Una riflessione malinconica e lucida su Potenza e la sua sfilata del Santo, tra sacro e caricatura, marce trionfali e vuoti di senso. Il potere fertilizzante della luna alimenta la febbre della terra, che dalla Candelora ha già iniziato a spingere nuova linfa verso le radici. Non c’è attesa nella natura, solo ciclicità. È per questo che hanno spirito nel legno i laurii, i bassi, i salici. E nel fuoco, crepita e si contorce il sarmento, in un’aroma che profuma di resine e di divinità agresti, richiamate al crepuscolo dalle fiamme che ardono nei falò delle colline. È un legame antico, quello dell’albero col fuoco, con il rito della rigenerazione che attraversa i secoli. Nutre le zolle il potassio della cenere, come un’ultima benedizione lasciata dalla fiamma alla terra. In questo mondo si muove un boscaiolo, un mulattiere impastato di radici e peli, dall’aspetto rude e selvatico. In lui rivive la tradizione dei legnaiuoli e dei carbonai. Un uomo dei boschi che pare provenire da una leggenda contadina, scolpito nel tufo e nella pece, con lo sguardo di chi conosce il silenzio delle selve e il canto del fuoco. Dalla fine del Medioevo, e forse da prima ancora, queste figure tornano a vivere nelle feste, nei carnevali, nelle sfilate dei Turchi. Come reincarnazioni dei miti rurali e delle creature grottesche delle leggende. Chiodd Chiodd, U Muzz, Civuddine, Schiff, Trenta Canine, Zòca Zòca, Tézzone, Negùs, Tronc Tronc… nomi che paiono filastrocche infantili e invece sono maschere arcane, spiriti della terra e dell’uomo che la calpesta. È da lì che nasce il gioco delle maschere, dal rito più che dalla recita. Maschere che non sono invenzioni sceniche ma epifanie dell’oscuro, del caotico, del primitivo. Uomini dei boschi, demoni disperati e grotteschi, legati al lupo, al mulo e alle bestie notturne, incarnazioni di una ruralità ancestrale e irredimibile. Arroganti e vigliacchi, cafoni e scurrili, eppure così veri da sembrare mitologici. I Turchi sono i nostri Arlecchini, ma senza piume né paillette. Hanno la risata spaccata e brutale del contadino che ride della miseria e della morte. Sono il nostro teatro buffo: mezzo campagna e mezzo città. L’allegoria perfetta dell’omiciattolo che gesticola e saltella lungo il dorso della Jaccara, grottesco e ridicolo, ma misteriosamente essenziale. Intanto, nelle strade del centro, regna la confusione rituale. L’antico e il deprecabile si fondono con l’ammirevole e il pittoresco. La folla tumultuosa del contadiname, in abiti di velluto o in costumi sbiaditi dall’uso, suda odore di stalla, percalle e cipolla. Si riversa lungo la via Pretoria, fra risate sguaiate e sberleffi licenziosi, partecipe e protagonista di una sarabanda carica di turpiloquio e di esorcismo. I tamburelli scandiscono il caos, le trombe stridono, i fischietti urlano, i petardi esplodono. E poi il lamento malinconico e stonato di un suonatore ambulante accompagna il vociare. Intorno, si sentono le grida dei venditori: “andriti’!”, noccioline, castagne secche, prugne e carrube, olive, gassose, acciughe, peperoni sott’aceto. È una sinfonia di odori, sapori, rumori, eccessi. Tra le cortine di fumo acre che si alzano dai falò, si rifrangono sui muri i bagliori tremuli. E tra i fischi sfrontati dei trainieri alla “caprara”, arrivano i primi cavalieri, mescolando echi medievali e tentazioni barocche. Ogni cosa è confusa e pulsante. Ma dentro questo caos, c’è la memoria. Antica e recente. C’è chi riconosce nel disordine festoso i propri rioni, i borghi, la città che cambia e cresce. E ne è partecipe con tutto: con gli occhi, con le orecchie, con il naso, con il cuore. Diceva qualcuno che la primitiva vis formativa di una città è innata, e dipende dal suolo, dalla natura, dal clima, dalla latitudine. Ma poi, sono le tradizioni, i riti, le usanze, a costruire nel tempo l’anima di una comunità. Le sue storie, le sue maschere, le sue abitudini, il suo teatro. E allora le città diventano romanzi: fatti di colori ed epoche, di governi, monarchie e rivoluzioni, di parate militari e mercati, di fiere e fiaccolate, di processi pubblici e fuochi d’artificio. A Potenza, la sfilata, dei Turchi non è un evento. È un codice genetico. Ha i suoi motivi, i suoi contrappassi, il suo posticcio sobrio e simbolico. Rivive nelle cronache, nei poster sbiaditi, nei servizi televisivi della RAI, perfino in un francobollo. Non è folklore da cartolina: è mitologia popolare, con l’aiuto invisibile ma decisivo di un art director collettivo che è la città intera. Ora, le insegne si accendono. Le vetrine scintillano di luci calde, con scritte bianche e grosse. I bar, i caffè, le gioiellerie, le cattedrali moderne delle banche diffondono una luce rassicurante. Dai paesi, arrivano a grappoli i visitatori, trafelati e affamati di spettacolo, subito rassicurati dalle luci intermittenti, dai profumi familiari, dalle notizie che già conoscono: la temperatura, la partita, il film, il ristorante. Eppure, per chi non è del luogo, è ancora difficile capire come si va da Piano di Zucchero a Tiera di Vaglio, o dal Lavagnone al Due Torri, dai Supermercati ai negozi, di Lamorgese. C’erano tempi, non così lontani, in cui la città era buia. Niente insegne, nessuna luce al neon. I Turchi arrivavano su giumente stanche, con i bambini addormentati sulle coperte di lana. I negozi erano chiusi, le strade oscure, i lampioni radi e tremolanti. Nelle case scoppiettava la legna nei camini, e dal solaio pendevano lardo, pezzente, salsicce e capicollo. Il vento, come un narratore antico, bussava alle porte e scuoteva muri e tetti. È da questa continuità, da questo ritorno periodico dell’irrazionale e del popolare, che nasce l’autenticità. È da qui che si conserva il folklore, non come reliquia, ma come memoria viva e travolgente. La sfilata dei Turchi, con i suoi fumi, i suoi muli, i suoi suoni e odori, è un patrimonio collettivo. È l’anima del commercio, ma anche l’anima della città. È l’essenza della comunità che vuole ancora essere, riconoscersi, raccontarsi. E il Gran Turco, con la sua barba e il passo solenne, è solo il pretesto. Perché ogni carnevale, ogni rito, ogni sfilata, è in fondo un modo per dirsi: noi siamo ancora qui.
Dino Quaratino