C’è un tempo sospeso, in Basilicata, che non obbedisce alle lancette degli orologi. Un tempo che si sedimenta nelle pieghe delle montagne, tra le rughe dei vecchi, nei portoni chiusi e nelle case che sanno di cenere e preghiera. È il tempo dei paesi lucani, di quei borghi arrampicati come nidi d’aquila o sprofondati come conchiglie nelle valli, che resistono, più che vivere, alla morsa dell’abbandono, alla leggerezza di chi guarda altrove. “I pais lucan so sass lanciat, cull indu tiemp pesant fardell”: non è solo un verso evocativo, è una condanna e una carezza. Perché in quei sassi lanciati con rabbia o disillusione c’è la rabbia dei figli partiti, dei progetti mai realizzati, delle promesse istituzionali svanite come nebbia d’autunno. Ma c’è anche l’identità testarda di chi resta, l’anima di chi si aggrappa con forza alle radici, al dialetto, alle madonne portate in processione sotto il sole cocente, alle pietre vive che raccontano storie anche quando nessuno ascolta più. Ed è proprio da quei sassi che partiamo oggi. Da quattro nomi che sembrano evocare un altro tempo, un’altra geografia, un’altra idea di mondo: Calvello, Calvera, Colobraro, Craco. Ognuno con il suo destino segnato, il suo racconto che trabocca di bellezza e ferita. Quattro paesi che, pur lontani tra loro per posizione e storia, portano addosso lo stesso abito sdrucito dell’emarginazione, ma anche la stessa luce discreta di chi non si è mai lasciato corrompere dalla frenesia del presente. Raccontarli non è un esercizio nostalgico, né un atto pietoso. È, piuttosto, un gesto politico e poetico insieme. Un voler restituire senso, voce e dignità a comunità che continuano a parlare, anche se spesso le orecchie degli altri sono altrove. E se le parole di chi vive questi luoghi si fanno talvolta lente o stanche, è solo perché devono farsi carico di un passato pesante e di un futuro incerto. Ma qui, tra Calvello e Craco, tra Calvera e Colobraro, pulsa ancora una forma di resistenza. Che sia nella ceramica che racconta mani antiche, nei racconti magici che sfidano il razionalismo, nelle case fantasma che chiedono rispetto, o nei silenzi che sanno di preghiera, poco importa. L’essenziale è esserci. Con rispetto. Con ascolto. Con la volontà di non farli morire due volte: una per spopolamento, l’altra per dimenticanza.
Calvello: dove il sacro, la ceramica e il bosco si stringono la mano
Arroccato tra i monti dell’Appennino lucano, Calvello sembra un presepe che ha deciso di rimanere vero. Poco più di mille anime, ma un’anima antica e sorprendentemente viva. La storia del paese affonda le sue radici nel Medioevo, periodo in cui divenne feudo longobardo e poi normanno. Tracce evidenti di quel tempo si ritrovano nell’impianto urbanistico del centro storico e nel castello che domina il borgo, trasformato dai Caracciolo in elegante dimora baronale. Ma ciò che colpisce davvero è l’incredibile numero di chiese presenti: più di dieci in un comune così piccolo. È come se ogni rione, ogni ruga, avesse voluto un proprio luogo sacro. Dalla Chiesa Madre di Santa Maria Assunta alla Chiesa di San Giovanni Battista, dalla Cappella della Madonna del Monte alla Chiesa di Sant’Antonio, ogni edificio racconta secoli di devozione, arte, e senso della comunità. Il patrimonio immateriale è altrettanto ricco: i riti religiosi e le processioni, tra cui spicca quella dedicata alla Madonna del Monte Saraceno, si intrecciano con tradizioni contadine dal sapore quasi pagano. Non a caso, in autunno, Calvello celebra una delle sue feste più amate: la Festa della Castagna, in cui si esaltano i frutti del bosco, la cucina povera ma saporita, e l’ospitalità genuina dei calvellesi. Qui il cibo è poesia semplice: cavatelli con sugo di funghi, polenta con salsiccia, pan cotto con cicoria, dolci rustici e l’immancabile pane casereccio cotto a legna. E poi la ceramica: arte secolare, ancora oggi viva nelle botteghe che modellano l’argilla con mani esperte e cuori pazienti. Se filosofi e poeti avessero visitato Calvello, avrebbero trovato molto più di un borgo montano. Leopardi vi avrebbe visto la dignità del piccolo che resiste, Pasolini l’essenza di un’Italia ancora sincera, Rocco Scotellaro vi avrebbe camminato per ore, ascoltando le donne al lavatoio, i vecchi che parlano a bassa voce, le campane che scandiscono il tempo. Calvello è un luogo che si offre a chi ha voglia di scoperta e rispetto. Non urla, ma incanta. Non stupisce, ma resta.
