È GIUSTO INFORMARE 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE PENALE

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma.

Così deciso in Roma, l’11 marzo 2025

OMICIDIO SERENA MOLLICONE, PUBBLICATE LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE

Come abbiamo detto diverse volte, la sentenza d’appello era suicida, ponziopilatesca e trasparente e che non spiegava perché GIUSTAMENTE assolveva i Mottola.
Una sentenza scritta in modo frettoloso, inadeguato e contraddittorio, nonostante ci fossero state udienze con oltre 50 testimoni e un fortissimo contraddittorio fra noi Consulenti della DIfesa con quelli dell’Accusa, in modo particolare sulle questione “porta non arma del delitto” e “svarioni sui nastri e sui frammenti lignei repertati sugli stessi”. Contraddittorio da noi vinto con l’affermazione delle nostre tesi ed anche in primo grado).
Si vede che l’estensore della sentenza suicida ponziopilatesca ha avuto dei fortissimi vuoti di memoria e cali d’attenzione.
Affronteremo il nuovo processo d’appello con fermezza, scienza, conoscenza sia per dimostrare l’innocenza dei Mottola, fermo restando che vale solo la sentenza di primo grado, quella che vuole e dichiara i Mottola innocenti, sia per rendere giustizia a Serena Mollicone.

Il portavoce del Pool DIfesa Mottola Prof. Carmelo Lavorino
🔹

20307-25
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE PENALE
Composta da:
MONICA BONI
PAOLA MASI
DOMENICO FIORDALISI
GAETANO DI GIURO
RAFFAELLO MAGI
ha pronunciato la seguente
– P r e s i d e n t e – Sent. n. sez. 177/2025
UP – 11/03/2025
R.G.N. 40988/2024
– Relatore –
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI ROMA
nel p r o c e d i m e n t o a carico di:
MOTTOLA MARCO n a t o a PALESTRINA il 0 4 / 0 7 / 1 9 8 2
MOTTOLA FRANCO n a t o a TEANO il 1 0 / 1 2 / 1 9 5 6
MOTTOLA ANNA MARIA n a t o a TEANO il 0 4 / 0 5 / 1 9 6 1
i n o l t r e :
MOLLICONE ANTONIO
MOLLICONE CONSUELO
MOLLICONE ARMIDA
TUZI MARIA
T U Z I F A B I O
MINISTERO DELLA DIFESA COMANDO GENERALE ARMA CARABINIERI
COMUNE DI ARCE IN PERSONA DEL SINDACO PRO-TEMPORE
avverso la sentenza del 12/07/2024 della CORTE ASSISE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GAETANO DI GIURO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO
che ha concluso chiedendo, in accoglimento del ricorso, l’annullamento con rinvio della
sentenza di appello.
uditi i difensori
L’avv. NARDONI Federica si associa alla richiesta del PG, deposita conclusioni e nota
s p e s e ,
L’avv. DE SANTIS Dario R o m a n o conclude c h i e d e n d o l’annullamento della s e n t e n z a
impugnata, deposita conclusioni e nota spese per le parti rappresentate Mollicone
Antonio e Mollicone Consuelo quale figlia erede di Mollicone Guglielmo. Deposita,
inoltre, per conto dell’avv. Salera Sandro conclusioni e nota spese per Mollicone
C o n s u e l o ;
L’avv. RADICE Antonio chiede venga accolto il ricorso del Procuratore Generale presso
la Corte di Appello di Roma, annullando con rinvio la sentenza impugnata;
L’avv. GRECO Maurizio chiede l’accoglimento dell’impugnazione del Procuratore
Generale annullando la sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma;
L’avv. GERMANI Francesco Maria conclude chiedendo il rigetto o l’inammissibilità del
ricorso del Procuratore Generale;
L’avv. DI GIUSEPPE Piergiorgio chiede l’inammissibilità del ricorso del Procuratore
G e n e r a l e ;
L’avv. MARSELLA Mauro conclude chiedendo venga dichiarato inammissibile il ricorso
del Procuratore Generale.

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di assise di appello di Roma ha
confermato la sentenza di assoluzione dall’omicidio di Serena Mollicone per
non aver commesso il fatto emessa nei confronti di Marco Mottola, Franco
Mottola e Annamaria Mottola dalla Corte di assise di Cassino.
1.1. Secondo l’ipotesi di accusa gli imputati, in concorso tra loro, dopo che Serena Mollicone, alle ore 11 circa del 1° giugno 2001, aveva fatto
ingresso nella caserma dei carabinieri di Arce, per accedere all’alloggio di servizio del maresciallo Mottola, la avevano fatta entrare nell’alloggio a locazione privata posto al primo piano di detta caserma nella disponibilità
della famiglia Mottola, ove era avvenuta una colluttazione, nel corso della quale la testa della giovane era stata spinta, con forte impatto, contro la porta del bagno interno di una stanza (che, pertanto, si era danneggiata),
di modo che la vittima, colpita alla testa nella zona sopraccigliare sinistra, aveva riportato un t r a u m a cranico produttivo di perdita di coscienza e di seguito era deceduta, in epoca successiva alle ore 14.30 dello stesso giorno, per asfissia meccanica da soffocazione esterna diretta, avendole ostruito le vie aeree con nastro adesivo e chiuso il capo in un sacchetto di plastica.
Secondo detta ipotesi Franco Mottola aveva concorso nel reato anche ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., perché, quale maresciallo dei carabinieri comandante della stazione di Arce, era gravato dall’obbligo
giuridico di impedire l’evento morte in quanto titolare di una posizione di garanzia.
2. Avverso la sentenza di appello propone ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma.
2.1. Col primo motivo di impugnazione viene dedotta violazione di legge processuale per inesistenza di motivazione o motivazione apparente.
Ci si duole che la Corte di assise di appello si sia limitata ad esporre le conclusioni della sentenza di primo grado e le risultanze istruttorie,
f a c e n d o n e u n a v a l u t a z i o n e c o n t r a d d i t t o r i a e t a l v o l t a a s t e n e n d o s i dal formulare qualsiasi valutazione, in tal modo omettendo di esprimere una
p r o p r i a motivazione.
Il ricorrente lamenta, sia l’incoerenza intrinseca di una serie di punti
della motivazione impugnata, sia l’omessa valutazione della propria
m e m o r i a c o n c l u s i v a s u d e t t i punti.

Con riguardo, in primo luogo, all’attendibilità del brigadiere Santino
Tuzi, osserva che la Corte territoriale pur rilevando che, con le sommarie
informazioni del 9 aprile 2008, il suddetto supera alcune incongruenze delle
dichiarazioni rese agli inquirenti il 28 marzo 2008, affermando di avere
visto l’ingresso di Serena in caserma sia dal monitor che dalla finestra,
sembra poi contraddirsi quando evidenzia che la Procura presso il Tribunale
di Cassino aveva chiesto l’archiviazione nei confronti dei Mottola perché
riteneva probabile, ma non certo l’ingresso della donna in caserma,
l a s c i a n d o i n c e r t a la v a l u t a z i o n e sulla f o n t e s t e s s a .
Con riguardo, poi, al punto della dedotta falsità dell’ordine di servizio,
strettamente collegato alla questione dell’attendibilità delle dichiarazioni di
Tuzi, la Corte di assise di appello, dopo avere riportato ampi brani della
sentenza di primo grado, si limita, secondo il ricorrente, ad evidenziare che
dall’istruttoria dibattimentale in grado di appello non sarebbero emersi
elementi certi in grado di supportare detta falsità a scapito dell’ipotesi di
irregolarità dell’atto e di pasticciate, imprecise e maldestre annotazioni nel
fogli in cui doveva darsi atto delle attività svolte dai due militari (Tuzi e
Quatrale). Si osserva che, secondo detto ordine di servizio, Tuzi e Quatrale
nella mattinata avrebbero dovuto svolgere servizio esterno certamente
dalle 11 in poi, mentre sia dalle dichiarazioni di Tuzi – che riferisce di avere
visto Serena entrare in caserma alle 11/11.30 mentre era di piantone, e di
non averla vista uscire fino alla sua permanenza – sia dalle dichiarazioni di
Quatrale, Renzi, Lancia e Simone Pasquale, sia, infine, dai tabulati
telefonici documentanti la presenza di Tuzi in caserma alle ore 12.19,
a l c u n e a t t i v i t à r i s u l t a n o e s s e r e s t a t e s v o l t e d i v e r s a m e n t e d a c o m e s c r i t t o
nell’ordine di servizio, in particolare all’interno e non all’esterno della
caserma (ad esempio l’invito in caserma di Lancia per la consegna di un
atto, che, quindi, avveniva con telefonata dalla caserma e non con notifica
presso il domicilio, come da ordine di servizio). Si rileva che la Corte
territoriale, pure avendo ritenuta non peregrina l’ipotesi della falsità
dell’ordine di servizio, anche per avere Quatrale ammesso di non avere
compiuto alcune attività (controllo allo stabilimento Molinari), non compie
una valutazione complessiva comprensibile dell’indizio e finisce per
concludere per la veridicità del documento, omettendo di confrontarsi con
gli elementi valorizzati nella memoria conclusiva del P.g.
Quanto alla deposizione di Marco Malnati, il ricorrente rileva che a p.
15 e 16 la Corte territoriale la esamina, osservando che lo stesso, dopo
aver detto durante una trasmissione televisiva che Tuzi era stato fatto fuori per tappargli la bocca sul caso Mollicone, in udienza di primo grado aveva negato di avere ricevuto confidenze da Tuzi, e in appello aveva riferito che Tuzi gli aveva detto di avere visto Serena entrare in caserma il giorno della
scomparsa, aggiungendo che non aveva prima rivelato tale notizia per timore per la incolumità sua e della figlia minorenne. E, pur ritenendo la paura prospettata da Malnati “un’ipotesi plausibile e umanamente
comprensibile”, poi considera che la scelta di non parlare in primo grado
finisce per minare l’efficacia probatoria del contributo del testimone,
compiendo, quindi, un giudizio illogico e contraddittorio a fronte di una
spiegazione ritenuta plausibile.
Il ricorrente evidenzia, poi, come alle testimonianze, fondamentali per
riscontrare il racconto di Tuzi, di Anna Rita Torriero e Sonia Da Fonseca
(la prima, che aveva all’epoca del fatto una relazione sentimentale con
Tuzi, avrebbe detto alla seconda di avere visto personalmente Serena in
caserma il giorno della scomparsa, ma, mostrando, poi, in dibattimento un
atteggiamento reticente, avrebbe ridimensionato la valenza della
confidenza, asserendo di avere visto più volte Serena in caserma, ma non
il giorno preciso della sua scomparsa), la Corte di assise di appello abbia
dedicato poche righe. E non abbia approfondito l’attendibilità dell’una e
dell’altra teste per cercare di accertare cosa effettivamente la Torriero
sapesse. Lamenta il ricorrente che la Corte di secondo grado non si è in
alcun modo confrontata con quanto valorizzato nella memoria conclusiva
del Procuratore generale, in cui si era evidenziato che le dichiarazioni della
Da Fonseca erano attendibili in quanto provenienti da persona non
portatrice di alcun interesse personale e riscontrate dalle originarie
dichiarazioni di Massimiliano Gemma circa la confidenza dello stesso tipo
ricevuta dalla sua compagna, appunto la Torriero, prima del confronto con
la stessa; nonché si era sottolineato che la Da Fonseca, a conferma della
genuinità delle originarie dichiarazioni di Gemma, aveva confermato in
dibattimento di avere assistito al rimprovero della Torriero a G e m m a per
avere quest’ultimo riferito di avere appreso dalla prima dell’avvistamento
di Serena del 1° giugno 2001; e si erano, infine, valorizzati l’ulteriore
c o n f i d e n z a c h e la D a F o n s e c a r i f e r i s c e di a v e r e r i c e v u t o d a l l a To r r i e r o circa
la ragione del suicidio di Santino perché a conoscenza dei fatti relativi alla
morte di Serena Mollicone, nonché il fatto che l’appuntato Venticinque
riferisce di avere ricevuto in modo informale le dichiarazioni della Da
Fonseca circa la confidenza fattale dalla Torriero dell’avvistamento in
caserma della Mollicone il giorno della sua scomparsa.
