisce secondo schemi rigidi e disumani, è invece, in quanto essere umano psichicamente complesso, capace di manifestarsi in modo articolato rispetto ai moventi ed alla scelta delle vittime.

Ad un’analisi superficiale i componenti della Banda della Uno Bianca rispetto ad un buon numero di omicidi commessi durante le rapine, sembrerebbero rientrare nella categoria dei killer utilitaristici, considerando omicidi utilitaristici quelli omicidi commessi per compiere più rapidamente una rapina o per aprirsi una via di fuga; in realtà, solo alcuni dei loro omicidi associati a rapine rientrano in questa categoria, in particolare gli omicidi ed i tentati omicidi delle guardie giurate negli assalti alle Coop, la tentata rapina con uso di esplosivo all’Ufficio Postale di via Mazzini, il tentato omicidio di due poliziotti accorsi mentre i Savi stavano allontanandosi dal luogo di una rapina a Gradara e il ferimento del brigadiere dei carabinieri Tamiazzo che intimò l’alt a Fabio Savi durante la fuga seguita alla rapina ad un distributore, per il resto, gli omicidi commessi dai Savi e correlati a rapine non rientrano tra gli omicidi utilitaristici ma tra gli omicidi situazionali che, secondo la definizione, sono quelli omicidi di vittime casuali commessi con un’arma da fuoco nell’atto di compiere un altro reato o mentre il soggetto sta cercando di mettersi in fuga dopo il reato stesso.

Fabio Savi ha spesso sparato a soggetti che non rappresentavano assolutamente un potenziale pericolo; Fabio sparava mosso dalla rabbia che provava per una rapina non andata a buon fine. Gli omicidi ed i tentati omicidi per mano sua sono, a tutti gli effetti, ritorsioni per il fallimento della rapina. In specie, gli omicidi di Ubaldo Paci, di Carlo Poli, di Graziano Mirri, di Licia Ansaloni e Pietro Capolungo, i tentati omicidi di Amadesi e Zappoli, di Santini e Convertino, di Andrea Farati e di Edoardo Merendi, sono a lui ascrivibili e sono stati generati dalla sua bassa soglia di tolleranza alle frustrazioni.

Roberto, a differenza di Fabio, uccideva quando le rapine andavano a buon fine. Roberto era mosso da una sorta di euforia, un’esaltazione prodotta dall’aumento dell’adrenalina per una rapina ben riuscita. Addebiterei a Roberto, sulla base dei dati emersi dagli interrogatori e di quelli comportamentali, gli omicidi di Massimiliano Valenti, Primo Zecchi ed Adolfino Alessandri.

Alcuni degli omicidi dei Savi rientrano tra gli omicidi perpetrati per futili motivi o per divertimento. Tali omicidi, per definizione, sono quelli omicidi che vengono commessi per ottenere guadagni economici irrisori, per il divertimento di sparare a bersagli umani o per provare l’efficienza di un’arma. Nel caso della Banda della Uno Bianca appartengono a questa categoria i tentati omicidi e gli omicidi ai danni dei nomadi e degli extracomunitari.

Nonostante Roberto e Fabio uccidessero volentieri le stesse categorie di persone non lo facevano per le stesse ragioni. Roberto uccideva nomadi ed extracomunitari per divertimento, invece Fabio quando uccideva gli extracomunitari per pulizia morale.

Infine, i Savi, mossi da sentimenti ostili nei confronti dell’autorità, sparavano a guardie giurate, carabinieri e poliziotti. Questi omicidi rientrano nel novero degli omicidi per vendetta simbolica.

LE VITTIME

La carriera criminale dei Savi ha avuto inizio con una serie di rapine a mano armata, risale al 19 giugno del 1987 la prima rapina ai danni del casello autostradale di Pesaro; dopo undici rapine incruente, il 31 agosto 1987, durante un tentativo di rapina ai danni del casello di San Lazzaro, i Savi ferirono il casellante Roberto Ricuperati; un mese dopo, il 3 ottobre 1987, durante un tentativo di estorsione ai danni di Savino Grossi, datore di lavoro di Fabio, i Savi spararono a tre poliziotti.

Fabio Savi, a causa di problemi alla vista, nonostante fosse un bravo tiratore, non è riuscito ad entrare in polizia come i fratelli e non ha mai avuto un lavoro regolare. Ciò che lo indusse ad uccidere furono il profondo rancore e il forte desiderio di rivincita nei confronti della società, una società che tendeva ad escluderlo facendolo sentire un fallito.

Nel caso di Roberto, la sua attività di poliziotto non compensava interamente il suo bisogno di agire violenza e la sua cronica necessità di eccitamento, per questo motivo cercò, al di fuori del lavoro, in forme estreme di violenza, ulteriori appaganti gratificazioni.

La Banda della Uno Bianca ha commesso due generi di reati: rapine più o meno cruente e aggressioni seguite ad una caccia all’uomo.

Fabio e Roberto sono stati dei veri cacciatori di uomini, la partecipazione degli associati alla caccia è stata rara. Alberto fu coinvolto solo nel triplice omicidio dei carabinieri al Pilastro e Gugliotta al ferimento di un extracomunitario in zona Fiera, a Bologna.

Le vittime della Banda sono state di due tipi: vittime occasionali, uccise o ferite durante le rapine, e vittime programmate, quali carabinieri, nomadi ed extracomunitari, uccise o ferite durante gli episodi di caccia all’uomo.

Fabio, durante le sue deposizioni, come molti suoi colleghi serial killer, ha tentato di far passare le vittime come corresponsabili, rappresentando, a volte, l’atto di forza compiuto da lui e dai suoi complici come una risposta ad una reazione o ad un atto di forza delle vittime, arrivando spesso perfino a vantarsi delle proprie capacità in caso di conflitto.

