Benvenuti al primo episodio della nostra serie dedicata ai paesi che custodiscono storie, tradizioni e atmosfere uniche. Insieme esploreremo angoli di mondo poco conosciuti ma ricchi di fascino, scoprendo come ogni luogo racconta una propria identità fatta di cultura, persone e paesaggi. Preparatevi a un viaggio fatto di racconti autentici e sorprendenti, alla scoperta di quei piccoli tesori che spesso sfuggono ai radar del turismo di massa. Oggi vi raccontiamo di:
AVIGLIANO “Paese sparso, cuore compatto e lingua affilata come la strazzata appena sfornata”
Avigliano non è un paese. È un enigma topografico, un rebus con le frazioni al posto delle parole crociate e le salite al posto degli accenti. Per trovarne il centro bisogna chiedere prima alla geografia, poi alla mitologia e infine a una zia del posto che, tra un pettegolezzo e un rosario, ti darà la risposta esatta… ma solo se hai portato i biscotti della sposa. Qui, infatti, nessuno vive “nel paese”: si vive “vicino al paese”, “sopra il paese”, “sotto la strada per il paese” o nella celebre “zona indefinita” che esiste solo sulle bollette della luce. Eppure, nonostante la dispersione urbana degna di una capitale scandinava, Avigliano ha un’identità granitica. Un’identità che si taglia con il filo di ferro e si serve calda, come la strazzata appena sfornata. Tra Stagliuzzo, Possidente e Lagopesole (sede del castello più fotografato della Basilicata dopo quello di Cenerentola su Google), ogni frazione è una repubblica indipendente, con le proprie leggi, un proprio bar e almeno due famiglie che non si salutano da trent’anni per colpa di una tombola andata male nel ’94. Ma non fatevi spaventare: Avigliano sa accogliere. A modo suo, certo. Prima ti scruta, poi ti giudica, poi ti ospita e infine ti offre da mangiare. Ma solo se sei sopravvissuto alle prime tre fasi. Il cibo, del resto, è il vero collante di questa comunità divisa solo sulla politica, sul meteo, sulla viabilità, sul parroco e su chi faceva meglio la strazzata tra nonna Carmela e zia Rosina. E proprio lei, la strazzata, è l’emblema culinario di Avigliano: non si taglia, si strappa. Non si assaggia, si aggredisce. Un disco robusto di farina, pepe nero, origano, a volte strutto e lardo, che ti guarda dalla tavola come se dicesse: “Vediamo se sei degno”. Si mangia rigorosamente con mortadella o prosciutto crudo e provolone piccante, perché qui la leggerezza è considerata un vizio moderno. E come si dice tra un rutto e una benedizione: “è la morte sua”. Dopo averla mangiata, se ti reggi ancora in piedi, c’è u’ “*mustazzuol*’”, il tarallo glassato detto anche “biscotto della sposa”, creato per i matrimoni ma perfetto per ogni crisi esistenziale. Friabile come una promessa elettorale e dolce come un messaggio vocale della nonna, è ricoperto da una glassa all’anice che si attacca ai denti e al cuore. Un morso e torni bambino, un altro e ti spunta il diabete, ma felice. E se pensi che un paese di montagna possa fermarsi a pane, lardo e dolci da battesimo, sbagli. Perché Avigliano è anche la Capitale del Baccalà. Sì, del baccalà. Quel pesce nordico, esiliato dai mari freddi e catapultato sulle vette lucane, qui è venerato come un santo minore. Lo cucinano con una devozione che rasenta l’esoterismo: con i peperoni cruschi, le patate, il pomodoro o anche nudo e crudo (ma solo il venerdì, che non si scherza). Un piatto che qui è dogma: il baccalà non si discute, si ingolla. Avigliano però non è solo carboidrati gloriosi. È anche storia tosta e contraddittoria: da un lato Ninco Nanco, il brigante leggendario che faceva tremare gli eserciti e le suocere, e dall’altro Emanuele Gianturco, statista fine, elegante, colto. Uno sparava, l’altro parlava. Ma entrambi facevano paura a modo loro, e ancora oggi sono venerati come i veri patroni laici del