Lamenta il ricorrente che la sentenza non spiega perché ha deciso di
non credere alla Da Fonseca e perché ha ignorato le testimonianze di
Gemma e Venticinque a supporto della genuinita del teste de relato; che
la Corte di assise di appello ha negato l’acquisizione dell’intercettazione di
una conversazione ambientale in auto del 28 settembre 2008 e di una
successiva telefonata del 10 ottobre 2008 tra Venticinque e la Da Fonseca,
decisive per confermare la genuinità della teste, che, ignara
dell’intercettazione, anche in quei frangenti aveva reso la stessa versione
all’appuntato; e che ha, poi, negato domande a Venticinque sul loro
contenuto perché esistenti le intercettazioni, dando quindi vita a una
motivazione contraddittoria e incoerente.
Si duole il Procuratore generale che sia stata omessa, inoltre, la
v a l u t a z i o n e d e l l ‘ i n t e r c e t t a z i o n e di u n a t e l e f o n a t a t r a Tuzi e la Torriero del
28.3.2008, prima dell’escussione del primo in quella data in cui rivela di
avere visto Serena in caserma il giorno della sua scomparsa, nella quale
Tuzi si mostrava preoccupato di essere sentito per la vicenda di “quella
ragazza” e diceva di temere che gli mettessero le manette.
Evidenzia che la Corte di assise di appello non ha tenuto conto e non
ha nemmeno riportato la deposizione di Carmine Belli circa l’incontro con
Tuzi, che gli chiedeva scusa, all’atto della sua scarcerazione per
l’assoluzione dall’omicidio in esame.
Rileva che la Corte territoriale ha rigettato la richiesta del Pubblico
ministero di sentire il maresciallo Tersigni – al quale Tuzi avrebbe confidato
quello che aveva detto agli inquirenti – la cui testimonianza poteva portare
elementi nuovi per valutare l’attendibilità di Tuzi, trattandosi di un teste
disinteressato, che non aveva esercitato nessun timore su quest’ultimo.
Lamenta che, in ordine alle consulenze tecniche, la sentenza
impugnata, pur avendo riscontrato delle criticità nel giudizio dei consulenti
tecnici del P.m., non ha formulato nessuna ipotesi alternativa e anzi ha
ritenuto che le tesi dei consulenti dell’accusa fossero state riscontrate; in
particolare, la Corte di assise di appello, dopo avere ritenuto infondate le
obiezioni relative all’assenza di lesioni sull’orecchio esterno della vittima e
irrilevanti quelle sull’altezza delle lesioni e sulla mancanza di segni di
colluttazione, ha aderito ai rilievi della prima Corte sull’assenza di lesioni
alla spalla e alla mandibola che avrebbero dovuto essere prodotte a seguito
dell’urto della testa della vittima contro la porta, fondati sulle obiezioni dei
consulenti della difesa; ma ciò senza replicare alle contestazioni mosse con
l’appello del P.m., fondate sui rilievi della professoressa Cattaneo (che
diversamente dai professori Bolino e Potenza esclude la necessità di lesioni
alla spalla e all’emitorace) e sulla ricostruzione di detta professoressa
unitamente all’ingegnere Sala, quali consulenti del P.m., mediante calchi,
del cranio e del foro della porta, che evidenziano la corrispondenza tra il
danno alla porta e la lesione del cranio della vittima e la mancata
considerazione da parte del consulente della difesa (che ha, comunque,
ritenuto che l’ipotesi della professoressa Cattaneo non possa essere esclusa
in maniera assoluta), della possibilità di un’inclinazione della testa verso
s i n i s t r a .
Osserva, inoltre, il ricorrente che sulla consulenza tecnica
merceologica del RIS la Corte di assise di appello: – non dà risposte
richiamando i rilievi della prima Corte, senza replicare alle considerazioni
esposte nell’appello del P.g., pur senza negare la compatibilità dei risultati
scientifici con la ricostruzione accusatoria; – si limita a riportare le
contestazioni delle difese su punti secondari circa la distribuzione dei
frammenti di legno sui nastri adesivi, trascurando l’aspetto rilevante che
era il ritrovamento in sé dei frammenti, dalla composizione chimica
indistinguibile dal materiale di cui era fatta la porta, e la presenza di un
frammento di vernice arrugginita, coincidente con un pezzo di vernice
staccatosi dalla caldaia presente sul balcone della stanza in cui vi era la
porta rotta; – non considera che il rinvenimento di dette tracce costituisce,
invero, un indizio molto grave e preciso, non valutato, a carico di coloro
che avevano la disponibilità dell’appartamento, in ordine alla commissione
dell’omicidio e al confezionamento del corpo della vittima in quel luogo.
Rileva che a tale riguardo non si può affermare che anche altre porte
possono essere così composte, come fa la Corte di assise di Cassino, e che
la motivazione per relationem della Corte territoriale è una motivazione
inesistente per mancata pronuncia sulle critiche avanzate dall’accusa nei
confronti della sentenza appellata.
Lamenta il ricorrente che anche con riguardo alla consulenza
genetico-botanica della professoressa Pilli, la Corte di assise di appello si
limita a riportare per esteso il passo della motivazione di primo grado, che
ha ritenuto insufficienti gli esiti di tale elaborato tecnico perché nei
frammenti di legno sui nastri sarebbe stata rinvenuta una corrispondenza
al massimo pari solo del 90 % con il materiale della porta; e che non
esamina le argomentazioni critiche del P.g., il quale evidenziava come
detto dato fosse frutto di un errore tecnico di interpretazione e come invece
la professoressa Pilli avesse evidenziato la presenza di tracce con sequenze
interamente sovrapponibili a quelle della porta, due addirittura superiori al
96 %.
Rileva che anche questa parte della m o t i v a z i o n e esprime
considerazioni del tutto generiche e apodittiche.
Il Procuratore ricorrente evidenzia che, con riguardo all’avvistamento
di Serena la mattina dell’1 giugno 2001 al bar Chioppetelle con una persona
con i capelli mesciati, riconducibile a Marco Mottola, pur essendo stato
ritenuto attendibile Carmine Belli, diversamente da Tommaselli, il suo
riconoscimento è stato considerato incerto senza alcuna spiegazione; e che
sul mancato riconoscimento di persona di Marco Mottola da parte di
Simonetta Bianchi, dopo un riconoscimento all’80% su fototessera, la
motivazione è apparente, non spiegando la Corte territoriale per quale
motivo è stata convinta dal mancato riconoscimento “in condizioni di
disagio e/o timore”, invece che da quello fotografico precedente. Lamenta
che è stata trascurata, al riguardo, la testimonianza di Iommi, secondo cui
Marco, suo coetaneo e suo cliente del negozio di parrucchiere, aveva
all’epoca i capelli mesciati, ma, subito dopo il ritrovamento del cadavere e
prima del funerale di Serena, se li era fatti tagliare, dicendo che i genitori
gli avevano detto di far sparire le meches. Rileva che tale elemento
avvalora la correttezza del riconoscimento fatto da Belli e dalla Bianchi,
tanto più che il soggetto da quest’ultima avvistato era salito su un’auto Y10
bianca vecchio modello con targa nera, corrispondente a quella di Marco
Mottola; e che nella memoria conclusiva, con cui la sentenza in esame non
si confronta, si era evidenziato che il maresciallo Franco Mottola
nell’annotazione del 27 giugno 2001 aveva riportato in modo distorto le
dichiarazioni della Bianchi, non solo scrivendo che la teste gli aveva detto
di avere visto Serena il pomeriggio dell’1 giugno 2001 verso le 17.30, ma
omettendo il riferimento al ragazzo mesciato e alla Y10 bianca.
Osserva che anche sul movente legato ai rimproveri mossi da Serena
a Marco Mottola per la sua attività di spaccio e per il mancato intervento
repressivo del padre la motivazione della sentenza di appello è apparente.
Rileva che la Corte afferma apoditticamente la genericità della
testimonianza di Giuseppe D’Ammasso di avere assistito ad una
discussione animata tra Marco Mottola e Serena Mollicone durante la festa
di Sant Eleuterio negli ultimi giorni di maggio, come chiarirà in
dibattimento, del 2001 e, quindi, prima dell’omicidio. Sottolinea come in
relazione ai rimproveri mossi da Serena ai Mottola siano trascurate le
testimonianze delle amiche della ragazza Elisa Santopadre e Francesca
Consiglio, del fidanzato Michele Fioretti, del padre e della zia di Serena
(questi ultimi riferiscono di prese di posizione pubbliche di Serena contro
Marco e contro il padre maresciallo, che non poneva freno all’attività di
spaccio del figlio); e come tale contrapposizione, anche ammesso che non
fosse avvenuta la lite al bar Chioppetelle, ha certamente costituito una
possibile scintilla che ha fatto sorgere una lite violenta tra i due ragazzi
dopo che Serena è entrata in caserma, nel corso della quale la ragazza
sarebbe stata sbattuta contro la porta.
Rileva, inoltre, il Procuratore ricorrente circa le dichiarazioni rese dagli
imputati, che Annamaria Mottola ha reso esame, il marito si è rifiutato, il
figlio ha risposto all’esame dei suoi difensori, ma non al controesame del
P.m., che pure avrebbe dovuto interrogarlo per primo perché ne aveva
chiesto l’esame; che, comunque, le spiegazioni per la rottura della porta
del bagno dell’appartamento nella disponibilità degli stessi, ove in tesi
accusatoria Serena avrebbe sbattuto il capo, sono incongruenti e
inverosimili, avendo Annamaria sostenuto di non aver saputo niente sino
al 2008 ed essendo stati ritenuti gli altri due non convincenti; e che, ciò
nondimeno, le loro condotte processuali sono state considerate non
sufficienti a colmare le lacune dimostrative dell’accusa, senza però
specificare quali siano dette lacune, anche considerato che le spiegazioni
date sono state smentite dai consulenti tecnici del P.m.
Lamenta, ancora, il ricorrente, circa il falso alibi fornito da Marco
Mottola, in relazione alla visita al bar Chioppetelle con la fidanzata Ricci
Laura, che sarebbe stata, però, sua fidanzata solo nel 2002, poco prima
delle dichiarazioni rese ai carabinieri del cui contenuto egli l’aveva
informata, che la Corte ritiene che la telefonata fosse stata fatta per
riguardo alla ragazza e non per corroborare detto alibi e non considera,
invece, che al dibattimento la Ricci aveva ammesso che il giovane l’aveva
messa in mezzo per garantirsi l’impunità.
Si duole che, a fronte dei depistaggi del maresciallo Mottola, che aveva
sentito Belli e Simonetta Bianchi senza verbalizzarne le dichiarazioni o
riportandole in modo distorto nell’informativa del 27.6.2001 per coprire il
figlio, la Corte, pur esprimendo forti sospetti che dette irregolarità siano
state qualcosa di più e di diverso di condotte professionalmente maldestre
(p. 31 e 32), esclude la sussistenza di un depistaggio con ragionamento
i n c o e r e n t e e d o s c u r o .
2.2. Con il secondo motivo di ricorso viene denunciata erronea
applicazione dell’art. 125 cod. proc. pen.
7
La Corte di assise di appello avrebbe omesso di compiere una
valutazione completa di tutti gli indizi, essendosi limitata ad evidenziare
alcune problematicità.
Rileva il r i c o r r e n t e c h e d e t t a C o r t e h a r i t e n u t o i n c e r t o c h e S e r e n a si
fosse recata in caserma, che avesse sbattuto la testa contro la porta, che
fosse morta per asfissia in caserma stessa e quale dei Mottola l’avesse
colpita e per quale motivo.