I sopravvissuti alle violenze della Banda della Uno Bianca ed i familiari delle vittime hanno sviluppato un Disturbo post-traumatico da stress caratterizzato da ansia e sintomi dissociativi, sintomi depressivi e riduzione della reattività emozionale che consiste in un generale ottundimento della responsività agli stimoli come meccanismo per controllare i sintomi di una reazione d’allarme crescente.

Tra le vittime della Banda della Uno Bianca sono da annoverarsi anche il padre di Pietro Gugliotta e Giuliano Savi, padre dei tre fratelli Savi, i quali, una volta scoperta la verità sui loro figli, sono stati incapaci di rielaborare il profondo senso di fallimento rispetto al proprio ruolo di educatori e si sono tolti la vita.

IL MODUS OPERANDI

La carriera criminale dei Savi ha avuto inizio con una serie di rapine a mano armata, ovvero rapine ai caselli autostradali progettate da Roberto sulla falsa riga di quelle commesse da altri, poi sono venuti gli assalti ai furgoni blindati delle Coop, quelli agli Uffici Postali, alle Banche e la caccia all’uomo.

Roberto Savi organizzava gli assalti, curava ogni dettaglio, grazie ai sopralluoghi registrava le abitudini degli ignari futuri protagonisti delle sue rapine e studiava le vie di accesso e di fuga. Roberto progettava le rapine ma non gli omicidi che le accompagnavano, egli pianificava solo la fase simbolicamente più importante per lui.

Per quanto riguarda gli omicidi, Fabio sparava se la vittima si opponeva, disapprovava, protestava od ostacolava il buon esito della rapina mentre Roberto uccideva in preda all’esaltazione di una rapina andata a buon fine.

Sia le ritrattazioni che le confessioni, oltre ai racconti dei testimoni, permettono di inferire che fosse proprio l’azione paramilitare a gratificare Roberto Savi; nella sua ricorrente mise in scéne si riconosce la sua firma, una firma che coincideva con il modus operandi della Banda. Le azioni gratuite sono indicatori della personalità di un soggetto e rappresentano la manifestazione più caratteristica delle sue fantasie. Roberto Savi aveva bisogno di caricare di un valore simbolico il proprio reato in modo da appagare un suo bisogno psicologico.

Nella confessione di Roberto Savi, a pochi giorni dall’arresto, l’uso di alcune parole, “operammo”, “obiettivo” e in particolare “azione”, per definire i propri reati, appaiono fuori luogo ma dopo aver ascoltato la sua ritrattazione ci si rende conto che l’uso di quei termini gli ha permesso , durante la confessione, di rivivere emozionalmente le fasi dell’evento dalle quali lui traeva maggior piacere; inoltre in quei termini è già riconoscibile l’embrione di una sua personale e “delirante” rilettura dei fatti. Questi termini che stonavano nelle sue confessioni, per il resto credibili e circostanziate, non erano altro che il germe della sua prossima e “fantastica” ritrattazione; una ritrattazione dove le “azioni” sono diventate parte di un disegno più complesso e grandioso, di una missione speciale.

Roberto, durante le ritrattazioni, ha addobbato oltremodo il ricordo ormai remoto dell’“azione” e lo ha fatto attraverso la fantasia, il Savi si è arrangiato come poteva per ottenere dal proprio racconto un’ulteriore gratificazione emozionale, raggiungibile ormai solo allontanandosi dalla realtà dei fatti. Nell’immediatezza dell’arresto, Roberto Savi, ha velatamente descritto i reati commessi come azioni paramilitari; durante le ritrattazioni ha tentato di farle passare per azioni paramilitari nell’ambito di un grosso disegno dei servizi segreti, con questo meccanismo Roberto Savi è riuscito ad amplificare l’importanza e la risonanza del fatto narrato per ottenerne una gratificazione psichica simile a quella ottenuta durante la commissione del reato stesso.

Già a due giorni dall’arresto, il 23 novembre 1994, prima della confessione del 28 novembre 1994, Roberto cercò un modo per non soccombere, durante un trasferimento, rivolgendosi ai colleghi disse: “Siamo in tanti, abbiamo i depositi di armi in Veneto, sono protetto, frequento Riccardo Mazza”.

L’uso di ricetrasmittenti, di nomi in codice, l’analisi del tipo di armi usate durante i vari episodi criminosi convergono a sostenere l’ipotesi che Roberto Savi ottenesse una gratificazione emozionale proprio dal mettere in scena delle azioni paramilitari. In molte delle sue azioni egli ha usato una carabina Beretta AR70, versione civile di un fucile d’assalto in dotazione ai soldati delle forze NATO che spara micidiali proiettili calibro .222 ad altissima velocità che si frammentano all’impatto, un arma da cecchino.

Roberto, a volte, durante le rapine ha finto di parlare con qualcuno attraverso la ricetrasmittente, un atto di supporto alla sua sceneggiatura.

I DEPISTAGGI

Roberto Savi, oltre alle rapine, ha organizzato anche alcuni depistaggi: ha abbandonato al Pilastro, quartiere malfamato di Bologna, la carta d’identità del direttore della Cassa di Risparmio di Casalecchio e il libretto di circolazione della macchina usata per la rapina alla Coop di via Gorki; ha fatto ritrovare alcuni assegni, proventi di una rapina, in un bar di Catania sito nei pressi della stazione; ha fatto ritrovare ad Arezzo alcuni documenti sottratti a cassieri e clienti durante una rapina; dopo l’omicidio di Massimiliano Valenti, sulla Y10 rubata ed usata per la rapina, ha lasciato un biglietto dell’ ATM di Catania; per indirizzare i sospetti verso la criminalità proveniente dal sud Italia, i componenti della banda, durante le rapine, parlavano in dialetto siciliano; a volte Roberto ha fatto in modo che, dopo aver commesso un reato con Fabio, fossero le volanti dei suoi ex complici a giungere sulla scena del crimine, ex complici che lui invitava preventivamente a temporeggiare.