paese. Ah già, i santi veri. Qui la fede è spettacolare. Letteralmente. La Madonna del Carmine non sta mai ferma: a giugno scende dal Carmine, a settembre ci risale, e nel mezzo viene trasportata come una rockstar in tour, tra petali, lacrime e fuochi d’artificio che sfidano la legge sulla quiete pubblica. È l’unica madonna che ha più km all’attivo di un politico in campagna elettorale. Il popolo aviglianese? Un esercito disarmato, ma con la lingua carica. Orgoglioso, polemico, generoso e diffidente come un vecchio contadino con l’idraulico nuovo. E poi ci sono loro, i bar: centri culturali non riconosciuti dall’UNESCO solo per distrazione, dove si discute di politica internazionale, necrologi locali e presunti tradimenti con la stessa intensità. Ogni frazione ha il suo, e guai a fare colazione in quello sbagliato: rischi l’esilio sociale e la maledizione del caffè lungo. Avigliano, in fondo, è una sfida, una conquista, un amore ruvido. Ti accoglie a modo suo, ti mette alla prova, ti nutre fino allo sfinimento e poi, solo se ti sei meritato il rispetto, ti lascia entrare nel club dei veri lucani duri e puri. Chi ha fiato, gambe buone e stomaco corazzato… venga. Perché Avigliano non si racconta, si sopporta. Ma con gusto.
ACERENZA “La Cattedrale sul cucuzzolo e la lagana dolce che confonde pure i santi”
Acerenza non è solo un paese, è un punto panoramico con residenza. Appollaiata su uno sperone di roccia come una civetta in vedetta, domina la valle come se fosse lì per giudicarla. E in effetti un po’ lo fa. Dall’alto dei suoi 833 metri sul livello del mare, ma con l’aria da mille e uno, guarda con distacco tutto il resto della Basilicata, come a dire: “Sì, va bene i sassi di Matera, ma voi avete mai visto la mia cattedrale?” Già, perché la Cattedrale di Acerenza è una roba seria. Romanico-pugliese, millenaria, severa come una maestra in pensione, e con un bastone pastorale conservato dentro che sembra uscito da una saga fantasy. E c’è chi giura che se lo tocchi con devozione, guarisci. Ma se lo tocchi senza rispetto… ti arriva un buffetto celeste che te lo ricordi per tre generazioni. Gli acheruntini: gente tenace, riservata, operosa, con l’aplomb di chi sa di vivere in uno dei “Borghi più belli d’Italia” ma fa finta di niente, come se non fosse affar loro. Parlano poco, ma quando parlano ti stendono. Non tanto per cattiveria, quanto per precisione balistica: una parola, un colpo secco. Ti colpiscono con la sincerità disadorna, quella che non ha tempo per le smancerie ma sa cucinarti la lagana chiapputa come si deve. Ecco, parliamone: la lagana chiapputa. Un piatto che sfida le leggi della logica gastronomica, perché è una pasta dolce. Lagane, uva passa, noci, mandorle e mosto cotto. Un’orgia di sapori che ti lascia confuso ma felice, come una cotta estiva con finale a sorpresa. Nessuno sa bene se si mangia a pranzo, a cena o a Natale, ma ogni famiglia ha la sua versione e tutte giurano che la propria è quella vera. Poi c’è il rito. Quello vero. Quello che mette in moto l’anima e le gambe. Le processioni, le fiaccolate, le campane a festa e il fumo degli incensi che si arrampica sui muri antichi. La Madonna qui non scende e risale come a Avigliano, ma è comunque trattata come una regina. Ogni celebrazione è un mix tra fede, folklore e coreografia degna di una prima della Scala. C’è anche un figlio illustre, mica pizza e fichi: Antonio Maria Salviati, cardinale di origini acheruntine che si è fatto strada nei palazzi vaticani con la calma di chi sa che a 833 metri d’altezza, prima o poi, tutto il resto ti raggiunge. Anche il potere. Hanno un senso dell’ospitalità misurato, ma profondo. Se ti aprono la porta, è per sempre. Se ti offrono da mangiare, è per farti restare. Se ti danno una sedia, stai attento: è perché ti stanno valutando. Difetti? Certo. Ogni