Osserva che, in modo contraddittorio, da un lato, detta Corte afferma
di non potere addivenire ad una sentenza di colpevolezza “costruita su
fondamenta instabili” e, dall’altro, aggiunge che non può escludersi che le
prove ci siano e che la stessa Corte non abbia saputo valorizzarle,
rimettendosi al giudizio della Corte di cassazione circa la superabilità delle
incertezze probatorie.
Lamenta che a) sull’ingresso di Serena in caserma la Corte territoriale
ha omesso di valutare le deposizioni di Da Fonseca, Venticinque, Torriero
e Gemma, ha liquidato la deposizione di Malnati come reticente ed
inaffidabile e non ha valutato le deposizioni di Renzi, Lancia, Simone
Pasquale; b) sulle consulenze dei professori Cattaneo e Sala non ha
confrontato le obiezioni dei consulenti della difesa con le repliche dei
consulenti dell’accusa, non ha considerato che riguardavano punti
marginali e ha omesso di confrontarsi con i rilievi esposti in appello sulle
consulenze merceologica e botanica; c) sul movente di Marco non ha
valutato le testimonianze di chi lo aveva visto discutere con la vittima.
Si duole, inoltre, che sia stata del tutto omessa la considerazione
dell’elemento di accusa costituito dal comportamento degli imputati, che
non hanno dato spiegazione del buco sulla porta dell’appartamento ed anzi
hanno fornito plurime, contraddittorie, inverosimili ed insostenibili versioni
a fronte delle affermazioni dei consulenti Cattaneo e Sala circa la perfetta
compatibilità tra il buco e la testa della vittima (avendo Franco Mottola
detto di avere provocato lui il buco con un pugno sferrato di piatto dopo
una lite col figlio, accertando però il consulente Sala che il danneggiamento
non è compatibile con tale pugno di piatto, quanto piuttosto maggiormente
con un pugno di nocche di Marco Mottola, che, però, mai ha affermato di
avere sferrato). Gli stessi hanno, poi, mentito sul colore di capelli di Marco,
avendo la madre negato che avesse avuto delle meches e Marco detto di
averle fatte da ragazzino; inoltre, Franco Mottola risulta avere compiuto
depistaggi e Marco Mottola avere fornito un falso alibi.
2.3. Con il terzo motivo di impugnazione si deduce violazione di norme
processuali e motivazione apparente quanto alla mancata acquisizione
delle intercettazioni della conversazione ambientale e di quella telefonica
tra l’appuntato Venticinque e la Da Fonseca e della deposizione del
maresciallo Tersigni. Acquisizione, che, invece, andava, secondo il
ricorrente, disposta anche d’ufficio una volta ritenute inattendibili le
dichiarazioni di Tuzi e della Da Fonseca circa l’ingresso di Serena Mollicone
in caserma la mattina del 1° giugno 2001.
2.4. Col quarto motivo di ricorso il Procuratore generale denuncia
erronea applicazione delle norme, di cui agli artt. 110 e 40 cod. pen., sul
concorso di persone e sul concorso omissivo nel reato commissivo.
Lamenta che la Corte di assise di appello di Roma ha affermato che vi
è incertezza su “chi” abbia commesso “cosa” tra i tre Mottola all’interno
della caserma, pur non essendo necessario in materia di concorso accertare
il ruolo specifico svolto da ciascun concorrente, ma essendo richiesta la
sola prova del contributo volontario e consapevole dell’agente alla
realizzazione dell’evento. Osserva che tutti e tre gli imputati erano in
caserma quel giorno, come emerge dai tabulati, e che le altre persone che
erano nello stabile non avevano alcuna facoltà di introdursi
nell’appartamento sfitto, perché questo era usato esclusivamente, in quel
periodo, dai Mottola, che avevano, pertanto, l’obbligo di garanzia nei
confronti di Serena; e che, a ben vedere, in tutte le ipotesi avanzate dalla
Corte di assise di appello (a p. 41) permane la responsabilità dei tre
imputati, non risultando invero necessario stabilire chi abbia colpito
Serena, chi l’abbia soffocata e chi non sia intervenuto. Sottolinea che per
imbavagliare la vittima in quel modo occorrevano due persone; e che
dall alloggio occupato dai Mottola, sopra quello sfitto nella loro disponibilità,
si sarebbe avvertito il rumore del forte impatto della testa della vittima
contro la porta, non potendosi sostenere come fa la sentenza impugnata
che i Mottola non potessero essersi resi conto di quanto era accaduto al
piano di sotto. Rileva, inoltre, il ricorrente che Franco Mottola non era uscito
e aveva costretto Tuzi e Quatrale a rimanere in caserma perché trattenuto
da incombenze più urgenti dell’attività di servizio e che gli imputati
avevano un possibile movente dell’omicidio, quello di eliminare qualunque
traccia delle lesioni subite da Serena con l’impatto contro la porta, per
evitare che Marco ne sostenesse la responsabilità e che anche il maresciallo
Mottola ne subisse le conseguenze quale comandante della Stazione dei
c a r a b i n i e r i d o v e u n t a l e f a t t o e r a a v v e n u t o .
9
Il ricorrente conclude, quindi, alla luce di tutti i motivi sopra indicati,
per l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Fondati sono i primi tre motivi di ricorso, mentre deve ritenersi
assorbito il quarto.
Va preliminarmente rilevato che non può tenersi conto della memoria
depositata dai difensori degli imputati solo all’odierna udienza e, quindi,
oltre il termine di cui all’art. 611, comma 1, cod. proc. pen.
Deve essere, inoltre, evidenziato che nel caso in esame opera il limite
di cui all’art. 608, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dalla I. 23
giugno 2017, n.103, che stabilisce che «se il giudice di appello pronuncia
sentenza di conferma di quella di proscioglimento, il ricorso per cassazione
può essere proposto solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma
1 dell’art. 606». Il che significa che, in caso di doppia conforme di
assoluzione, come nella specie, il ricorso può essere proposto, oltre che
nella remota ipotesi di esercizio da parte del giudice di una potestà
riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non
c o n s e n t i t a ai pubblici poteri, per violazione di legge sostanziale o
processuale.
In un’interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta
norma, anche nel caso di ricorso avverso una sentenza di appello
confermativa di un’assoluzione in primo grado è necessaria la verifica
dell’effettività del doppio grado di merito nel senso dell’avvenuto esercizio
dei poteri di controllo del giudice di appello sulla sentenza di primo grado,
percepibile soltanto per il tramite di una motivazione esistente e non
m e r a m e n t e apparente, con effettivo assolvimento dell’obbligo di risposta
del giudice di appello agli specifici motivi proposti dalle parti impugnanti.
In tale interpretazione lo sbarramento della deducibilità del vizio di
motivazione trova il suo limite nell’omissione e apparenza di motivazione,
nonché nell’assenza di risposta a specifiche deduzioni che sollecitino il
potere di controllo del giudice di appello sulla sentenza di primo grado. E
ciò ancora di più in un procedimento indiziario, come quello in oggetto, in
cui il rispetto dei canoni di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. è
veicolabile in cassazione solo per il tramite del vizio di motivazione, di cui
all’art. 606, comma 1, lett. e), nel quale pertanto, in caso di omissione da
Q n 10
parte del giudice di appello di verifica circa il rispetto degli stessi, di fatto
tale controllo resterebbe prerogativa esclusiva del giudice di primo grado.
La sentenza impugnata va, quindi, esaminata alla luce dei principi
affermati dalla giurisprudenza di questa Corte sulla assenza della
motivazione quale causa di nullità della sentenza riconducibile al vizio di
violazione di legge (art. 606, lett. c, cod. proc. pen., in riferimento agli artt.
125, comma 3, e 507, 603 cod. proc. pen.) e sulla pacifica equiparazione
della motivazione a s s e n t e a quella apparente.
Si è affermato a tale ultimo riguardo – sia pure in ambiti diversi, ma
in un contesto ordinamentale nel quale, comunque, il ricorso per
cassazione è circoscritto alla denuncia della violazione di legge – che nella
nozione di violazione di legge va ricompresa la motivazione inesistente o
meramente apparente del provvedimento, che deve essere intesa come
del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza al punto da
risultare inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice
(in ultimo Sez. 1, n. 2967 del 24/01/2025, K., Rv. 287362 – 03), ovvero
come omesso confronto con un elemento potenzialmente decisivo nel
senso che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare
un esito opposto del giudizio (Sez. 6, n. 21525 del 18/06/2020, Mule’, Rv.
279284); e che non può essere proposta come vizio di motivazione
mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti
difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o
comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del
provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv.
260246 – 01).
Questa Corte ha chiarito che incorre nella violazione dell’obbligo di
motivazione dettato dagli artt. 125, comma terzo, cod. proc. pen. e 111,
comma sesto, Cost. il giudice d’appello che, nell’ipotesi in cui le soluzioni
adottate dal giudice di primo grado siano state censurate dall’appellante
con specifiche argomentazioni, confermi la decisione del primo giudice,
dichiarando di aderirvi, senza però dare compiutamente conto degli
specifici motivi d’impugnazione, cosi sostanzialmente eludendo le questioni
poste dall’appellante (Sez. 4, n. 6779 del 18/12/2013, dep. 2014, Balzamo,
Rv. 259316; Sez. 3, n. 27416 del 01/04/2014, M., Rv. 259666).
L’assenza e / o apparenza di motivazione è dunque certamente
ravvisabile nelle ipotesi di omessa o parziale disamina delle specifiche
doglianze prospettate con i motivi di appello, a meno che le stesse non.
siano manifestamente infondate.
11
Il giudice di appello non può selezionare i fatti da valutare, le doglianze
sulle quali rispondere e scegliere i profili su cui motivare, poiché la
motivazione deve essere funzionale all’obbligo di effettiva giustificazione
delle scelte compiute dal giudice di merito, pena la nullità per violazione di
legge.
In tema di sentenza di appello, incorre, invero, in una motivazione
apparente il giudice che si limiti a una mera rassegna degli elementi di
prova assunti nel corso del processo, senza tenere in adeguato conto le
specifiche deduzioni delle parti, omettendo, altresì, di fornire adeguata
spiegazione circa l’infondatezza, l’indifferenza o la superfluità degli
argomenti opposti con il ricorso (Sez. 2, n. 18404 del 05/04/2024, Lo, Rv.
286406).
E’ ciò che si verificato nel caso in esame, in cui la sentenza impugnata
ha puntualmente riportato le argomentazioni della sentenza della Corte di
assise di Cassino e le corrispondenti critiche degli appellanti (Pubblico
ministero e parti civili), ha anche dato atto della contrapposizione delle
considerazioni delle parti in sede istruttoria, ha evidenziato alcune criticità,
concludendo, ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., solo per il
fatto che esse esistessero. Dando vita in più punti a passaggi motivazionali
talmente contraddittori tra loro da risultare incomprensibili.
La Corte di assise di appello di Roma muove (a p. 2) dalle osservazioni
della prima Corte, secondo cui «numerosi elementi indiziari, costituenti dei
tasselli fondamentali dell’impianto accusatorio del P.m., non sono sorretti
da un sufficiente e convincente compendio probatorio» e secondo cui «dalla
s t e s s a i s t r u t t o r i a d i b a t t i m e n t a l e s o n o e m e r s e d e l l e p r o v e c h e si p o n g o n o
in termini contrastanti rispetto alla ricostruzione dei fatti da parte della
pubblica accusa». Ma, pur richiamando questo passaggio della sentenza di
primo grado, non conferma affatto la sussistenza di prove contrastanti
rispetto a detta ricostruzione, affermando, anzi, in più punti che
quest’ultima era del tutto plausibile; ciò nonostante, incomprensibilmente
dichiara insufficienti gli indizi, senza spiegare se sia possibile una
ricostruzione alternativa più convincente.
Se è vero che il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo se
l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, tuttavia è
anche vero che lo stesso non può astenersi dal vagliare le eventuali
incertezze manifestatesi per verificare se è possibile ricomporle in un
quadro coerente e che solo se, all’esito di detta verifica, permangono
12
dubbi, nel senso della possibilità di una spiegazione alternativa dei fatti, ha
il dovere di assolvere l’imputato.