Inoltre, Roberto Savi, come altri serial killer organizzati, in alcuni casi ha partecipato alle indagini riguardanti i suoi stessi reati, lo hanno motivato non solo il desiderio di conoscere l’evoluzione delle stesse ma anche l’eccitamento che un tale azzardo può provocare.

Roberto ha “ritrovato”, in compagnia degli agenti della sua pattuglia, le macchine che lui stesso aveva rubato e usato per commettere alcuni efferati crimini.

In alcuni casi, Roberto Savi, in una sorta di sfida estrema, ha riportato le macchine usate per commettere le rapine nella stessa via in cui le aveva rubate, spesso a due passi da casa sua, sede della centrale operativa della Banda.

Inoltre, Roberto, alla ricerca di un’ulteriore gratificazione emozionale, è tornato sulla scena del crimine, almeno due volte, nell’immediatezza dei fatti: in via Gobetti, dove si è presento in borghese pochi minuti dopo aver assaltato il campo nomadi a colpi di carabina AR70, due morti e due feriti, e nell’armeria di via Volturno, dove è giunto in divisa subito dopo la scoperta dei corpi.

LE INDAGINI

La banda ha operato dal giugno 1987 all’ottobre 1994, l’unica ragione della prolungata impunità sono state le indagini inefficienti dovute alla cecità di fronte ai collegamenti per un difetto di formazione delle forze dell’ordine e per il mancato coordinamento tra gli investigatori.

In ogni indagine si registrano depistaggi casuali e non voluti neanche dai protagonisti, falsi testimoni oculari o interferenze da parte di mitomani, in questo caso, però, la disponibilità di alcune procure ad impegnare risorse su deboli piste investigative ha favorito l’impunità della Banda della Uno Bianca e ha reso possibile l’omicidio di molti cittadini indifesi.

Le difficoltà investigative unite alla scarsa conoscenza dei fatti e dei protagonisti delle vicende hanno alimentato assurde ipotesi giornalistiche che hanno finito per prendere spesso la via del delirio.

L’omicidio dell’educatore carcerario del carcere di Opera, Umberto Mormile, avvenuto nell’aprile del 1990, continua ad essere erroneamente addebitato ai Savi, nonostante le perizie balistiche negative su tutte le calibro .38 Special/.357 Magnum appartenute alla Banda della Uno Bianca.

Nel 1991, dopo quattro anni dalla prima rapina, gli investigatori sono riusciti ad attribuire i reati della Banda ad un unico gruppo criminale ma gli arresti sono venuti solo nel 1994.

I Savi, che seguivano da vicino le indagini, vennero a conoscenza dei collegamenti fatti da chi indagava ma nonostante tutto continuarono ad agire secondo il loro solito modus operandi; la gratificante notorietà e le indubbie difficoltà investigative che mostravano gli inquirenti li indussero a credere di poter agire con una quasi certezza di impunità.

GLI ARRESTI
L’arresto di Roberto Savi

Durante l’interrogatorio dell’8 febbraio 1996 Roberto Savi ha dichiarato: “Mi è stata garantita la copertura, il dottor Paci è arrivato a noi per una casualità”.
Tale affermazione appare paradossale, vista la quantità di crimini commessi e di indizi contro la banda, ma potrebbe in parte corrispondere alla realtà dei fatti, è infatti frequentissimo che un serial killer venga catturato per caso. Dai processi non è mai emerso in modo chiaro come il dottor Paci sia effettivamente arrivato ad arrestare i fratelli Roberto e Fabio Savi, i quali, come molti loro colleghi serial killer, si sono lasciati prendere senza opporre resistenza.

I SEQUESTRI

“……. il sequestro di un arsenale, il 22 novembre 1994, in via Signorini,
in zona Vittoria….. i Savi comprano e vendono armi in maniera frenetica, alcune, per la certezza dell’impunità, le usano per fatti gravissimi” (Pubblico ministero Walter Giovannini, relazione introduttiva, processo di Bologna, 1996).

Come molti serial killer anche i Savi collezionavano armi e coltelli. All’indomani dell’arresto dei componenti della Banda della Uno Bianca, Martino Farneti, balista della Polizia Scientifica, nominato consulente dalle procure interessate dai reati, ha eseguito i confronti balistici tra le armi sequestrate alla banda ed i reperti relativi ai diversi episodi criminosi. Le risultanze di tali perizie balistiche hanno contribuito ad attribuire la generale paternità degli episodi alla Banda e la gran parte delle specifiche responsabilità relative ai singoli componenti della stessa in ordine ai fatti a loro contestati. La presenza dei singoli associati alla gang nei diversi reati, emersa da confessioni e deposizioni di testimoni, è stata infatti suffragata dalla presenza di reperti balistici attribuibili ad armi specifiche che hanno spesso permesso di collocarne il proprietario sulla scena del crimine.

