La Lucania, fino agli inizi degli anni ’50, a causa della costante depressione socio- economica, del suo scarso grado di sviluppo, della persistenza di un’egemonia feudale-borghese, del carente sistema viario e della frammentarietà dei centri intellettuali innovativi, è stata una regione in cui più a lungo si è mantenuto inalterato il patrimonio magico-pagano ed anche cristiano popolare. L’avvento dello Stato Repubblicano portò alla rottura del pluricentenario isolamento, introducendo una nuova legislazione, nuovi istituti amministrativi, nuove strade, nuove modalità politiche, e inserì la Lucania nel mercato nazionale. Fattori determinanti furono anche l’arrivo della tecnologia, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e l’inurbamento. Questo processo di industrializzazione ha rotto le resistenze mentali tipiche delle comunità agrarie. La vita delle campagne ha subito un assalto secolarizzante violento, ineguale, traumatizzante, che ha ridotto e modificato i vecchi comportamenti, lasciando solo lo scheletro della religione popolare e della cultura tradizionale. È nata così un’omogeneizzazione di modelli di vita e pensiero a predominio neocapitalistico. La città di Potenza è da tempo in crisi. E crisi non dovrebbe essere una paro- laccia, se si accetta che rappresenta un processo di trasformazione e adattamento a nuove esigenze. Ma questa città vacilla sotto i colpi venefici della motorizzazione selvaggia, si è dilatata, spesso ingigantita, ma quasi mai con criterio. È cresciuta male. Una crisi che non sempre genera trasformazione, a volte solo confusione. Ma anche nella confusione si può trovare un varco per ripartire. L’espressione “quartiere dormitorio” qualifica, ormai da decenni, un’invenzione urbanistica tecnicamente e socialmente sventurata, an- che quando gli edifici, presi singolarmente, sono ben concepiti. Quartiere dormitorio è “città non città”. È qualcosa di appena migliore dei quartieri operai del boom industriale, una sorta di “riserva indiana urbana”. Ora Potenza tenta di ritrovarsi, anche se spesso stenta. È stretta fra permessi per residenti e isole pedonali. Ma in questa difficile riconquista urbana si intravede una volontà diffusa: quella di ricomporre un sistema in cui gli spazi pubblici, i parchi (Rossellino, Montereale, Villa del Prefetto, Santa Maria), il Pantano, lo sport (Palapergola, Palabasento), la cultura (Teatro F. Stabile), la passeggiata urbana (Via Pretoria, finalmente risistemata e recuperata dopo il sisma dell’80), tornino a offrire contatto, colloquio, comunicazione e conoscenza attiva. Quella che Paolo Portoghesi chiamava “solidarietà comunitaria”. La piazza non può più essere solo parcheggio. È la “camera di decompressione” dove la città respira e si sente abitata da una comunità. Lo diceva anche Alexander Mitscherlich, psicologo sociale tedesco: “L’individuo potrà preservare la sua identità solo se sono rafforzate le possibilità di coltivare costanti rapporti con gli altri”.Ma nella realtà urbana che costruiamo non sempre questa esigenza viene rispettata. Ecco allora che anche la Parata o Sfilata dei Turchi deve essere vista come un’occasione concreta per Potenza di ritrovare la propria identità culturale. Non solo folklore. Ma identità, radice, appartenenza. Un momento in cui la città si guarda, si ascolta e si riconosce. E si racconta. Non serve ricostruire tutto in chiave archeologica né in- ventarsi qualcosa di nuovo e astratto. Serve invece rigore nel racconto e apertura nella visione. Perché la tradizione non è un museo polveroso, ma una storia che si scrive ogni anno, con parole antiche e occhi nuovi. Le polemiche vivaci che ogni anno accompagnano questa manifestazione vanno lette come uno stimolo: per migliorare un evento, per recuperare una tradizione e trasmetterla con orgoglio ai posteri. Per renderla fruibile dal turismo locale, nazionale, per- sino internazionale. Mancano riferimenti stori- ci certi per datarne le origini. È una manifestazione popolare che si svolge la sera della vigilia dei festeggiamenti in onore di San Gerardo, patrono della città. Piacentino di nascita, fu vescovo della diocesi potentina dal 1111 al 1119. Secondo alcune fonti (Emanuele Viggiano, Memorie della città di Potenza), la parata rievoca l’incontro tra Ludovico re di Francia e Ruggiero II il Normanno. Secondo altri, celebra la vittoria nella Battaglia di Lepanto del 1571 o quella di Vienna del 1683. La mia opinione personale? La collocazione più plausibile è quella del 1571, tardo-cinquecentesca, legata a Lepanto. Fino al 1886, la festa si svolgeva il 12 maggio. Il calendario