La Corte di assise di appello di Roma si limita ad elencare le
incongruenze evidenziate senza svolgere il passaggio successivo appena
menzionato.
A p. 46 detta Corte, dando una risposta del tutto inesistente in
relazione alla principale censura contenuta negli atti di appello circa la
valutazione frammentaria degli indizi da parte del primo Giudice, non
assistita, come necessario, da una successiva considerazione unitaria degli
stessi, in violazione dei criteri di valutazione della prova dettati dall’art.
192 cod. proc. pen., così conclude:
«Questa Corte ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli
odierni imputati e sa che una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita
su fondamenta instabili.
Ovviamente non può escludersi che le prove, invece, ci siano, e che
questo Collegio non abbia saputo valorizzarle, scorrettamente applicando i
criteri d e t t a t i dall’art. 1 9 2 c . p . p .
E questo lo dirà, eventualmente, la Suprema Corte, magari stabilendo
che le incertezze probatorie siano superabili e che i dubbi rappresentati
dalle due Corti di merito siano meramente soggettivi, virtuali, immaginari
e collocati nel regno sconfinato delle possibilità».
Il controllo sul rispetto dei canoni di cui all’art. 192 cod. proc. pen. era
invocato da tutti gli appellanti e rappresentava il fulcro della decisione
rimessa al giudice di secondo grado. E ciò considerato – Sez. 2, n. 45851
del 15/09/2023, Lo, Rv. 285441 – 02 – che in tema di processo indiziario,
il giudice può fondare il proprio convincimento circa la responsabilità
dell’imputato anche sulla concatenazione logica degli indizi, dalla quale
risulti che il loro complesso possiede quella univocità e concordanza atta a
c o n v i n c e r e della loro c o n f l u e n z a nella c e r t e z z a in o r d i n e al f a t t o s t e s s o
(conf.: n. 978 del 1982, Rv. 157266).
Controllo al quale, come si è visto, la Corte di assise di appello si è
sottratta, non offrendo una risposta alla censura, o meglio palesemente
abdicando al suo compito che, piuttosto, rimette a questa Corte.
Detta omissione rende assolutamente apparente il giudizio assolutorio
di secondo grado e già sarebbe sufficiente all’annullamento della sentenza
impugnata per violazione di legge, mancando al riguardo una motivazione
reale che si confronti con i rilievi degli appellanti.
13
Ma la Corte territoriale anche in relazione alla verifica della gravità e
precisione dei singoli indizi è incorsa in omissioni e/o apparenze
motivazionali.
A partire dalla valutazione delle dichiarazioni rese dal brigadiere
Santino Tuzi.
La Corte muove dalla premessa che tali dichiarazioni sono contenute
in due verbali (e in parziali registrazioni) redatti nelle giornate del 28 marzo
2008 e del 9 aprile 2008, acquisiti al fascicolo processuale ex art. 512 cod.
proc. pen., essendosene verificata, a causa della morte del dichiarante due
giorni dopo la seconda audizione l’impossibilità della ripetizione. Rileva che
ciò comporta un inevitabile vulnus ai principi dell’oralità e del
contraddittorio, che impone una valutazione del contenuto degli atti con
particolare rigore, perché, pur non potendosi dubitare della correttezza dei
soggetti (P.m. e Polizia giudiziaria) che hanno raccolto le sommarie
informazioni testimoniali, occorre verificare il contesto ambientale e
procedurale in cui gli atti sono stati svolti. A tale riguardo osserva che non
possono liquidarsi come prive di fondamento le perplessità della prima
Corte (a p. 117 della sentenza di primo grado) sul contenuto del verbale
riassuntivo delle s.i.t. a fronte della durata dell’esame pari a sette ore, dalla
cui registrazione emergerebbe, diversamente che dal verbale riassuntivo,
«un Tuzi incerto, che non ricorda, e soprattutto un Tuzi che, a fronte della
confusione, dei suoi ricordi, tenta in qualche modo di accomodare le sue
dichiarazioni a quelle degli altri, tanto da arrivare a contraddirsi e a non
riuscire ad esprimere con forza il suo pensiero».
La Corte di assise di appello di Roma sottolinea che la Corte di Cassino
ha motivato le sue perplessità in ordine ai tre argomenti principali oggetto
delle informazioni richieste al brigadiere Tuzi, a cominciare dalle
contraddizioni e incongruenze dell’ordine di servizio del 1°giugno 2001.
Rileva che detta Corte, a tale ultimo riguardo, evidenzia che fin
dall’inizio della registrazione in esame gli interroganti danno per già
accertata la falsità dello stesso e ciò nonostante il suddetto brigadiere
sostenesse che il servizio esterno fosse stato fatto, anche se per deduzioni
e con riguardo alle modalità e abitudini di espletamento del servizio in quel
periodo, in particolare con riferimento al sopralluogo a Colfelice e all’invito
in caserma a Renzi; e che dal verbale non risultano tali titubanze, come se
il medesimo Tuzi avesse dichiarato con certezza che lui e il maresciallo
Quatrale, dopo essere rientrati alle 8.30 per aprire la caserma fossero
rimasti ivi tutta la mattinata, in contrasto con l’ordine di servizio di quella
14
mattina nella parte in cui si attesta che dalle ore 11 alle ore 13.30 gli
operanti Quatrale e Tuzi sarebbero usciti di servizio esterno (con
annotazioni manoscritte da Quatrale circa gli atti compiuti e gli orari degli
stessi).
Al fine di rafforzare la motivazione di primo grado la Corte di assise di
appello aggiunge che dall’istruzione svolta in grado di appello «non sono
emersi elementi certi in grado di supportare la tesi della falsità dell’ordine
di servizio a scapito dell’ipotesi di irregolarità dell’atto e di pasticciate,
imprecise e maldestre annotazioni nei fogli in cui doveva darsi atto delle
attività svolte dai due militari» (p. 11).
A p. 19, tuttavia, dopo avere asserito che le discrasie nelle
dichiarazioni di Quatrale, esaminato al riguardo, potrebbero dipendere dal
lungo tempo trascorso dai fatti e che i testi sentiti sul punto non avrebbero
potuto ricordare a distanza di tanti anni «vicende alquanto banali», la Corte
di secondo grado scrive che «occorre dare atto che il P.m. e i Difensori
delle parti civili, anche attraverso il lungo esame (protrattosi per quasi due
udienze del dibattimento di primo grado, quelle del 29 aprile e del 6 maggio
2022) dell’imputato Quatrale, hanno fatto emergere incongruenze e
contraddizioni, per cui l’ipotesi della falsità dell’ordine di servizio – o per
essere più precisi, di una parte di esso – non è peregrina», avendo il
suddetto ammesso, ad esempio, il mancato controllo dello stabilimento
Molinari e l’errata indicazione degli orari di alcune attività.
Manca del tutto una valutazione complessiva e comprensibile
dell’indizio, non specificando la Corte a quale tesi aderisca e in particolare
se a quella della falsità (quantomeno parziale) dell’ordine di servizio ovvero
dell’irregolarità e imprecisione dell’atto. E omettendo, altresì, di motivare
sulle dichiarazioni di testi (Renzi, Lancia e Simone Pasquale; i primi due
hanno riferito di avere ricevuto in caserma quella mattina la notifica degli
atti tra le 12 e le 12.30, mentre il terzo ha dichiarato di essere stato
accompagnato da un militare in tarda mattinata e sicuramente dopo le
11.07, orario della sua telefonata in caserma, nell’ufficio del maresciallo
Mottola per il rilascio del permesso provvisorio di circolazione) incompatibili
con la veridicità dell’ordine di servizio e sui tabulati telefonici documentanti
la presenza di Tuzi in caserma alle ore 12.19, e, quindi, sugli elementi
richiamati dall’appellante Procura generale.
Il tema della falsità dell’ordine di servizio è strettamente legato a
quello dell’attendibilità del brigadiere Tuzi, in particolare con riguardo
all’oggetto centrale delle sue dichiarazioni e cioè la rivelazione agli
15
inquirenti di avere visto entrare in caserma Serena Mollicone la mattina del
1° giugno 2001 alle ore 11-11.30, mentre era di piantone, e di non averla
più vista uscire.
La Corte di assise di appello a tale riguardo rileva che la prima Corte
ha svolto una serie di riflessioni sull’attendibilità di Tuzi non efficacemente
contrastate dall’appellante Procura, che anzi conferma, nell’atto di appello,
che nel corso dell’escussione stavano emergendo indizi a carico del
dichiarante per un delitto di favoreggiamento protrattosi per quasi sette
anni. Aggiunge la Corte di secondo grado che si stava delineando una
responsabilità per un delitto di falsità in atti (con riferimento all’ordine di
servizio di quel giorno) e una potenziale incriminazione per concorso,
almeno nella forma omissiva, nel delitto di omicidio. Rileva che, pertanto,
si pone il problema della valenza dimostrativa di dichiarazioni rese da una
persona in minorate condizioni di lucidità, serenità e freddezza, con la
comprensibile tentazione di riferire fatti e circostanze in maniera tale da
allontanare lo spettro di un suo pericoloso coinvolgimento giudiziario nella
v i c e n d a .
A p. 13 la Corte, dopo avere notato alcune incongruenze nelle
dichiarazioni rese agli inquirenti da Tuzi il 28 marzo 2008, e avere
evidenziato che il suddetto nella prima parte delle successive dichiarazioni
del 9 aprile 2008 aveva immotivatamente ritrattato, sottolinea che il
brigadiere (ritrattando la ritrattazione) ha ribadito di avere visto Serena
Mollicone entrare in caserma la mattina del 1° giugno 2001, rettificando in
tali ultime dichiarazioni alcune incongruenze, in particolare precisando che
il maresciallo Mottola era rientrato intorno alle ore 10 da Frosinone e che
egli aveva osservato l’ingresso della ragazza sia dal monitor che dalla
finestra (avendo avuto modo di vedere il colore dei vestiti indossati da
Serena), e così fornendo agli inquirenti un tassello rilevante per la
ricostruzione della vicenda, un contributo al quale non può negarsi
intrinseca attendibilità.
E tuttavia non può fare a meno di rilevare che il 18 febbraio 2015
(quindi, ben prima dello svolgimento delle consulenze tecniche di cui si
dirà) la Procura presso il Tribunale di Cassino aveva chiesto l’archiviazione
del procedimento riguardante i Mottola perché «riteneva probabile, ma non
certo, il fatto che Serena si fosse portata in caserma». Con l’effetto di
contraddire l’osservazione immediatamente precedente di i n t r i n s e c a
attendibilità di Tuzi e di lasciare incerto non l’indizio in sé ma la stessa
valutazione che ne fa il giudice.
16
Sottolinea, sempre la Corte di secondo grado che l’ingresso nella
caserma di Arce integra, infatti, l’elemento più importante del percorso
logico argomentativo dell’ipotesi accusatoria, ma non fornisce la prova
diretta dell’omicidio di Serena Mollicone ad opera degli odierni imputati; e
che le dichiarazioni delle altre persone indicate dalla Procura di Cassino
ruotano sulle affermazioni dell’unico teste, ossia Tuzi.
A tale riguardo evidenzia che: – l’appuntato Suprano, nel corso della
sua audizione quale persona informata sui fatti, in data 13 maggio 2016,
ha riferito di essersi recato, dopo le prime dichiarazioni rilasciate da Tuzi,
alla Stazione dei carabinieri di Fontana Liri e di avere sentito Tuzi parlare
nell’ufficio del piantone con il maresciallo Tersigni, comandante di detta
Stazione, dirgli che aveva dichiarato di avere visto una ragazza entrare in
caserma ad Arce la mattina del 1° giugno 2001, il suddetto Maresciallo
replicare che dalla descrizione degli abiti fattagli da Tuzi poteva proprio
trattarsi di Serena, infine, Tuzi confermare a Suprano di avere visto una
ragazza mentre entrava in caserma, ma di non avere detto che si trattava
di Serena, per non continuare con lui quel discorso; – la testimone Sonia
Da Fonseca ha affermato di avere ricevuto la confidenza di Anna Torriero,
che, invece, ha negato di avergliela fatta (dicendo di avere visto Serena in
caserma, ma non il giorno indicato dalla teste de relato), di avere visto la
mattina della scomparsa della ragazza, allorquando era andata a portare
un panino e una scheda telefonica a Santino Tuzi, Serena in caserma.