Vediamo in dettaglio le armi e le munizioni sequestrate nell’immediatezza degli arresti a ciascun componente della Banda:

Roberto Savi

– Pistola marca P. Beretta, mod. 92S, calibro 9 mm, matricola X36067Z (arma in dotazione).
– Fucile d’assalto Kalashnikov, di fabbricazione sovietica, modello AK-74, calibro 5,45 x 39 mm, matricola 268651.
– Fucile mitragliatore, privo di marca, matricola abrasa.
– Pistola semiautomatica, calibro 9 mm Parabellum, di fabbricazione ungherese, marca Feg, matricola F347232.
– Pistola semiautomatica, calibro 9 mm Parabellum, di fabbricazione ungherese, marca Feg, matricola R08242.
– Pistola semiautomatica, calibro 9 mm Parabellum, di marca sconosciuta, priva di matricola.
– Pistola semiautomatica, marca P.Beretta, mod. 98 FS Target, calibro 9 x 21 mm, matricola punzonata.
– Carabina Remington, mod. 700, calibro .222 Remington, matricola C6628745.
– Pistola semiautomatica, marca P. Beretta, mod. 98FS, calibro 9 x 21 mm, matricola F03210P.
– Rivoltella a tamburo, marca Colt, modello Python, calibro .357 Magnum, matricola V.57016.
– Pistola semiautomatica, marca P. Beretta, mod. 89, calibro .22, matricola C17512U.
– Pugnale con lama di 18 cm e custodia in cuoio.
– Pugnale con lama di 16 cm, manico in madreperla e custodia in cuoio chiara, marca Original.
– Coltello a serramanico in acciaio, marca Puma.
– Coltello a serramanico con manico in gomma, marca Kershaw.
– Pugnale con custodia in pelle nera e manico in gomma, marca SOG.
– 4462 cartucce di munizionamento vario.
– 3022 bossoli.
– 3086 ogive.
– 7089 inneschi.
– 1 kg di polvere da sparo.
– 3 kg di polvere da lancio.
– 1 kg di zolfo in polvere.
– 3 kg di clorato di potassio.
– 1,2 kg di solfocianuro di potassio.

Fabio Savi

– Pistola semiautomatica, calibro 9 mm Parabellum, di fabbricazione ungherese, marca Feg, matricola B39118.
– Pistola semiautomatica, calibro 9 mm Parabellum, di fabbricazione ungherese, marca Feg, matricola 07129.
– Pistola semiautomatica, calibro 7,65 mm, di fabbricazione ungherese, matricola R21114
– Fucile, marca Sig Manurhin, calibro .222 Remington, matricola 112825.
– Rivoltella KHC 75, ad aria compressa, matricola 230388.
– Pistola giocattolo, model 75, calibro 9, forata sulla canna.
– Revolver Me, marca Magnum, a salve.
– Pistola automatica, marca Tanfoglio GT28, a salve.
– Pistola semiautomatica, marca P. Beretta, mod. 98FS, calibro 9 x 21 mm, matricola punzonata.
– 2 pugnali.
– Coltello a scatto.
– 777 cartucce.
– 6100 inneschi.
– 1000 ogive.
– 8 kg di polvere da sparo.

Alberto Savi

– Rivoltella a tamburo, di fabbricazione statunitense, marca Colt, modello Python, calibro . 357 Magnum, matricola T66146.
– Pistola semiautomatica, marca P. Beretta, mod. 92S, matricola X22014Z.
– Fucile Franchi, calibro 12, matr. P00977.
– Fucile Falco, calibro 8, matr. A67013.
– 50 cartucce.

Pietro Gugliotta

– Pistola, marca P. Beretta, modello 92SB, calibro 9 mm, matricola X55926Z.
– Rivoltella a tamburo, marca Smith & Wesson, calibro .357 Magnum, matricola BBY0864.
– Pistola, marca P. Beretta, modello 89, calibro .22 LR, matricola C19683U.
– Una scatola di munizionamento vario.

Armi sequestrate a terzi che erano appartenute agli indagati:

– Carabina a ripetizione semiautomatica, marca P. Beretta, modello AR70 Sport, calibro .222 Remington, matricola M.47040 appartenuta a Savi Roberto dal 03-01-89 al 06-07-92 e sequestrata il 21-11-94.
– Fucile a pompa, marca P. Beretta, calibro 12, mod. RS202M2, matricola H03058E, appartenuto a Savi Fabio dal 20-11-87 al 19-03-94 e sequestrato il 25-11-94.
– Rivoltella a tamburo, marca Smith & Wesson, matricola AVC4945.
– Rivoltella a tamburo, marca Smith & Wesson, mod. 586-2, calibro .357 Magnum, matricola BAD7395 appartenuta a Savi Roberto dal 07-11-88 al 25-11-91 e sequestrata il 22-11-94.
– Rivoltella a tamburo, marca Smith & Wesson, mod. 10-8, calibro .38 Special, matricola 5D44709, appartenuta a Savi Fabio dal 15-04-87 al 27-12-88 e sequestrata il 05-12-94.
– Fucile a pompa, a ripetizione semplice, marca P. Beretta, calibro 12, mod. RS 202 M2, matricola H18326E appartenuta a Savi Roberto dal 14-10-87 al 25-11-91 e sequestrato il 22-11-94.
– Pistola marca P. Beretta, mod. 98FS, calibro 9 x 21 mm, matricola E27152P.
– Pistola marca P. Beretta, mod. 98FS, calibro 9 x 21 mm, matricola E04951P.
– Fucile a ripetizione manuale, a pompa, marca P. Beretta, mod. RS202P, calibro 12, matricola F53056E, appartenuto a Occhipinti Marino dal 08-02-88 al 03-12-88 e sequestrato il 29-11-94.
– Fucile a ripetizione semiautomatica, marca Franchi, mod. Elite, matricola S54575, appartenuto a Savi Alberto dal 26-08-87 al 10-10-87 e sequestrato il 17-12-94.
– Fucile a ripetizione ordinaria, a pompa, marca Franchi, mod. 84R, matricola S59002, appartenuto a Savi Roberto dal 26-08-87 al 10-10-87 e sequestrato il 09-01-95.
– Pistola, marca Tanfoglio EA22T, calibro .22 LR, matricola AE-14938, CAT. 6309.

