NELLA GIORNATA DEL RICORDO 2019 MALKE URSULA FRANCO CI SVELA DEI SEGRETI E RICORDI
Malke, durante la stagione estiva, lasciava intravedere i numeri tatuati sul braccio sinistro, A91122, numeri che avevano sostituito il suo nome durante la permanenza nel lager.
Vi rivelo l’origine del mio primo nome, Malke:
Malke Alpert, modista di professione, di religione ebraica, come si evince dal nome proprio che in yiddish significa ‘regina’, nacque in Yugoslavia e nel 1943, poco più che una ragazzina, durante una vacanza in Italia, venne arrestata e dopo un breve periodo di permanenza nel Campo di concentramento Risiera di San Sabba, dove i prigionieri venivano smistati, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz Birkenau.
Scampata fisicamente agli orrori dell’inferno, una volta libera, si trasferì a Milano, in via Giustiniano, dove condivise un appartamento con la signora Fisher, modista ebrea di nazionalità ungherese.
In quello stesso stabile di Porta Venezia vivevano sul solito pianerottolo i miei nonni, Lyda e Cesare Franco, con i due figli, Mario e Franca, casualmente di religione ebraica anche loro.
Mio nonno, nato a Carrara, anarchico per tradizione familiare, commerciava in tessuti come suo padre, mia nonna, donna bellissima ed elegante si faceva confezionare di frequente graziosi cappellini dalla signorina Malke e dalla signora Fisher.
La signorina Malke e la signora Fisher, conquistate dalla leggerezza e dalla accattivante bellezza di mio padre e di mia zia, allora bambini, avevano l’abitudine di viziarli sfornando per loro deliziosi rugelach, dolci tipici della tradizione aschenazita. Malke, durante la stagione estiva, lasciava intravedere i numeri tatuati sul braccio sinistro, A91122, numeri che avevano sostituito il suo nome durante la permanenza nel lager.
Mio padre mi ha sempre descritto la povera signorina Malke come una donna pelle ed ossa, una donna fragile, bionda, con due grandi occhi azzurri, un coinvolgente entusiasmo per la vita ed un grande amore per il cinema americano.
Durante la deportazione, Malke aveva subito crudeli torture. Il comandante tedesco del campo di sterminio la invitava a colloquio per irradiarle, da sotto il tavolo e a sua insaputa, gli organi genitali, tanto da ustionarle la pelle e lasciarla con dolori per giorni, dolori che la Alpert non sapeva spiegarsi.
Da piccola, dopo aver udito questa storia terribile, avevo immaginato che Malke fosse rimasta signorina per questo, che quelle stesse sevizie che l’avevano resa sterile l’avessero dissuasa dal trovarsi un marito.
Quel racconto, la storia di quella povera ragazza ebrea sopravvissuta, mi aveva lacerato il cuore tanto che ancora oggi il pensiero di quelle subdole violenze devo inibirlo per non lasciarmi andare ad un dolore che toglie il senso alla vita.
Non solo, quando ancora bambina avevo realizzato che cosa fosse stata la Shoah mi era capitato spesso di sentirmi travolta dalla rabbia, specialmente mentre camminavo lungo le vie più frequentate della città di Pisa, dove vivevo e studiavo, una rabbia bollente che mi portava ad odiare tutti.
Non comprendevo come il mondo non si fosse fermato lì, come l’umanità avesse potuto continuare a vivere dopo gli orrori di Auschwitz, come non si vergognassero tutti di ridere, di mangiare, di scegliersi un paio di scarpe, dopo quello che era stato.
E poi, provando per osmosi lo stesso terrore ed odio che avvertiva mia nonna per i tedeschi, mi chiedevo come questi potessero venire in vacanza in Italia e parlare la loro orribile lingua a voce alta e sghignazzare, bere il nostro vino, mangiare il nostro pane, godere del nostro sole, dopo quello che avevano fatto.
Infine, vi svelo un segreto: il dolore più grande dei miei nonni non è stata la Shoah, interpretata da ottimisti come un evento mostruoso ma irripetibile, quanto l’antisemitismo che l’ha seguita, un antisemitismo mascherato a mestiere da antisionismo.
{Roma, 14 novembre 2014 Ursula Franco}
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