La Corte territoriale, senza vagliare l’attendibilità dell’una e dell’altra
teste per cercare di accertare cosa effettivamente la Torriero sapesse, né
motivare le ragioni per cui non si è creduto alla Da Fonseca che ha attribuito
alla Torriero di volere nascondere agli inquirenti quanto sapeva e aveva a
lei già raccontato, rileva che il brigadiere Tuzi non ha mai menzionato di
avere condiviso con altre persone la percezione dell’accadimento; e che,
tra l’altro, se nel racconto di Tuzi il passaggio di Serena è durato pochi
secondi ed è avvenuto senza alcuna sosta nella sala di aspetto o in altri
locali della caserma, è estremamente improbabile che la Torriero abbia
visto la ragazza. Non risponde, quindi, ai rilievi della Procura generale, in
cui si e v i d e n z i a v a c o m e le dichiarazioni della Da F o n s e c a t r o v a s s e r o
conferma nelle dichiarazioni dibattimentali dell’appuntato Venticinque e in
intercettazioni di una conversazione ambientale e telefonica tra i due. Anzi
rigetta la richiesta di acquisizione di dette intercettazioni, formulata
all’esito della deposizione della Da Fonseca e reiterata durante la
testimonianza dell’appuntato Venticinque, con motivazione assolutamente
17
contraddittoria e pertanto apparente, in quanto, da un lato, afferma che
trattasi di acquisizione non assolutamente necessaria e, dall’altro, non
consente di sentire il teste di P.g. sul loro contenuto, perché la prova
sarebbe consistente in dichiarazioni riversate in i n t e r c e t t a z i o n i
regolarmente autorizzate, ma non acquisite.
Detta Corte, poi, non può fare a meno di osservare che dalla
telefonata del 28 marzo 2008 tra Tuzi e la Torriero, su cui fa leva la Procura
appellante, e dai riferimenti in essa contenuti alle manette e a quella
ragazza, emerge che la Torriero sapesse, pur concludendo col ritenere,
all’esito dei due dibattimenti, sfumati i contorni delle confidenze ricevute
da Tuzi, e così trascurando che la Da Fonseca abbia riferito di un
avvistamento diretto da parte della Torriero e non de relato da Tuzi.
Inoltre, non può fare a meno di rilevare che Massimiliano Gemma, dopo
avere dichiarato di avere appreso dalla Torriero che quest’ultima aveva
visto la ragazza in caserma, ha finito per assecondare l’atteggiamento
ritrattatorio della compagna. E di sottolineare che una significativa
conferma dichiarativa proviene dalla testimonianza di Marco Malnati, amico
e compagno di pesca di Santino Tuzi, che solo in secondo grado ha riferito
che questi gli aveva detto di avere visto Serena entrare in caserma il giorno
della scomparsa e non uscirne più e ha detto di non averne parlato prima
perché temeva per la sua incolumità e anche per la sicurezza della figlia,
allora m i n o r e n n e .
Su quest’ultimo punto, però, la Corte, inspiegabilmente, osserva che
la paura prospettata da Malnati «è un’ipotesi plausibile, e umanamente
comprensibile», ma che la scelta di non rivelare prima quanto appreso da
Tuzi da parte del medesimo, pur non convinto affatto che questi si fosse
suicidato ma ritenendo che gli avessero tappato la bocca per sapere troppe
cose sul caso Mollicone, «è stata una scelta in grado di incrinare l’efficacia
probatoria del contributo del testimone”.
La sentenza in esame, pur ritenendo plausibile la giustificazione resa
dal teste sulla sua precedente reticenza, non spiega perché non gli si crede
quando decide di dire quello che sa e che riferisce in dibattimento,
sottoponendosi ad esame e controesame delle parti.
Inoltre, afferma che nessun apporto decisivo avrebbe potuto dare la
testimonianza del maresciallo Tersigni – non ammessa né in primo né in
secondo grado – in merito alle confidenze ricevute da Tuzi successivamente
alle audizioni di quest’ultimo quale persona informata. E lo fa, ancora una
volta, sulla base di una motivazione apparente, limitandosi la Corte
18
territoriale a c o n f e r m a r e le c o n s i d e r a z i o n i in f a t t o e in diritto s v o l t e dalle
due Corti nelle rispettive ordinanze di rigetto della richiesta di audizione
del testimone, aggiungendo che il resoconto di Tuzi al comandante della
Stazione in cui prestava servizio, con giurisdizione sul luogo del
ritrovamento del cadavere, non sarebbe equiparabile ad una chiacchierata
al bar tra amici. Senza spiegare, però, perché quanto riferito dal suddetto
a persona disinteressata e di cui non aveva timore, come Tersigni, che non
stava svolgendo le indagini sul caso, come tenuto presente dalla stessa
Corte territoriale (laddove riferisce che, se il suddetto maresciallo fosse
venuto a conoscenza di particolari inediti, avrebbe dovuto spingere Tuzi a
rendere nuove dichiarazioni agli inquirenti), non influirebbe sul giudizio di
attendibilità dell’avvistamento di Serena in caserma, e perché, quindi, non
sarebbe non solo rilevante ma necessaria la deposizione sollecitata.
E conclude osservando che, «pur con i margini di incertezza circa il
valore dimostrativo, l’attendibilità e la credibilità delle dichiarazioni di Tuzi
e dei testi “de relato”, non può negarsi la gravità dell’indizio costituito
dall’avvistamento di Serena mentre fa ingresso in caserma nel corso della
mattinata del 1° giugno 2001, pur non potendosi tenere in completo non
cale la serie di avvistamenti – ritenuti per varie, ma non decisive, ragioni
inattendibili – di Serena in luoghi e orari incompatibili con l’ipotizzato
ingresso in caserma.
L’indizio, al pari di quello precedentemente analizzato, è giudicato
grave, ma subito dopo lo si mette in dubbio, diventando, ancora una volta,
incomprensibile e, quindi, apparente la valutazione finale della Corte
territoriale al riguardo.
La Corte di assise di appello evidenzia che anche sul servizio
consorziato svolto dalle 23 del 1° giugno 2001 alle 5 del mattino successivo
da Tuzi e dall’appuntato Cuomo il contributo dichiarativo del primo è
irrilevante, in quanto lo stesso, neanche dopo l’estemporaneo confronto
avvenuto nella notte tra il 28 e il 29 marzo 2008 conferma il particolare
dell’avvistamento, da parte di Cuomo, del rientro in caserma del
maresciallo Mottola e della moglie Anna Maria a bordo dell’autovettura
privata del primo (secondo l’ipotesi accusatoria, invero, gli imputati
sarebbero tornati a casa, nel proprio alloggio all’interno della caserma,
dopo avere trasportato e occultato il cadavere della ragazza). Rileva che il
suddetto brigadiere si limita, come emergente dalla registrazione delle
sommarie informazioni testimoniali del 28 marzo 2008 e dall’integrale
trascrizione della stessa, confusamente ad assecondare l’ipotesi che ciò
19
possa essere avvenuto e che la sua conferma «è priva di un oggetto
definito particolareggiato, per cui è difficile affermare che anche Tuzi abbia
avvistato il Maresciallo e la moglie rientrare in caserma». Non spiega –
incorrendo ancora una volta nell’apparenza e / o assenza motivazionale –
che cosa di preciso avesse riferito Cuomo e per quale motivo non si potesse
r i t e n e r e c o n f e r m a t o d a Tuzi.
La Corte territoriale, peraltro, ai fini della valutazione dell’attendibilità
del brigadiere Tuzi, come evidenziato dalla Procura ricorrente, non ha
tenuto in alcun conto e anzi n e m m e n o riportato la testimonianza di
Carmine Belli sul suo incontro con il suddetto al momento della sua
scarcerazione a seguito dell’assoluzione dall’accusa di omicidio a lui
inizialmente contestata. Belli ha, invero, riferito che, nel rientrare a casa,
ha trovato Santino Tuzi ad aspettarlo e che il brigadiere lo avvicinava, lo
abbracciava e gli chiedeva scusa. Comportamento del tutto plausibilmente
compatibile col fatto che lo stesso si sentisse in colpa per avere omesso di
d i r e s u b i t o q u a n t o s a p e v a .
Anche con riguardo alla valutazione delle prove scientifiche acquisite
nel presente processo la motivazione della sentenza impugnata è
apparente.
Va premesso che: – il giudice di merito può fare legittimamente
propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una
piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta
e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha ritenuto di non
dover seguire; – il giudice di appello deve controllare tale adempimento
sulla base dei rilievi dell’impugnazione; – quando il ricorso per cassazione
è ammesso soltanto per violazione di legge, come nel caso in esame, il
vizio di travisamento della prova (anche quindi scientifica) per omissione
ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc, pen. è estraneo al
procedimento di legittimità, a meno che il travisamento non abbia investito
plurime circostanze decisive totalmente ignorate ovvero ricostruite dai
giudici di merito in modo talmente erroneo da trasfondersi in una
motivazione apparente o inesistente, riconducibile alla violazione di legge
(Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, Pg c/Noviello, Rv. 279435).
Quanto a quest’ultimo profilo, vi deve essere, quindi, totale assenza di
confronto con i dati processuali tale da portare ad una ricostruzione
talmente erronea delle conclusioni scientifiche da trasfondersi in una
m o t i v a z i o n e a p p a r e n t e .
20
E’ quanto accade nel caso di specie, in cui la Corte di assise di appello
si limita a condividere la motivazione di primo grado, omettendo, altresi,
di confrontarsi con gli argomenti dedotti dalla Procura generale in relazione
ai rilievi dei consulenti tecnici delle difese.
La sentenza in esame muove dal dato incontestato sia per l’accusa,
che per la difesa e le parti civili, che la morte di Serena Mollicone sia dovuta
a d asfissia m e c c a n i c a d a s o ff o c a z i o n e e s t e r n a d i r e t t a d o v u t a a l l ‘ o s t r u z i o n e
delle vie a e r e e in soggetto che aveva riportato un trauma cranico
produttivo di perdita di coscienza.
Rileva, però, che nell’impugnazione della Procura presso il Tribunale di
Cassino, che dà atto di ciò, vi è un’aspra critica al metodo di valutazione,
da parte della prima Corte, del compendio indiziario con particolare
riferimento alle risultanze tecnico-scientifiche, in relazione alle quali ci si
duole che sia stata omessa l’indicazione dell’iter logico per cui detta Corte
ha ritenuto di preferire la tesi della difesa rispetto a quella dell’accusa.
Ritiene detta critica per molti aspetti errata, rilevando che non vi è in
realtà su alcun argomento una preferenza della Corte di Cassino per la tesi
della difesa rispetto a quella dell’accusa.
Osserva a tale riguardo che il primo Giudice ha doverosamente posto
in rilievo gli argomenti logici e gli elementi tecnici in grado di incrinare le
certezze delle ricostruzioni proposte dal P.m. e dai Patroni delle parti civili,
in quei casi in cui dalle emergenze dell’istruzione dibattimentale era
possibile formulare ipotesi alternative.
Ripercorre le criticità evidenziate dalla sentenza di primo grado.
Sottolinea che nella sentenza di primo grado si legge che gli argomenti
delle consulenze tecniche sul tema della rottura della porta ampliano
notevolmente i margini di dubbio già insiti nei termini di carattere
probabilistico utilizzati dai consulenti tecnici del P.m. in relazione al fatto
che la lesione alla porta in sequestro sia stata prodotta dal versante sinistro
del cranio di Serena Mollicone.