LE CONFESSIONI

Roberto ha confessato il 28 novembre 1994, una settimana dopo l’arresto, da subito si è attribuito la paternità dell’eccidio del Pilastro, nonostante in quel momento, per quel triplice efferato omicidio, ci fosse un processo in corso nei confronti di Marco Medda e dei fratelli Santagata. Perchè tanta fretta? Generalmente, una volta scoperto, un serial killer non gradisce che i propri omicidi vengano attribuiti ad altri.

Fabio ha confessato subito dopo Roberto ed inizialmente ha cercato di omettere la presenza di Alberto in alcuni episodi criminosi particolarmente cruenti come l’eccidio del Pilastro.

La confessione è importante per un serial killer perché gli fa rivivere virtualmente gli omicidi, l’interesse degli investigatori per i suoi crimini ne gratifica il bisogno di protagonismo e gli permette ancora una volta il suo gioco preferito, quello manipolatorio sui suoi interlocutori.

A volte il serial killer, in una confessione dettagliata, racconta l’atto omicidiario semplificando il più possibile.

Durante la confessione, Roberto Savi ha focalizzato su ciò che era per lui più rilevante, ovvero l’azione in sé, non l’omicidio. Alcuni autori lo ritengono un meccanismo di difesa psichico. Invece secondo Norris è probabile che, proprio perché i serial killer sono incapaci di empatia, richiamino alla mente gli omicidi in modo vago, impreciso e confuso, come se avessero assistito all’evento solo da spettatori.

In base all’interpretazione di Norris ed alla constatazione di Lalli che afferma che la strumentalizzazione degli altri è conseguenza dell’incapacità di stabilire un vero rapporto interpersonale e deriva dall’annullamento dell’altro come essere psichico che, ridotto a pura realtà materiale, può essere tranquillamente eliminato come si elimina un oggetto che dà fastidio o intralcia la strada, è possibile ipotizzare che, a causa della loro mancanza di empatia, nei serial killer non sia presente un sentimento di onnipotenza, in quanto, se il soggetto/vittima è per il serial killer un oggetto, allora egli non può provare un senso di onnipotenza nel commettere l’omicidio; a meno che il serial killer, consapevole di commettere il più grave dei reati, nonostante la completa svalutazione del soggetto/vittima, che ai suoi occhi non è altro che un oggetto/vittima, ottenga tale gratificazione dall’infrangere la norma.

LE RITRATTAZIONI

Durante il processo di Pesaro, Roberto ha cominciato a ritrattare, apparentemente senza un perché. Il motivo della ritrattazione è evidente: Savi si è servito della ritrattazione per non confrontarsi con il suo fallimento, l’ha usata per evitare di soccombere. L’isolamento in carcere e l’incapacità di affrontare la sconfitta lo hanno portato quasi subito a “riorganizzarsi” per non frammentarsi, dopo aver percepito che il suo “io” grandioso era minacciato, ha ritrattato attribuendosi il ruolo di pedina in una missione speciale dei servizi segreti e così facendo ha perso il senso della realtà.

Una confessione permette ad un serial killer la ripetizione verbale degli omicidi e ne sazia il bisogno di protagonismo; una ritrattazione lo rende nuovamente attraente facendolo tornare ancora sulla scena, sull’amato palcoscenico della manipolazione. Roberto, esercitato da anni al gioco manipolatorio, ha ritrattato in un susseguirsi di rivelazioni al limite dell’incredibile e lo ha fatto dopo aver rilasciato confessioni circostanziate. La sua è stata una ritrattazione fiume, ha spesso risposto alle domande in modo evasivo, deciso a convincere la corte della sua nuova verità, ha spostato l’attenzione sui temi più cari, quelli dei servizi segreti, delle coperture, dei contatti esteri, in una sorta di delirio megalomane di grandezza e di potere dove si è perso, si è contraddetto, si è esposto al ridicolo tanto da indurre suo fratello Fabio a prendere le distanze da lui.

Roberto Savi ha costruito il suo castello di menzogne, il suo imbroglio, ispirandosi sia alle fantasiose ricostruzioni dei media risalenti all’epoca dei reati, sia a ciò che ha sentito durante le udienze, alle imprecisioni dei testimoni oculari ed a quelle dei consulenti.

Roberto, al processo di Rimini, durante l’interrogatorio dell’8 febbraio 1994 è sembrato un soldato a rapporto dopo una missione, più che un imputato in un processo per ventiquattro omicidi, innumerevoli tentati omicidi e infinite rapine a mano armata. Roberto Savi, non accettandosi nelle vesti di imputato, ha assunto quelle di un agente segreto che si trovava a dover riferire la propria missione ad un superiore che sembrava identificare con il pubblico ministero. Roberto rivolgendosi a Paci ha detto: “… la quantità di ricetrasmittenti tre o quattro, credo che le abbiano recuperate”, ha usato il termine “recuperate” invece che “sequestrate”, e poi con la freddezza di un militare a rapporto ha risposto alle contestazioni con un: “Negativo”.

Roberto Savi, attraverso la sua nuova identità, che si è costruito nella solitudine della sua cella per evitare di frammentarsi, ha raggiunto una grandezza inenarrabile, lui uomo di fiducia, efficentissima pedina dei servizi segreti, le cui azioni hanno fatto parte di un disegno che nessuno riesce a spiegarsi. Durante la deposizione, l’eloquio è stato fluente, ricco di avverbi e di frasi ripetute, di sequenze interrotte, di messaggi ambigui e vaghi, il tono della voce monotono, per ore.