Calvera: dove il tempo ha deciso di rallentare, e fa benissimo
Calvera non si trova: si scopre. Perché sta lì, arrampicata a oltre 900 metri, come una vecchia saggia che non ha bisogno di gridare per farsi notare. Se cercate il clamore dei centri commerciali o i locali “instagrammabili”, cambiate strada. Ma se volete un luogo che profuma di terra vera, di boschi sinceri e di gente che dice “buongiorno” guardandoti negli occhi, allora siete arrivati. La storia di Calvera, minuscolo comune della Val Sarmento, si perde in quelle nebbie che i libri di scuola sorvolano. Ma qui, tra Normanni e monaci basiliani, pastori e contadini, si è scritto un pezzo d’Italia silenziosa. E orgogliosa. Lo si vede nei riti religiosi, come la festa patronale di San Giovanni Battista, che coinvolge tutti, anche quelli che normalmente con la Chiesa parlano poco. E nei rituali quasi pagani legati ai cicli stagionali, come la “mmitura” e le “panedde” offerte nei forni antichi. Gli abitanti? Ironici, rudi all’apparenza, ma se li conquisti non ti lasciano più. Vivono in simbiosi con la montagna e hanno un vocabolario che meriterebbe uno studio antropologico. Qui si mangia come Dio comanda: lagane e ceci, carne di capra, salsiccia col finocchietto, formaggi di grotta, vino robusto e dolci che sfidano il colesterolo. E sì, se mangi con loro, mangi tanto. E bene. Personaggi storici? Magari non saranno nati imperatori, ma la stoffa c’era. Padre Giovanni Fiore, francescano e missionario in Africa, ha portato Calvera oltre i confini della valle. E chissà, forse anche un po’ di peperoncino lucano in Congo. Se Pasolini fosse venuto qui, si sarebbe commosso. Se Nietzsche ci avesse fatto una passeggiata, avrebbe riscritto l’“eterno ritorno” guardando le nuvole sopra le faggete. E Rocco Scotellaro? Avrebbe detto: “Questa è Lucania vera, qui la poesia nasce tra la pietra e la risata.” Calvera non fa scena. Non ha l’ambizione del turismo di massa. Eppure, proprio per questo, è irresistibile. Chi ci va lo capisce. E chi non ci va… non sa cosa si perde.
Colobraro: dove la realtà si arrende al racconto
Colobraro non è un paese. È una dimensione parallela. Non si nomina, si sussurra. Per molti lucani, è “quel paese”, il cui nome porta sfortuna come lo specchio rotto di una comare inacidita. Ma oggi, finalmente, si parla di Colobraro a voce alta, perché il coraggio, oltre che virtù, è anche turismo culturale. Di origini antichissime, forse lucane, forse greche, Colobraro sorge aggrappato alle pendici del Monte Calvario, con una vista che afferra l’intera valle del Sinni e la fascia ionica come una mano benedetta e maledetta insieme. La storia è quella tipica dell’entroterra lucano: feudalesimo, terremoti, emigrazione. Ma qui ogni scossa è leggenda. Si racconta che un avvocato, negli anni ’50, in un’aula di tribunale, esclamò: “Se non ho ragione, che crolli il lampadario!”. Il lampadario crollò davvero. Da allora, i colobraresi iniziarono a sospettare di avere un rapporto diretto con l’inconscio collettivo e i fenomeni paranormali. Riti religiosi e pagani si mescolano come farina e uova: c’è la Madonna della Stella, protettrice e luminosa, ma c’è anche la Notte delle Magare, evento estivo che trasforma il paese in un teatro antropologico dove l’occulto incontra l’aperitivo. Le magare, le streghe di un tempo, oggi sono attrici, comparse, figuranti e qualche zia un po’ vendicativa. Una festa dove il medioevo incontra Instagram. Gli abitanti? Ironici, intelligenti, resistenti come la pietra dei vicoli su cui hanno camminato generazioni. Cucinano piatti che sembrano sortilegi gastronomici: peperoni cruschi, pasta con mollica e alici, rafanata invernale, e dolci a base di fichi e magia. Personaggi storici? Forse non re, ma sicuramente regine del racconto orale. E se fossero passati da qui Giorgio Manganelli e Erasmo da Rotterdam, avrebbero scritto una commedia sull’assurdo o un elogio della superstizione razionale. Manganelli avrebbe detto: “Colobraro è l’unico posto dove l’incredibile è cronaca.” Erasmo avrebbe brindato con un amaro al finocchietto. Colobraro non è per chi cerca certezze. È per chi ha il coraggio di perdersi in un racconto che non finisce mai. Un invito non solo a visitarlo, ma a sfidare l’ignoto con ironia. In fondo, la sfortuna non esiste. O sì?