tanto se la tirano, con quella cattedrale a vista e il panorama da cartolina. Hanno un’aria da “noi siamo nati in alto, voi arrangiatevi”. Ma sotto sotto sono dolci. Come la lagana. Acerenza non è un posto da visitare. È un posto da vivere in silenzio, da osservare con rispetto e da assaporare con calma. È un borgo che non urla, ma che ti resta addosso. Come il mosto sulla lagana, come la pietra calda sotto i piedi, come un segreto sussurrato in cima al cucuzzolo. Chi ha orecchie per intendere e gambe buone per salire… venga. Perché Acerenza non si mostra. Si conquista. Pian piano, boccone dopo boccone
ALBANO DI LUCANIA: “Il paese dove anche le streghe chiedono il permesso prima di entrare”
Albano di Lucania non è un semplice borgo lucano: è una specie di Hogwarts senza Harry Potter, un luogo dove le pietre parlano, le vecchie conoscono l’erba giusta per ogni malanno e i turisti vengono avvolti in un clima talmente surreale da chiedersi se per caso non hanno inalato un decotto di finocchietto allucinogeno. Perché qui, signori, le streghe non sono solo folklore. Sono memoria collettiva, racconto orale, identità culturale e, soprattutto, attrazione turistica. Altro che Salem. Qui c’è “Le Notti della Magia”, un festival che ogni agosto trasforma Albano in un teatro stregato a cielo aperto. Masciare che leggono le carte, m’nacidd che fanno dispetti, artisti sospesi nel vuoto, mercatini che vendono pozioni o quasi, e spettacoli che culminano con il celebre “Processo alla Strega”. Ma tranquilli: non bruciamo nessuno. Al massimo qualche salsiccia. E mentre di notte si evocano spiriti e si balla con la luna, di giorno si fa quello che ogni buon lucano sa fare: si mangia. Ed ecco allora un tripudio di sapori degni di un sabba contadino: agnello delle Dolomiti lucane, pane di grano duro cotto a legna, pecorino stagionato che parla tre dialetti, e vino che scende giù come una formula magica… fino a trasformarti, dopo tre bicchieri, nel più grande esperto mondiale di cultura popolare albainese. Albano, incastonato tra le alture dell’Appennino, ha un passato tosto e risalente: era lì prima dei Romani, prima dei Longobardi, prima delle piattaforme streaming. Il nome stesso viene da Albus, che vuol dire “bianco”, ma qui è più facile vedere rosso, specie quando due anziane discutono su chi avesse il suocero più maleducato. Il pregio più grande? L’ospitalità. Il difetto? L’ospitalità… quando sei l’unico forestiero e ti guardano come se fossi un agente dell’INPS venuto a controllare la pensione di reversibilità della zia. Ma guai a sottovalutarli: gli albanesi di Lucania (da non confondere con l’altra Albania) sono testardi come muli con il master in sopravvivenza appenninica. E non scherzano con le cose sacre. Perché qui, tra streghe e tarocchi, la religione c’è e si fa sentire. Il patrono è San Vitale, che protegge il paese con un fervore da capobranco. La processione è un rito serio: banda, statue, candele, promesse e ginocchia sbucciate. Un momento collettivo in cui anche le masciare fanno il segno della croce… per sicurezza, che non si sa mai. E il patrimonio architettonico? Da cartolina d’autunno. Vicoletti, portali in pietra, chiese nascoste dove ti aspetti di incontrare un monaco medievale con l’iPhone. E se cercate un personaggio illustre nato qui, eccovi serviti: Rocco Montano, filologo, critico letterario e fine studioso di Dante, mica bruscolini. Lui sì che aveva il fuoco sacro della parola. Anche se, a dirla tutta, qui il fuoco sacro ce l’hanno anche le massaie quando ti servono la minestra bollente. Chi vuole capire la Lucania più autentica, quella che ti fa ridere e riflettere mentre ti spalma sugna sul cuore, dovrebbe venirci almeno una volta. Non è detto che trovi la strega, ma di sicuro troverà se stesso. E forse pure un po’ di agnello avanzato.