Roberto Savi, dopo aver stravolto il proprio ruolo, da imputato ad agente dei servizi segreti, ha perso ogni credibilità, si è incartato a causa della sua ansia manipolatoria ma è comunque sempre sembrato disinteressato al risultato, Roberto ha recitato semplicemente per se stesso.

Anche Fabio ha ritrattato e poi ha raccontato di averlo fatto “per ripicca”. Al processo di Rimini, durante l’udienza del 9 febbraio 1996, Fabio è apparso comunque più lucido di Roberto, ha risposto a tono, non ha divagato quasi mai, non ha mai perso il controllo, ha fatto di tutto per apparire credibile, è stato saldamente ancorato alla realtà, non ha esondato mai come invece aveva fatto il giorno prima suo fratello.

Il giorno delle ritrattazioni di Roberto, Fabio era presente in aula e ha percepito che il fratello era ormai disancorato dalla realtà, tanto che durante il proprio interrogatorio ha riconosciuto con rammarico che Roberto si era esposto al ridicolo.

Fabio, il giorno delle ritrattazioni di Roberto al processo di Rimini, ha, finalmente, visto con lucidità il capo della sua Banda e l’immagine di Roberto, dell’inafferrabile fratellone inebriato del suo sé meraviglioso, gli si è sgretolata sotto gli occhi. Una volta collassata l’immagine vincente di Roberto Savi è venuto a mancare per sempre anche quell’unicum, da intendersi nell’accezione di mostruoso oltre che di straordinario, che la nostra coppia di serial killer aveva rappresentato fino a quel momento.

I PROCESSI

Roberto e Fabio sono sempre apparsi disinteressati all’esito dei processi; durante le udienze hanno assunto atteggiamenti cinici e beffardi nei confronti dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime sfoggiando una totale mancanza di empatia e di rimorso per le atrocità commesse.

LA DETENZIONE

Roberto e Fabio Savi si sono adattati da subito al regime carcerario, anche se è trapelato che Roberto abbia tentato un suicidio ed un’evasione e Fabio due suicidi. Secondo Holmes i serial killer, come i normali criminali, reagiscono alla reclusione in vari modi: comportandosi come detenuti modello; fingendo una crisi mistica; suicidandosi (2%) o continuando ad uccidere dietro le sbarre (2%). Gli assassini seriali psicopatici imparano durante la loro vita a simulare comportamenti normali attraverso l’osservazione degli altri e dopo la cattura, recitano una parte al solo scopo di riceverne dei benefici. Raramente si tolgono la vita o si pentono in quanto non provano rimorso e sono capaci di proiettare la colpa dei propri crimini sulle vittime.

Pietro Gugliata non si è adattato alla detenzione e, dopo l’arresto, per un ingravescente senso di ripugnanza nei confronti del cibo ha perso più di venti chili.

Alberto Savi, a differenza dei fratelli, almeno inizialmente, ha reagito alla detenzione manifestando rabbia e aggressività, lo ha riferito in aula un ex poliziotto, detenuto con lui nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere.

LA FAMIGLIA

Purtroppo sono poche le informazioni disponibili sulla famiglia dei fratelli Savi, ricche di luoghi comuni e di sensazionalismo. Il padre, Giuliano Savi è stato un gran lavoratore, uomo severo, ligio al dovere, rispettoso dell’autorità; Roberto, è figlio della sua prima moglie, Rosanna Foschi, che ormai separata dal marito, è morta quando Roberto aveva solo 4 anni. Roberto è cresciuto con il padre Giuliano e la sua seconda moglie, Renata Carabini e, a detta dei media, ha scoperto solo dopo il proprio arresto, ormai quarantenne, che la Carabini non era sua madre e che Fabio ed Alberto erano suoi fratellastri.

Disciplina severa, aspettative da adulti, assenza di un confronto empatico con i figli sono stati i punti fermi dell’educazione impartita da Giuliano Savi ai suoi tre figli che, al contrario delle sue attese, crescendo, hanno sviluppato, seppur in grado diverso, difficoltà nell’interazione sociale, bassa autostima e dipendenza da una vita di fantasie di dominio e di controllo nei confronti degli altri.

Educati dal padre all’uso delle armi e alla disciplina, i fratelli Savi sono rimasti affascinati sin da piccoli dalla figura del poliziotto. Appena possibile hanno provato tutti e tre ad entrare in polizia. L’attrazione per un mondo in cui rivedevano il modello genitoriale paterno dell’autorità, l’intensità del lavoro e degli stimoli, la possibilità di canalizzare la loro aggressività verso soggetti stigmatizzati dalla società sono stati i veri motivi che hanno spinto i Savi ad entrare in polizia.

I conflitti a fuoco con carabinieri e poliziotti, non solo durante le rapine ma anche durante la caccia all’uomo, sono il segnale di un rapporto ambivalente con l’autorità, in generale, e con il padre Giuliano, in particolare.

Dopo l’arresto dei figli la Procura di Pesaro ha sequestrato a Giuliano Savi, una rivoltella Colt, calibro .357 Magnum, una carabina marca P. Beretta mod. AR/ 70, un fucile Breda, un fucile P. Beretta, un fucile P. Beretta, una carabina Olimpia, un fucile P. Beretta, un fucile Armitalia, una pistola P. Beretta, mod. 98FS, una carabina Walther e munizioni, gli stessi modelli di armi sequestrate ai figli.

Roberto e Fabio Savi hanno avuto una vita sociale caratterizzata da pochi rapporti interpersonali anche se al momento dell’arresto avevano entrambi una ex moglie, un figlio ed una nuova compagna.

Il poliziotto della stradale di Riccione, Riccardo Mazza era, a detta dei parenti, l’unico amico di Fabio, con il quale si allenava a sparare al Poligono di tiro di Rimini e in una cava lungo il fiume Marecchia.