Osserva che detta sentenza, dopo avere riportato le considerazioni
della dr.ssa Conticelli, autrice della prima autopsia, circa l’esclusione della
compatibilità tra le lesioni riportate dalla ragazza e l’urto contro una
superficie ampia e l’assenza di lesioni che in tale ipotesi si sarebbero dovute
produrre in specie sul padiglione auricolare, ha innanzitutto richiamato
l’opinione del prof. Bolino, secondo cui l’urto della testa della ragazza
contro la porta in sequestro avrebbe dovuto comportare la presenza sul
21
suo corpo di segni di afferramento e colluttazione che oggettivamente
m a n c a n o .
Sottolinea al riguardo la Corte territoriale che non solo la rilevata
esclusione dell’impatto con una superficie ampia è stata smentita da altre
consulenze, ma che l’osservazione in ultimo riportata non è
particolarmente significativa, perché potrebbe essersi verificata un’azione
repentina (senza alcuna colluttazione) in danno di una persona, come la
Mollicone, di peso modesto (circa 45 kg.) e indossante i vestiti, per cui
l’azione di “lancio” potrebbe non avere lasciato tracce visibili di
afferramento.
Osserva, inoltre, che anche la circostanza della ridotta altezza della
ragazza rispetto al punto di rottura della porta non sembra particolarmente
rilevante, perché ciascuno degli imputati avrebbe potuto, dato il modesto
peso della ragazza, scagliarne il corpo verso l’alto e farlo impattare a 154
cm. da terra (il centro della lesione della porta).
Ritiene, invece, di condividere le perplessità manifestate dalla prima
Corte sull’assenza di lesività accessorie a livello della spalla arto e/o
dell’emitorace sinistro, che avrebbe dovuto determinare l’urto del capo di
S e r e n a c o n t r o la p o r t a .
Ma non spiega perché, limitandosi a condividere il passaggio
argomentativo della sentenza impugnata senza motivare sugli argomenti
contrari valorizzati dalla Procura generale e ripercorsi dal ricorso, fondati
sui rilievi dei consulenti dell’accusa, prof.ssa Cattaneo e ing. Sala.
Si evidenziava, invero, che: – la prof.ssa Cattaneo ha mostrato (con
filmati) nel dibattimento di secondo grado che le dinamiche possibili di
impatto della testa su una superficie ampia come una parete o la porta
possono essere molteplici e che non necessariamente ne conseguono urti
di altre parti del corpo, come la spalla o l’emitorace (come, invece,
sostenuto dai professori Bolino e Potenza, consulenti della difesa, senza
confrontarsi con l’evidenza delle immagini prodotte dal consulente del
Pubblico ministero) potendo essere stata spinta Serena da dietro in avanti,
esercitando la spinta di sorpresa nella parte posteriore della testa e
sbattendola contro la porta; – la stessa professoressa ha spiegato che i
tessuti del padiglione auricolare sono prevalentemente cartilaginei e
scarsamente irrorati, ragione per cui possono non presentare alcun
ematoma anche nelle ipotesi in cui vi sia stato un urto diretto; – i consulenti
del Pubblico ministero (Cattaneo e Sala) hanno riprodotto, con una Tac, un
calco del c r a n i o della Mollicone e d u n o del foro e s i s t e n t e sulla p o r t a in
22
sequestro e hanno mostrato che i due calchi si incastrano perfettamente,
che la linea mediana del foro, dove lo stesso si infossa per circa 2 cm.,
corrisponde all’arcata zigomatica del cranio, e che il foro più profondo sulla
destra combacia con il punto in cui si trova l’arcata sopraccigliare, restando
fuori la mandibola dalla zona di impatto per la posizione inclinata che
evidentemente la testa di Serena ha assunto quando è stata spinta; – il
prof. Potenza, consulente della difesa, non ha preso in considerazione la
possibilità di un’inclinazione della testa verso sinistra, che è poi quella che
si nota dall’accostamento dei due calchi, del cranio e del buco della porta;
– questi, sentito per due volte in dibattimento in primo grado, ha ammesso
che la posizione ipotizzata dalla prof.ssa Cattaneo non si può escludere in
maniera assoluta, pur se da lui ritenuta residuale; – Serena Mollicone può
avere, pertanto, alla luce di detti accertamenti, sbattuto la testa contro la
porta ed essersi procurata le fratture del cranio e il trauma conseguente; –
si tratta di una possibile modalità del fatto, non smentita dalla mancanza
di lesioni sul resto del volto di Serena in corrispondenza dei margini del
foro sulla porta; – vi è piena compatibilità tra il foro della porta e la ferita
del sopracciglio, che si situa proprio in corrispondenza della parte destra
del foro e che può trovare spiegazione proprio nell’attrito tra l’arcata
sopraccigliare e il margine frastagliato del legno rotto.
Sulle risultanze della consulenza tecnica merceologica del RIS
(Casamassima, Della Guardia e Scatamacchia) la Corte di assise di appello
di Roma, pur premettendo che Casamassima, quale portavoce del collegio
di esperti che ha proceduto a detta consulenza, ha evidenziato all’udienza
dinanzi alla stessa che la Corte di primo grado non ha proprio parlato della
circostanza che sui nastri adesivi che avvolgevano il capo di Serena
Mollicone erano rinvenuti frammenti di legno, di legno e colla di resina
alchidica alla nitrocellulosa che componevano gli strati della porta rotta
dell’appartamento a locazione privata, si limita a richiamare le pagine della
sentenza di primo grado in cui si sarebbe dato conto del metodo e dei test
eseguiti e dei risultati conseguiti. E a spiegare che la Corte di assise di
Cassino ha mostrato gli aspetti di criticità sollevati dalla difesa e dai suoi
tecnici, senza peraltro preferire la tesi della stessa rispetto a quella
dell’accusa, ponendo l’accento sull’incapacità dei risultati scientifici di
supportare in termini di certezza i fatti descritti nei capi di imputazione,
mai negando comunque la compatibilità tra detti risultati e la ricostruzione
accusatoria. Senza, però, spiegare quale sarebbe la compatibilita e con
quali esiti, ma limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado,
i t
23
limitatasi, a propria volta, ad elencare i risultati delle consulenze di parte
e le contestazioni dei difensori, senza prendere posizione.
Rileva, invero, detta Corte che quella di primo grado, con riguardo ai
risultati della consulenza genetica, svolta dalla dott.ssa Elena Pilli all’epoca
in servizio presso la sezione biologia del RIS di Roma, sulle micro-tracce di
frammenti lignei rinvenuti sul nastro adesivo utilizzato per avvolgere il capo
di Serena Mollicone e sulla comparazione, con pari analisi genetico-
botanica, con il materiale di cui è costituita la porta in sequestro, che detta
consulenza ha di certo provato che i frammenti di legno rinvenuti sui nastri
adesivi nn. 11 e 13 non siano di origine naturale, essendo composti da una
miscela di legni, restando, però, incerto il valore probatorio della
sovrapponibilità al 90 % di sei frammenti con i campioni di confronto della
porta in sequestro, sia in termini assoluti considerato l’utilizzo massivo del
legno a livello industriale per la produzione di manufatti, sia in termini
relativi, considerato che gli esiti riportati contemplano anche frammenti per
i quali è stata ricavata una scarsa sovrapponibilità con i campioni di
c o n f r o n t o della porta.
La Corte a qua conclude per la condivisibilità di detti rilievi, affermando
apoditticamente che non sarebbero scalfiti né dagli argomenti degli
appellanti né dagli esiti dell’istruzione dibattimentale svoltasi in appello.
Neppure menziona, detta Corte, la presenza su uno dei nastri che
avvolgevano la testa della vittima di un frammento di vernice arrugginita
che i consulenti del RIS hanno trovato del tutto coincidente con un
pezzettino di vernice staccatosi dalla caldaia presente sul balcone della
stanza in cui si trovava la porta rotta (prima della sostituzione, di cui si dà
atto a p. 50 della sentenza di appello, con una integra dell’appartamento
in uso all’appuntato Francesco Suprano).
E ancora una volta non si confronta con le argomentazioni e i dati
p r o b a t o r i a d d o t t i dal P r o c u r a t o r e generale.
L’appellante, da un lato, faceva leva, con riguardo alla consulenza
merceologica, sulla valenza particolarmente significativa della presenza di
questo frammento di vernice, rinvenuto sul nastro adesivo che avvolgeva
il capo della vittima, unitamente alle micro-tracce chimicamente
indistinguibili dal legno, legno e colla animale e resina alchidica alla
nitrocellulosa componenti lo strato esterno di compensato della porta in
sequestro, quali elementi integranti, congiuntamente, un efficacissimo
indizio in capo a coloro che di quell’appartamento, da cui del tutto
verosimilmente provenivano entrambi i tipi di tracce, avevano la
24
disponibilità al momento del compimento del fatto. Dall’altro, con riguardo
alla consulenza genetica, evidenziava come le osservazioni della Corte di
assise di Cassino sull’insufficienza degli esiti di detto elaborato,
asseritamente documentante una corrispondenza al massimo pari solo del
90% con il materiale della porta, fossero frutto di un errore tecnico di
interpretazione del dato, risultando piuttosto molto significativo che la
maggioranza delle tracce abbia in comune con la porta un gran numero di
s e q u e n z e e c h e a l c u n e t r a c c e p r e s e n t i n o q u a s i e s c l u s i v a m e n t e s e q u e n z e
presenti nella porta (risultando esservi – come da tabelle allegate
all’elaborato – ben sei tracce in cui più dell’89% delle sequenze si ritrovano
tutte nella porta e, di queste, quattro in cui la percentuale sale ad oltre
93% e due che superano il 96%; inoltre, altre cinque tracce che forniscono
discreti elementi di supporto all’ipotesi di riconducibilità alla porta,
presentando una percentuale superiore al 5 3 % anche se solo per un
marcatore, di cui quattro superano il 60% ed una raggiunge il 93%).
A tali argomenti la Corte territoriale non risponde, osservando che
anche le discipline dotate di maggiore scientificità incontrano limiti
intrinseci di efficacia ai fini dell’integrale conoscenza degli accadimenti e
che in questo caso esse hanno anche incontrato il limite estrinseco della
distanza temporale dai fatti. Ancora una volta incorre nell’assenza e/o
apparenza motivazionale, non specificando neppure quale aspetto delle
conclusioni t e c n i c h e a cui s o n o a d d i v e n u t i i c o n s u l e n t i d e l l ‘ a c c u s a sia s t a t o
ritenuto inficiato o, comunque, reso meno certo dalla lontananza temporale
dall’omicidio; e concludendo che «non c’è dubbio che nessuno degli esiti
degli accertamenti tecnici e degli esperimenti scientifici sia stato in grado
di smentire le ipotesi accusatorie» e che «anzi, alcuni elementi riescono a
corroborare la ricostruzione dei fatti contestati».
Dunque, gli esiti degli accertamenti tecnici della Procura sono ritenuti
compatibili con la ricostruzione dell’accusa e gli accertamenti tecnici di
controparte non in grado di smentirli, anzi a volte in grado di corroborarli.
Eppure si condivide l’asserzione della Corte di assise di Cassino secondo la
quale i consulenti della difesa avrebbero prospettato ipotesi alternative.
Anche sul punto vi è un’assoluta incoerenza nel ricostruire l’argomento
posto a fondamento della motivazione.
La Corte a qua passa poi alla valutazione delle dichiarazioni rese dagli
imputati Anna Maria Mottola e Marco Mottola nel corso dell’esame cui si
sono sottoposti, rispettivamente il 13 e l’11 maggio 2022, e delle
25
dichiarazioni spontanee rese da Franco Mottola all’udienza del 18 maggio
2022.
Anche in relazione a d e t t a valutazione la motivazione incorre ancora
una volta nell’apparenza.