ABRIOLA: dove l’amore inciampa nella nebbia (e resta lì)”
Arrivarci è già un’esperienza. Le strade sono quelle classiche da montagna lucana: curve che sembrano prese da un videogioco giapponese, guard rail che paiono fatti con gli stuzzicadenti e l’impressione costante che da un momento all’altro un cinghiale ti attraversi la carreggiata con l’aria di chi ha tutto il diritto. La Sellata è il varco naturale, il passaggio obbligato, la dogana spirituale che ti introduce nel mondo sospeso di Abriola. Superato quel tratto, la civiltà inizia a svanire, il segnale del telefono pure, e comincia la magia. Abriola non si visita, si conquista. È uno di quei paesi che non si offrono, si difendono. Non si raccontano, si ascoltano. È tutto arroccato, ma senza arroganza. È nebbia che sale dal basso, muri che scendono dal cielo, e silenzi pieni di significato. Quando arrivi, e se ci arrivi, perché Google Maps ogni tanto va in crisi mistica, il primo pensiero è: “Ma chi me l’ha fatto fare?”. Poi respiri. E capisci. È un borgo che si è perso nel tempo e ha deciso di non farsi più trovare. Perché va bene il turismo, va bene il marketing territoriale, ma Abriola è fatta per chi sa guardare dietro le cose, non per chi cerca il posto giusto per fare selfie. Ti accoglie con una piazzetta sobria, case color fumo e una chiesa che sembra uscita da un libro di storie contadine. E poi lei: la statua di San Valentino, il patrono. Ma qui San Valentino non è un’icona da cioccolatini: è una specie di eroe locale, celebrato con un corteo storico che ogni anno tira fuori il meglio (e il medio) del paese. E poi il bastone nella cattedrale, sì: perché un santo senza il suo bastone in bella mostra è come un paese senza il suo bar. E qui tutto ha un significato, anche il legno sacro. Il cibo, ovviamente, è un altro capitolo. Lagane e ceci come se piovesse, funghi che profumano di umido e sottobosco, castagne vere (non quelle tristi del supermercato), salsiccia che sa di caminetto e aglianico come se non ci fosse un domani. Qui si mangia per vivere e per dimenticare, per socializzare e per dire: “Stamattina non si lavora, ho il pranzo dalla zia.” I cittadini? Gente seria, a tratti serissima, che sembra sempre sul punto di sgridarti ma poi ti invita a bere. Burberi con vocazione filosofica, ruvidi con picchi di poesia. Ti osservano con diffidenza ma ti tengono il portone aperto. Parlano poco, ma se ti fermi, ti raccontano tutto: dalla frana dell’88 al prete che sbagliava le letture. Difetti? Gli Abriolani non emigrano, resistono. Come le radici degli alberi che crescono nelle pietre. Abriola non è per tutti. È per quelli che hanno voglia di perdere tempo nel senso migliore del termine. È per chi non ha paura della nebbia, dei silenzi, delle storie dette sottovoce. È un luogo che si fa amare lentamente, come certi amori che sembrano errori ma poi ti salvano. E allora vai. Perché Abriola è uno di quei posti dove non succede niente… ma può succedere di tutto. E con questo si conclude la nostra prima tappa tra questi straordinari paesi. Domani vi porteremo in altri luoghi altrettanto affascinanti, con nuove storie da ascoltare e meraviglie da scoprire. Non mancate, l’avventura continua!
Dino Quaratino