Nel febbraio 1992 Fabio si era separato dalla moglie, Maria Grazia Angelini e si era trasferito a Torriana, in un monolocale di sua proprietà, con Eva Mikula, all’epoca ancora minorenne. Eva è nata in Romania da famiglia ungherese, trasferitasi a Budapest all’età di 15 anni ha incontrato Fabio nella capitale ungherese nel gennaio del 1991.

All’epoca dell’arresto, Roberto viveva in un appartamento in affitto a Sasso Marconi con una prostituta nigeriana, tale Stella Okonkwo, che pare che il Savi avesse riscattato per 10 milioni.

PSICODIAGNOSI

Roberto e Fabio Savi sono entrambi affetti da un Disturbo antisociale di personalità. La carriera criminale e la vita di relazione dei due fratelli Savi sono state caratterizzate da comportamenti estremamente irresponsabili, atteggiamenti manipolatori, frequente ricorso alla menzogna, freddezza, irritabilità, aggressività, disonestà, impulsività, brutalità, promiscuità sessuale, assenza di rimorso e di sentimenti di colpa per le conseguenze delle proprie azioni, anestesia affettiva, assenza del senso morale, il tutto vissuto in modo egosintonico. Entrambi hanno manifestato tratti sadici di personalità attraverso un abituale comportamento aggressivo, crudele e umiliante nei confronti dei propri familiari e delle vittime dei loro reati.

Per quanto riguarda i gregari della banda, ridotto è il materiale su cui lavorare perché minore è stato l’interesse sia degli investigatori che dei media nei loro confronti.

Alberto Savi, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti sono soggetti con ridotta autostima, fortemente insicuri, facilmente manipolabili, con tratti di personalità dipendente. Tre elementi della Banda che, anche se non estranei alle logiche criminali, non hanno mai avuto come priorità quella di uccidere.
Alberto, Pietro e Marino sono giunti al punto di annullarsi tanto da affidare a Roberto Savi il proprio destino e grazie a loro, Roberto, esperto manipolatore, è stato capace di costituire un gruppo criminale all’interno del quale i suoi bisogni hanno preso il sopravvento.

 

Fabio Savi durante un’udienza

Caratteristiche particolari di Fabio Savi rispetto al fratello Roberto sono l’incapacità di sostenere un’attività lavorativa continuativa con conseguente fallimento professionale e difficoltà economiche; un profondo vissuto di rabbia; un’alternanza di comportamenti aggressivi con atteggiamenti miti e remissivi; la scarsa tolleranza alle frustrazioni che lo ha condotto a commettere molteplici omicidi e tentati omicidi; un tono dell’umore prevalentemente ipertimico che si manifesta esternamente con un sorriso che è apparso completamente fuori luogo durante le drammatiche udienze processuali; una buona capacità di razionalizzare il proprio comportamento dandone la colpa agli altri; un senso dell’ironia non indifferente.

 

Roberto Savi durante un’udienza

Roberto Savi, oltre ad avere le caratteristiche di un soggetto con un Disturbo antisociale di personalità, ha manifestato caratteristici tratti narcisistici. Nel complesso egli è affetto da una Sindrome di Narcisismo maligno che si colloca in un’area al limite tra il Disturbo narcisistico di personalità e il Disturbo antisociale di personalità.
Roberto è sempre stato un solitario, un megalomane, un mitomane, un essere bisognoso di ammirazione e di protagonismo, un bugiardo patologico con la tendenza a rapportarsi alla realtà ed al suo prossimo in modo manipolatorio, atteggiamenti che nascondono un profondo senso di inferiorità ed insicurezza.

Le cause di tali disturbi sono bio-psico-sociali, la perdita della madre, un padre autoritario ed incapace di empatia, la conseguente ferita narcisistica che si manifesta attraverso depressione, bassa autostima, rabbia verso l’altro da sè vissuto in modo svalutante e persecutorio che diviene inizialmente il bersaglio di fantasie violente e poi finalmente il soggetto in carne ed ossa seppur ridotto al ruolo di oggetto.

Melanie Klein sostiene che la reazione difensiva alla ferita narcisistica è la fuga nell’onnipotenza attraverso l’identificazione con l’aggressore potente e sadico.

Roberto si è inventato un personaggio e lo ha rivenduto ai colleghi, pilota in Nigeria, soldato nella legione straniera, esperto di armi e di esplosivi; alla Squadra Mobile era considerato da tutti un ottimo capo squadra e come tale lo ricordano ancora i poliziotti di Bologna che lo affiancavano.

Dopo l’arresto ha fatto di tutto per mantenere l’immagine di sé che si era costruito in precedenza, anzi, durante le ritrattazioni, l’ha esasperata fino a perdere il senso della realtà, fino a rendersi ridicolo. Roberto, dopo la cattura per impedire al suo “io” di sgretolarsi, si è rimboccato le maniche e ha fantasticato un nuovo modello di grandiosità, di importanza e di potere al quale ha finito per credere lui stesso.

Negli anni Roberto ha inviato centinaia di lettere al suo avvocato, al presidente della corte ed al direttore del carcere manifestando un patologico senso di indignazione. Tale atteggiamento può spiegarsi attraverso l’affermazione di Samenow che recita così: “Con i criminali è diverso, hanno una personale logica, una personale intelligenza, guardano il mondo da una prospettiva sbagliata e hanno una errata stima della propria importanza e di quella degli altri”.