liturgico commemora San Gerardo il 30 ottobre, ma il maltempo in quel periodo ha portato a spostare i festeggiamenti al 29 maggio. E cosa va aggiornato, oggi? La Parata, o Sfilata, dei Turchi era ed è la parte più originale, brillante e simbolica della festa. Ha subito modifiche nel tempo, è vero. Ma la sua struttura narrativa, la nave, i turchi, i “braccia- li”, il carro trionfale del Santo, è rimasta il cuore leggendario della celebra- zione. Attorno a questi elementi si sviluppa il racconto collettivo di una comunità. A questo si aggiunge una figura che a volte viene sottovalutata: “Civuddin”, il condottiero turco, che sfila in carrozza con atteggiamento fiero e spavaldo. Ma che, lo sappiamo tutti, è il vero sconfitto. Quasi un personaggio tragico e teatrale, inconsapevole della sua caduta imminente. Un elemento potentissimo della narrazione simbolica, forse anche più della nave stessaQuando il sindaco Vito Santarsiero costituì un comitato tecnico-scientifico composto da studio- si, storici e professionisti qualificati, venne redatto un disciplinare che fissava le linee guida dell’evento. Non si stravolse nulla: si rafforzò l’impianto teatra- le e simbolico. E il pubblico rispose con entusiasmo. La manifestazione si elevò da rito popolare a evento culturale, suggestivo, potente, con potenzialità turistiche vere. Successivamente, come spesso accade nelle nostre città, la giunta comunale successiva stravolse tutto. Quel disciplinare fu cestinato, e oggi il cosiddetto “comitato tecnico-scientifico” è formato dai rappresentanti delle associazioni partecipanti. Una scelta che ha riportato la Parata nel campo della manifestazione locale, perdendo lo slancio per diventare un vero evento identitario e turistico. È per questo che pongo il dilemma: Parata o Sfilata? Perché dietro quel cambio di parola si nasconde una visione. E anche una sua scomparsa. A scanso di equivoci… e con un sorriso, amaro ma sincero lo so già: scrivendo queste righe sulla Parata dei Turchi, qualcuno, da dietro la tastiera o in fila dal barbiere, dirà: “Eh, ma quello è ami- co di Santarsiero!”. Perché qui, a Potenza, più che il merito, a contare è la genealogia del sospetto. Un’accusa del genere, dalle nostre parti, basta da so- la a squalificarti per direttissima, anche se stessi parlando di fisica quantistica o della ricetta dei cavatelli e fagioli. Sì, è vero: durante la sua amministrazione ho avuto spazio. Ma mica perché ci scambiavamo i santini elettorali al bar o andavamo a braccetto sotto i portici. Semplicemente perché faccio il mio lavoro con passione e competenza. E quando trovi un’amministrazione che non ha paura delle idee, ti senti meno inutile. Poi passano gli anni, cambiano i sindaci, e si torna a nascondere la testa sotto la sabbia o sopra la scrivania, dipende dalle stagioni. Il problema, lo dico senza astio, è che in questa città la meritocrazia è spesso considerata una leggenda metropolitana, alla pari dell’Uomo Falena, della Metro leggera o del passaggio a livello che si apre al primo tentativo. Se provi a proporre qualcosa che esca dal recinto del prevedibile, ti guardano con so- spetto: “Ma chi si crede di essere?”. Ecco, non mi credo nessuno, e forse proprio per questo continuo a scrivere. Perché se proprio devono etichettarti, meglio “amico di qualcuno” che “amico del nulla”. E poi, diciamolo: se l’alternativa è stare zitti per paura di essere fraintesi, allora tanto vale farsi fraintendere con stile. Magari pure con qualche idea in più. Perché, in fondo, ogni comunità si racconta anche attraverso le sue maschere, le sue parate, le sue sconfitte simboliche. E quando rinuncia a farlo con dignità e intelligenza, si rassegna a diventare un corteo senza anima, un carnevale fuori tempo massimo. Il dilemma allora non è solo tra Parata e Sfilata, ma tra memoria e amnesia, tra progetto e improvvisazione, tra dignità e folklore da discount. In questo bivio, dove si intrecciano storia, identità, cultura e sviluppo, ogni scelta pesa più di quanto sembri. Perché Potenza non ha bisogno di fuochi d’artificio, ma di visione. E forse anche di un po’ più di memoria. Poi certo, lo so: scrivere queste cose fa scattare subito l’allarme “Eccolo, il nostalgico dell’epoca Santarsiero!”. Ma rassegnatevi: a Potenza, anche dire che la città merita rispetto è diventato sospetto. Tan- to vale dirlo col sorriso: se davvero essere “amico di qualcuno” è un peccato ca- pitale, allora sono colpevole. Ma almeno ho la consolazione di non esse- re complice del nulla.

Dino Quaratino

Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com
error: Contentuti protetti