Craco: la città che frana nei sogni
Craco non ha bisogno di didascalie: è lo scheletro nobile della Basilicata. Un paese abbandonato, aggrappato a un colle d’argilla come un vecchio re decaduto, ma ancora orgoglioso del proprio mantello di rovine. Qui la storia non si legge nei libri: si cammina tra le crepe. Le prime notizie storiche risalgono al 1060, quando Craco è feudo vescovile. Ma già da allora, ironia della sorte, cominciava a cedere il terreno sotto i piedi. Colpa della geologia ingrata e di un destino da protagonista di tragedia greca. Tra i secoli XII e XIX Craco cresce, resiste ai briganti, agli eserciti, persino alla noia. Poi, nel ‘900, la frana diventa padrona di casa: nel 1963 un vasto movimento franoso costringe gli abitanti a trasferirsi a valle. Oggi Craco è disabitata, ma più viva di molti paesi pieni di voci spente. I riti religiosi? La devozione per San Vincenzo Martire, celebrato il 20 aprile, resta nel cuore degli abitanti, anche se ormai sparsi nel mondo. I riti pagani? Basta visitarla: ogni crepa, ogni scalino, ogni casa scoperchiata racconta un’epica antica, fatta di superstizioni, santi invocati contro le frane e lupi veri o immaginati. Gli abitanti di Craco (i crachesi di ieri e di oggi) sono gente dura, affezionata, orgogliosa come i fichi d’India che crescono tra le pietre. Ti ospitano con lo sguardo serio, ma se gli piaci ti danno tutto: pane, vino, racconti e anche una storiella su quando venne Mel Gibson a girare un film (sì, è successo davvero). I piatti tipici? I peperoni cruschi non mancano mai, ma qui il sapore autentico è quello della nostalgia: minestra di ricordi, pasta condita con il silenzio del tempo. Pane cotto al forno a legna, formaggi ruvidi e onesti, e il vino rosso che consola l’anima. Personaggi illustri? Se Rocco Scotellaro ci fosse passato davvero, avrebbe scritto versi di pietra e silenzio, dedicati a chi ha dovuto lasciare ma non ha mai dimenticato. Craco gli sarebbe piaciuta: perché qui la povertà non è vergogna, ma materia di poesia. E se Italo Calvino l’avesse visitata, avrebbe scritto una tredicesima “città invisibile” tutta per lei, fatta di silenzi, frane e malinconia strutturale. Craco non si visita: si contempla. E poi ci si chiede perché certi luoghi, proprio perché svuotati, parlano così forte. Abbiamo attraversato insieme storie di paesi che, pur piccoli e spesso dimenticati, custodiscono tradizioni, segreti e bellezze uniche nel loro genere. Tra riti antichi, piatti genuini e personaggi che hanno lasciato il segno, abbiamo scoperto un pezzo autentico della nostra identità lucana, fatta di radici profonde e caratteri forti. Questi borghi raccontano di una realtà viva, fatta di gente che sa resistere e reinventarsi, con ironia e passione, nonostante tutto. Un invito a guardare oltre l’apparenza e a lasciarsi sorprendere dalla ricchezza nascosta dietro ogni pietra, ogni festa, ogni sorriso. Domani continueremo questo viaggio tra memorie e contraddizioni, per scoprire altri angoli di una terra che non smette mai di affascinare. Non mancate: il prossimo capitolo sarà altrettanto intenso e pieno di sorprese. A domani!
Dino Quaratino