Alberto Savi

Alberto ha in comune con i fratelli lo stesso vissuto familiare e ha condiviso con loro gli stessi desideri, le stesse angosce e paure, e, a differenza degli altri gregari, aveva un legame personale con il capo della Banda che per lui rappresentava non solo il leader del gruppo ma anche un fratello maggiore capace di offrirgli una rassicurante sensazione di protezione. Proprio questo doppio ruolo di Roberto, nel caso di Alberto, ha favorito, più che negli altri associati, lo sgretolarsi di sue eventuali difese tanto da indurlo a far parte di una Banda capace di tante e tali efferatezze. Rabbia, aggressività e vittimismo sono gli atteggiamenti che hanno caratterizzato la sua condotta dopo l’arresto, atteggiamenti dovuti alla sua sensazione di essere stato manipolato, Alberto si è sentito tradito dai fratelli, specialmente da Roberto, e per questo motivo non è riuscito a prendersi le proprie responsabilità e ha avuto difficoltà ad accettare la propria condanna.

Pietro Gugliotta

Pietro Gugliotta ha partecipato con i fratelli Savi ad alcune rapine ed ad unico fatto di sangue, il tentato omicidio di Driss Akesbi, oltre alla tentata rapina all’Ufficio Postale di via Mazzini.
Insieme a Luca Vallicelli è l’unico dei componenti storici della banda che non è stato condannato all’ergastolo.
Ecco un elenco degli episodi criminosi nei quali è stato coinvolto:
Il 2 gennaio 1990 partecipa al ferimento del cittadino extracomunitario Driss Akesbi.
Il 15 gennaio 1990 partecipa con tutti e tre i fratelli Savi alla tentata rapina all’Ufficio Postale di via Mazzini, dove l’esplosione di una bomba posizionata da Roberto Savi ferisce 67 persone.
Il 10 maggio 1993 partecipa con Roberto e Fabio alla rapina presso la Cassa di Risparmio di Ravenna che frutta un bottino di 72 milioni.
Il 5 luglio 1993 partecipa con Roberto e Fabio alla rapina al Credito Romagnolo di Cesena che frutta un bottino di 38 milioni.
Il 12 ottobre 1993 partecipa con Roberto e Fabio alla rapina alla Banca di Roma che frutta un bottino di 76 milioni.
Il 27 ottobre 1993 partecipa con Roberto e Fabio alla rapina alla Cassa di Risparmio di Bologna che frutta un bottino di 30 milioni
Il 26 novembre 1993 partecipa con Roberto e Fabio alla rapina alla Cassa di Risparmio di Cerasolo d’Ausa che frutta un bottino di 89 milioni

Tutte rapine incruente, “pulite”, secondo la definizione del pubblico ministero Giovannini. Gugliotta non è un assassino né tanto meno un serial killer, è solo un rapinatore e ha perfino svolto il ruolo di deterrente per la coppia assassina. Nel 2007 il Tribunale di Sorveglianza, a circa un anno dalla sua definitiva scarcerazione non gli ha concesso un permesso premio, ritenendolo “un soggetto socialmente pericoloso per una personalità altamente deviante ed una forte tendenza di personalità ad emergere, soffocata dal timore dell’insuccesso, e per la mancata presa di coscienza critica della gravità dei fatti da lui commessi e l’assenza di ravvedimento”.

Marino Occhipinti

“Per l’estrema gravità dell’episodio di Casalecchio di Reno, per l’assoluta doppiezza del prevenuto, e per l’assenza di qualsiasi resipiscenza”, Marino Occhipinti è stato condannato all’ergastolo come i tre fratelli Savi. Effettivamente, da quei pochi dati che è stato possibile raccogliere su Marino Occhipinti si evince una certa inspiegabile incoerenza nei suoi comportamenti. Dopo l’omicidio di Carlo Beccari, Occhipinti si è recato alla USL per “una nevrosi depressiva larvata, dovuta a stress occasionale in un soggetto con temperamento emotivo”. Marino è rimasto traumatizzato dalle conseguenze dell’assalto alla Coop di Casalecchio di Reno, tanto che è uscito di scena ma, nel 1996, durante le udienze del processo di Rimini ha avuto, a quasi due anni dall’arresto e nonostante il duro regime di carcerazione cui è sottoposto, un atteggiamento rispettoso nei confronti di Roberto Savi. Occhipinti non ha mai ammesso le proprie responsabilità, nonostante le prove della sua partecipazione all’assalto alla Coop del febbraio 1988, ha anzi professato la propria innocenza ad oltranza, nonostante le chiamate in correità, la testimonianza dell’allora moglie di Roberto Savi, la mancanza di alibi, l’assenza dal servizio quella sera e le perizie balistiche che provano che la guardia giurata Carlo Beccari, deceduta nell’assalto, è stata attinta anche da colpi esplosi dal fucile a pompa appartenuto a lui.

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Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna: dott. Martino Farneti, Servizio Polizia Scientifica in Roma. Relazioni di consulenza tecnica d’ufficio, in materia di balistica, eseguite a seguito del rinvenimento di armi, munizioni ed esplosivo di cui ai sequestri operati nei confronti di Savi Roberto, Savi Fabio, Savi Alberto ed altri.

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Gulotta C., La figlia di Gugliotta: non lo perdono, deve restare in carcere. La Repubblica, 23 marzo 2007.

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Tonelli A., La vendetta dei Savi, Eva era nella banda. La Repubblica, 26 gennaio 1996.

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Sentenze

Corte di Cassazione – Sentenza – 20 giugno 2000 – 15 dicembre 2000 – Ricorrenti Savi Alberto e Occhipinti Marino.

Corte di Cassazione – Sezione prima penale – Sentenza – 19 dicembre 2007 – 29 gennaio 2008, n. 4512/ 2008 – Ricorrente Gugliotta Pietro.

Trasmissioni televisive

Leosini F., Intervista a Fabio Savi. Storie Maledette, 1998.

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