In particolare, in relazione all’esame di Anna Maria Mottola la Corte,
da un lato, ritiene che il mendacio dell’imputata in merito all’apertura dei
cancelli della caserma e alla possibilità di un’apertura diretta dall’alloggio
tramite citofono (stigmatizzato dalla Procura appellante come volto a
screditare le dichiarazioni di Tuzi di avere ricevuto dall’alloggio del
comandante una chiamata tramite interfono per aprire il cancelletto
pedonale e fare salire la Mollicone nell’alloggio) possa essere, a venti anni
dall’abbandono dell’alloggio di servizio da parte della famiglia Mottola,
frutto di un ricordo fallace, dall’altro, ne constata la reticenza («meno
spiegabili appaiono le contraddizioni e le ignoranze palesate nella
descrizione, da parte dell’imputata, della vicenda della porta»), dall’altro
ancora, afferma di non potere censurare la Corte di assise di Cassino
laddove si rifiuta di attribuire credibilità alla teste Mirarchi, che, nell’ottica
della Procura, avrebbe dovuto smentire l’imputata, dimostrandone la
consapevolezza della rottura della porta fin dal 2002 (avendo la teste
riferito, come riportato nella sentenza di primo grado, di avere saputo a
quella data dalla Mottola del danno alla porta per un pugno di Franco,
arrabbiato con Marco), per essere confusa e imprecisa in relazione a un
elemento essenziale e, cioè, la collocazione della porta nell’alloggio dei
Mottola e non nell’alloggio sfitto. Anche sul punto la Corte territoriale non
prende posizione, non spiegando se crede ad Anna Maria Mottola (che
peraltro, come evidenziato dal ricorrente, non esclude di avere potuto
parlare della porta con la Mirarchi quando la donna si recava nell’alloggio
per aiutarla a stirare) quando afferma di non aver saputo alcunché sulla
porta danneggiata prima del 2008.
Rileva ancora la Corte di secondo grado, quanto al rientro della donna
in caserma con il marito nella notte tra l’1 e il 2 giugno quale passeggera
della Lancia K, negato dall’imputata e riferito, invece, dall’appuntato
Cuomo, che il racconto di quest’ultimo sarebbe sfornito di conferme
dichiarative e scarsamente compatibile con le risultanze dei tabulati
telefonici. Ancora una volta senza spiegare perché detto racconto
necessiterebbe di conferme dichiarative e perché sarebbe incompatibile
con dette risultanze.
26
Con riguardo alle dichiarazioni di Marco Mottola (sottopostosi, per un
accordo delle parti, prima all’esame dei suoi difensori, e poi, quando
doveva essere sottoposto alle domande del P.m., rifiutatosi di rispondere
alle stesse) la Corte territoriale, dopo avere rilevato che il suddetto ha reso
dichiarazioni simili a quelle della madre in ordine ai sistemi di apertura dei
cancelli della caserma e che, in relazione al tema della porta, non ha saputo
dare spiegazioni sul perché il padre avesse in un primo tempo attribuito a
lui la responsabilità della rottura, ritiene apprezzabile la diffusa
argomentazione con la quale la Procura appellante ha criticato le
valutazioni svolte sul punto dalla Corte di primo grado a proposito del
contrasto tra le dichiarazioni che vogliono la porta rotta ora da Marco ora
da Franco Mottola (laddove lo ha ritenuto difficilmente spiegabile come
«prova della loro responsabilità, ciò in particolare considerato come gli
stessi abbiano avuto a disposizione molto tempo, non solo per aggiustare
o cambiare la porta rotta citata, ma anche per concordare una comune
versione dei fatti da offrire all’A.G.»).
Osserva, inoltre, che la Pubblica accusa sottopone a critica serrata la
scorretta valutazione delle dichiarazioni spontanee del maresciallo Mottola
e delle sue condotte, relative rispettivamente ad un inverosimile racconto
sulla vicenda della porta e ad una rappresentazione di circostanze in
contrasto con le dichiarazioni di alcuni testimoni (in particolare la mancata
verbalizzazione delle dichiarazioni di Carmine Belli nel pomeriggio del 2
giugno e di quelle di Simonetta Bianchi di poco successive). E dopo avere
parlato di illazioni e forzature su alcuni aspetti, come la “lettura” della
richiesta di trasferimento di Mottola alla Stazione dei carabinieri di Ostia,
riconosce che nel complesso le dichiarazioni degli imputati Mottola sono
state tutt’altro che convincenti, essendo caratterizzate da incongruenze e
inverosimiglianze.
Tuttavia, afferma che la scelta di Franco Mottola di non rendere
l’esame costituisce un comportamento silente, ma non u n a c o n d o t t a
obliqua e fuorviante. Tralascia, però, le dichiarazioni spontanee (fuorvianti
per il ricorrente al pari delle reticenze e delle contraddizioni delle
dichiarazioni degli altri imputati) rese nel corso del dibattimento di primo
grado, nelle quali il suddetto ha sostenuto di avere rotto la porta per la
rabbia con un pugno all’esito di una lite con il figlio (contraddicendo,
peraltro, la moglie laddove ha affermato di averle riferito del pugno qualche
giorno dopo avere sostituito la porta) e, poi, ha specificato, alla fine del
dibattimento, che si era trattato di un pugno “di piatto”. E non si confronta
27
a tale riguardo con quanto evidenziato dalla memoria conclusiva depositata
in appello dal Procuratore generale circa le conclusioni cui è pervenuto l’ing.
Sala, all’esito di specifiche prove tecniche, sull’assoluta incompatibilità del
pugno di piatto riferito dall’imputato col foro della porta e, quindi, i
consulenti dell’accusa sulla “ottima compatibilità della testa, che risulta di
gran lunga maggiore rispetto al pugno” (dovendosi intendere tale
riferimento al “pugno di nocche” di Marco, oggetto, altresì, di prove
tecniche e di comparazione, compiute ancor prima delle dichiarazioni
spontanee del padre). Né si confronta con il lamentato travisamento di tali
risultanze da parte della prima Corte nel ritenere che l’ipotesi del danno
alla porta cagionato dal pugno sarebbe verosimile al pari di quella dell’urto
del cranio e che la forma del cranio sarebbe solo risultata maggiormente
c a l z a n t e .
Con riguardo alle dichiarazioni rese il 22 maggio 2002 alla P.g. da
Marco Mottola con riferimento alla sua eventuale presenza presso il bar
Chioppetelle il 1° giugno 2001 con la sua fidanzata dell’epoca Laura Ricci
piuttosto che con Serena Mollicone come da avvistamento, ritiene la Corte
che non possa affermarsi che il suddetto abbia fornito un falso alibi, pur
dando atto la stessa Corte che a quella data la Ricci non era ancora sua
fidanzata e che i due non potevano essersi recati assieme a quel bar,
avendo la suddetta dichiarato di trovarsi a scuola quella mattina, e,
dunque, ritenendo che l’imputato avesse mentito alla P.g. L’alibi falso
viene, quindi, escluso sulla base della mera interpretazione che, all’epoca,
la Ricci diede alla telefonata di Marco, che la avvertì subito dopo avere reso
dichiarazioni che la coinvolgevano, come “carineria” nei suoi confronti per
non farla preoccupare per la possibile convocazione in questura.
La Corte territoriale, però, trascura, da un lato, come evidenziato dalla
Procura generale ricorrente, che in dibattimento la Ricci abbia detto di
essersi resa conto che Marco aveva voluto approfittare di lei che sarebbe
stata certamente disposta a confermare, in quanto non avrebbe avuto altri
motivi per metterla in mezzo. E, dall’altro, non spiega perché Marco abbia
mentito coscientemente alla P.g. su questa circostanza, se non perché
sapeva che essa poteva indirizzare su di lui i sospetti, premurandosi di
avvertire la Ricci c h e la a v r e b b e r o sentita c o m e testimone.
Con riferimento, poi, ai comportamenti tenuti dal maresciallo Mottola
prima e fuori della sede processuale lamentati come veri e propri atti di
depistaggio, la Corte territoriale afferma che rimangono forti sospetti che
comportamenti decisamente irregolari (in primis le mancate
28
verbalizzazioni), stigmatizzati dalla Procura di Cassino e dai vertici
dell’Arma in vista del trasferimento del sottufficiale (nota del 18 giugno
2002 del Comandante provinciale di Frosinone), siano stati qualcosa di più
e di diverso di condotte professionalmente maldestre (come, invece,
ritenuto dalla Corte di Cassino).
Trattasi – come specificato nel ricorso – dei comportamenti tenuti dal
maresciallo dopo la scomparsa di Serena Mollicone e nel momento in cui,
quale comandante della Stazione dei carabinieri di Arce, aveva svolto le
prime indagini. Il suddetto, in particolare, risulta avere sentito
nell’immediatezza (il 2 giugno 2001, prima del ritrovamento del cadavere)
persone che dicevano di avere avvistato Serena al bar Chioppetelle, e
precisamente Simonetta Bianchi e Carmine Belli, senza verbalizzare le loro
dichiarazioni e/o riportandole, in maniera distorta, in un’informativa
redatta solo in data 27 giugno 2001 (prodotta dal P.m. all’udienza di primo
grado del 19 marzo 2021). Come specificato in ricorso, Belli è stato sentito
in un verbale di s.i.t. solo diversi giorni dopo, mentre la Bianchi è stata
sentita come persona informata sui fatti dopo il ritrovamento del cadavere
dal maresciallo Quatrale e ha riferito in quella sede che la ragazza vista il
pomeriggio davanti al bar non era Serena. Nell’informativa di cui sopra, il
maresciallo Mottola, invece, risulta avere scritto che la Bianchi gli aveva
detto di avere visto Serena davanti al bar il pomeriggio – e non la mattina
– del 1° giugno 2001, nonostante la stessa avesse detto a Quatrale di non
avere visto Serena. Inoltre, non si fa alcun accenno all’avvistamento al bar
Chioppetelle, da parte della Bianchi, di un ragazzo con i capelli mesciati,
che, poi, sarebbe salito su una Y10 bianca, con targa nera (che poteva
corrispondere a Marco Mottola).
Nonostante l’affermazione apparentemente inequivocabile sopra
riportata, in contrasto con quella del primo Giudice, la Corte territoriale
incoerentemente e, quindi, incomprensibilmente non deduce da tali
comportamenti alcuna valenza indiziaria.
Passando ad esaminare la vicenda dell’avvistamento di Marco Mottola
e Serena Mollicone nei pressi e/o all’interno del bar Chioppetelle la mattina
del 1° giugno 2001, la Corte territoriale, dopo avere evidenziato come
detta vicenda nella ricostruzione accusatoria assuma una valenza decisiva,
sia ai fini del movente sia quale antefatto della decisione di Serena di fare
ingresso in caserma (al fine di proseguire il litigio iniziato davanti al bar
con Marco e/o al fine di denunciare le condotte illecite del ragazzo e dei
suoi amici spacciatori), esprime considerazioni intrinsecamente incoerenti.
29
Invero, dopo avere esaminato le dichiarazioni rese da ultimo, come
testimone, di Carmine Belli, all’udienza del 16 maggio 2024, in cui il
suddetto ha riferito di avere visto litigare davanti al bar Chioppetelle con
un ragazzo dai capelli mesciati una ragazza che gli sembrava, sulla base
della fotografia mostratagli dalla nipote, Serena Mollicone, e avere
avanzato dubbi sia sulla certezza che si trattasse di Serena, data la fugacità
dell’avvistamento, sia sulla certezza che litigasse con Marco Mottola, di
venti centimetri più alto, mentre il testimone riferisce che i litiganti in piedi
sull’erba avevano la stessa altezza, la Corte territoriale rileva che la
testimonianza di Tommaselli, socio di Belli e persona che si sarebbe trovata
con lui al momento dell’avvistamento, pur dovendosi privilegiare, attesane
l’affidabilità, le dichiarazioni di Belli, facendo retroagire tale vicenda al 31
maggio 2001 «finisce per incrinare la certezza dell’avvistamento,
circostanza che, in uno con i dubbi sull’identità dei protagonisti del litigio
(soprattutto di quello maschile) determina una sensibile diminuzione dei
tassi di gravità e precisione dell’indizio». Quindi, pur ritenendo più
affidabile Bianchi, considera la testimonianza di Tommaselli in grado di
incidere sulla valenza indiziaria delle dichiarazioni del primo, quantomeno
circa l’avvistamento della Mollicone. Ancora una volta la Corte territoriale
non prende in considerazione le argomentazioni illustrate nella memoria
conclusiva del Procuratore generale (nella quale si fa, altresì, riferimento
alle deposizioni della nipote di Belli, Maria Pia Fraioli, e dei testi Bernardo
Belli e Salvatore Fraioli, questi ultimi due sentiti solo in secondo grado, di
conferma dell’attendibilità di Belli sia sull’identità della ragazza avvistata
sia sulla data dell’avvistamento).
Con riguardo, invece, alle dichiarazioni di Simonetta Bianchi, la Corte
a qua ritiene che la stessa in dibattimento non abbia fornito un contributo
dichiarativo rilevante, non potendosi, in presenza dell’indicazione di
un’altezza di quasi venti centimetri inferiore a quella dell’imputato, ritenere
che il ragazzo con capelli biondi mesciati indossante lo stesso
abbigliamento descritto da Elisa Santopadre quando aveva visto Marco alle
ore 12 del 1° giugno 2001, visto entrare nel bar dalla teste che ivi prestava
servizio, fosse Marco Mottola. Rileva, inoltre, che i particolari riferiti dalla
Bianchi nelle s.i.t. del 17.4.02, ossia che quando il ragazzo uscì dal bar con
una ragazza la stessa lo vide salire su una Y10 con targa a fondo scuro con
a bordo un altro ragazzo e un’altra ragazza, non sono rilevanti in quanto il
fatto che in auto ci potesse essere Serena Mollicone è una mera ipotesi
priva di riscontri e, considerata la distanza del bar da altri centri abitati
30
diversi da Arce, neanche l’unicità della vettura in detto comune appare
e l e m e n t o indiziante.
La Corte territoriale, dopo avere nelle pagine precedenti giustificato il
rigetto da essa compiuto della richiesta di acquisizione delle dichiarazioni
rese dalla Bianchi nel corso delle indagini preliminari ex art. 500, comma
4, cod. proc. pen., non senza avere elogiato le argute riflessioni e i puntuali
richiami della Procura di Cassino con riguardo a vicende in grado di
suscitare dubbi sull’atteggiamento di chiusura della testimone e perplessità
sulla sua reale perdita di memoria, a p. 37 rileva di non potere emendare
gli sbagli compiuti durante la fase delle indagini. A tale riguardo osserva
che in detta fase, dopo un riconoscimento fotografico nel quale la Bianchi
si dichiarava certa all’80% della corrispondenza tra il soggetto effigiato e
quello avvistato al bar Chioppetelle, si è proceduto ad un confronto tra la
suddetta e Marco Mottola, consistito in un’irrituale cognizione di persona,
nel quale quest’ultimo era posto al fianco di Simonetta Bianchi, generando
sentimenti di disagio e/o timore nella stessa, che non lo riconosceva e
successivamente non confermava il riconoscimento precedentemente
effettuato. E conclude che l’Accusa non può ora cercare di giustificare il
mancato riconoscimento e attribuire maggiore rilevanza all’individuazione
fotografica (all’80%).
Si tratta, ancora, una volta di motivazione apparente, non spiegando
la Corte territoriale perché debba ritenersi attendibile la Bianchi laddove, a
fronte di un precedente riconoscimento fotografico nei termini sopra
specificati, non riconosce l’imputato.
Inoltre, come evidenziato nel ricorso, la Corte di assise di appello
risulta avere totalmente trascurato altra fonte di prova assunta dinanzi a
sé per la prima volta e fatta oggetto di approfondita valutazione nella
memoria del Procuratore generale, la testimonianza di lommi, che ha
dichiarato che Marco Mottola era sua coetaneo e andava a farsi tagliare i
capelli da lui, che allora stava iniziando a lavorare nel negozio di famiglia,
aggiungendo che all’epoca lo stesso aveva i capelli mesciati e che,
immediatamente dopo il ritrovamento del cadavere di Serena e subito
prima del funerale, se li era fatti tagliare, dicendo che i genitori gli avevano
detto di far sparire le meches.
Con riferimento al movente del delitto, di cui all’ipotesi di accusa, la
Corte di assise di appello rileva che le vicende del traffico e del consumo di
sostanze stupefacenti nel gruppo in cui era inserito Marco Mottola e del suo
stile di vita spregiudicato hanno occupato un’apprezzabile parte
31
dell’istruzione dibattimentale, riferendo sul suo comportamento border-
line, tra gli altri, Michele Fioretti, Elisa Santopadre e Francesca Consiglio,
che hanno rammentato che Serena in più di un’occasione si era lamentata
del modo di fare di Marco e dei ragazzi del suo “giro”, come confermato dal
padre della ragazza, Guglielmo Mollicone, al quale la stessa avrebbe
manifestato analoga insofferenza un giorno a pranzo, poco tempo prima
della morte.
Aggiunge che altri litigi, oltre a quello ritenuto non accertato nei pressi
del bar Chioppetelle, sarebbero avvenuti nei giorni della festa di
Sant’Eleuterio presso il bar Ceccacci e in epoca imprecisata sulla salita che
porta alla nuova caserma e ad essi avrebbero assistito Giuseppe
D’Ammasso e Gianluca Polselli. Rileva che, però, la prima deposizione è
generica, oltre che contraddittoria rispetto alle s.i.t. rese nel 2001,
nell’immediatezza dei fatti; e che con riguardo alla seconda correttamente
la prima Corte ha osservato che si tratta di una testimonianza de relato
generica e non sufficientemente circostanziata, non risultando in alcun
modo specificato né il giorno né i toni e le modalità della citata discussione.
Osserva che, inoltre, a smentire il clima di litigiosità a ridosso del 1° giugno
2001 vi è la deposizione di Federica Di Palma, che ha dichiarato di avere
visto, il 29 maggio 2001, Serena vicina a Marco Mottola in atteggiamento
cordiale, nonché quella della Santopadre, che, pur avendo riferito delle
doglianze di Serena negli ultimi tempi in relazione all’atteggiamento
spavaldo di Marco, ha dichiarato di avere visto la ragazza, sempre il 29
maggio, tranquilla e sorridente.
Osserva che, a ben vedere, a parte l’incertezza sui motivi dei presunti
diverbi, manca la prova dei litigi stessi.
Nell’affermare, però, che la deposizione di D’Ammasso è generica, la
Corte omette di spiegare da quali punti della deposizione sia derivato tale
giudizio, avendo il teste detto di avere visto Marco Mottola discutere
animatamente con Serena Mollicone durante la festa di Sant’Eleuterio, che
cade gli ultimi giorni di maggio, quindi poco prima dell’omicidio, e avendo
lo stesso spiegato, nel dibattimento di secondo grado l’apparente
contraddizione con le s.i.t. del 2001, confermando che aveva visto la scena
nel 2001. Non viene detto nella sentenza in esame perché tale spiegazione
non sia stata considerata soddisfacente. E, pur dandosi atto dei possibili
motivi di litigio, non si spiega perché non siano stati ritenuti affidabili i
ricordi di chi ha visto discussioni tra i due ragazzi.
32
Inoltre, la Corte territoriale aggiunge – riportando alcune pagine
dell’atto di appello di Consuelo Mollicone – altri elementi a sostegno della
tesi della litigiosità e, precisamente, le dichiarazioni dibattimentali dei
familiari di Serena Mollicone circa il fatto che, durante un dibattito a scuola
sul tema giovani e droga, Serena aveva stigmatizzato i comportamenti di
Marco e Franco Mottola, avendo detto che non poteva esservi prevenzione
o controllo da parte delle forze dell’ordine dal momento che ad Arce era
proprio il figlio del maresciallo Mottola, Marco, ad essere tra i peggiori
spacciatori sotto il naso del padre e degli altri carabinieri, nonche le
dichiarazioni dibattimentali della zia di Serena, Armida, che ha riferito in
dibattimento che la nipote, in una delle ultime telefonate, le aveva
raccontato che in prossimità della festa di fine maggio il maresciallo Mottola
l’aveva rimproverata nei pressi dei giardinetti, perché si era lamentata del
comportamento di Marco Mottola.
Ciò nondimeno, parla di dati tutt’altro che certi, senza spiegare perché
non si ritengano tali, e ritiene plausibile o comunque non inverosimile
l’ipotesi che Serena avesse motivi di astio anche nei confronti del
maresciallo Mottola, per cui anche lo stesso, in caso di eventuale ingresso
della ragazza in caserma per chiarire i fatti, la mattina del 1° giugno 2001
«avrebbe potuto essere stato “aggredito” da quest’ultima e avrebbe potuto
reagire scagliandola con forza contro la porta». E finisce per sostenere
l’evanescenza del movente dell’omicidio in assenza della prova del
pregresso litigio, pur dichiarando di non annettere valore decisivo alla
mancata o insufficiente prova del movente, sulla base del costante
orientamento della giurisprudenza di legittimità. Ma sottolinea come nel
caso in esame il movente – sintetizzabile nella rabbiosa reazione di Marco
Mottola a un’aggressione (sembrerebbe verbale) di Serena – costituirebbe
l’elemento principale dell’individuazione del ragazzo quale autore del lancio
della vittima contro la porta; e come l’inconsistenza della prova di detto
movente determini l’incertezza su tale individuazione che è anche il primo
tassello della condotta omicidiaria e del coinvolgimento dei genitori; e
come, in assenza di prove sul pregresso litigio, non vi sarebbero elementi
per privilegiare l’ipotesi che Marco Mottola sia stato il responsabile di detto
lancio ed escludere che la ragazza si sia invece imbattuta nel maresciallo
Mottola, anche considerato che Tuzi ha riferito di non essere in grado di
stabilire se a chiedergli di aprire il cancello sia stato il figlio del maresciallo
Mottola o lo stesso sottufficiale.
33
Il ragionamento della Corte territoriale, ancora una volta, è
assolutamente incoerente e contraddittorio da ricadere nuovamente
nell’apparenza motivazionale, in quanto, pure a ritenere non grave e
preciso l’indizio sulla lite che sarebbe avvenuta al bar Chioppetelle tra
Marco e Serena, i dati analiticamente riportati e commentati dalla stessa
Corte rendono assolutamente plausibile la sussistenza di un forte motivo
di contrapposizione tra i due ragazzi.
2. Le evidenziate apparenze e/o inesistenze motivazionali, a cominciare dalle conclusioni sopra riportate e con riguardo anche alla
mancata assunzione della deposizione del maresciallo Tersigni e alla mancata acquisizione delle intercettazioni relative alla conversazione ambientale del 28 settembre 2008 e alla conversazione telefonica del 10
ottobre 2008 tra l’appuntato Venticinque e la Da Fonseca (di supporto alla verifica di attendibilità di Tuzi e di quest’ultima), impongono l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio rispettoso dei principi di diritto sopra menzionati ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma.
Il Giudice del rinvio dovrà poi, solo all’esito di un’effettiva valutazione del compendio indiziario, considerato sia con riguardo ai singoli indizi che nel complesso in conformità ai criteri di valutazione ex art. 192 cod. proc.
pen., eventualmente relazionarlo ai singoli imputati secondo le norme sul concorso di persone nel reato e l’interpretazione che ne offre la giurisprudenza di questa Corte.
Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese chieste dalle parti civili per il presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma.

Così deciso in Roma, l’11 marzo 2025.
Il Consigliere estensore
Gaetano Di Giuro

jeeverodifin CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Prima Sezione Penale
Depostata g’ & MAG: 2025%
Roma. li …….
Il Preside

#sapevatelo2025 

Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com
error: Contentuti protetti