Anche oggi, come nei precedenti capitoli di questa nostra rassegna tragicomica, ci addentriamo nei meandri della scena lucana con lo spirito dell’archeologo satirico e del cronista disincantato. L’obiettivo resta lo stesso: scavare tra le pieghe dei protagonisti, politici, istituzionali o semplicemente influenti, con la pala dell’ironia, il rastrello della memoria e la lente del sarcasmo ficcante. Oggi puntiamo i riflettori su altri quattro interpreti del nostro teatro pubblico. Con loro, come con tutti i protagonisti di questa saga, vale la solita regola aurea: raccontare con libertà, ironia e un pizzico di veleno poetico, ma senza mai scadere nell’insulto. E se qualcuno, tra i citati, dovesse sentirsi offeso, la risposta resta la stessa di sempre: si consoli, perché il vero pericolo non è finire su queste pagine, ma essere dimenticati del tutto.
Maurizio Bolognetti: L’ultimo giapponese sul Pollino
Ovvero: cronache di un digiuno lungo una vita (e mezzo fegato) In un mondo in cui i politici si ingozzano di visibilità, Maurizio Bolognetti sceglie di digiunare. Non metaforicamente: lui proprio non mangia. Beve a stento. Respira poco. Scrive molto. E protesta sempre. Un monaco guerriero più che un attivista, con lo stomaco vuoto e la testa piena. Di idee, di rabbia civile, di carte da protocollo e, diciamolo, anche di un certo gusto per la provocazione. Bolognetti è il tipo che se lo inviti a cena ti guarda male, perché non ha tempo per i carboidrati: ha troppe verità da svelare. Scioperi della fame, della sete, della pazienza. Ogni volta che la politica dorme, lui si sveglia. E per svegliarla, si autodissolve. A rate. Segretario dei Radicali Lucani, militante storico, scrittore con vena da autodafé. Denuncia, accusa, smaschera. E spesso ci azzecca, il che è il suo principale problema. Perché dire la verità in Basilicata, diciamocelo, è un po’ come raccontare barzellette in un convento di clausura: ti guardano strano e poi ti scomunicano. Figura mitologica, pare, più rara del Basilisco. Intanto lui, mentre la Regione nicchia, continua a fare da Garante morale, ufficioso e magrissimo. In compenso, la politica ha garantito a lui solo ricoveri d’urgenza, come quello di febbraio 2025, dopo l’ennesimo sciopero della fame. Ma anche lì niente panico: lui è uno che digerisce meglio le ingiustizie che un brodino. C’è chi lo vede come un visionario, chi come una zanzara sotto forma di uomo: insistente, inarrestabile, fastidioso, e soprattutto impossibile da ignorare. Quando attacca, non lo fa mai per convenienza. Ha polemizzato con tutti: politici, partiti, colleghi, santi e affini. Se la verità fosse un elettrodomestico, lui sarebbe l’unico a leggere il libretto d’istruzioni. E poi a dire che non funziona. Solidarietà? Ne ha ricevuta, pure dal Vescovo. E non è facile che un radicale e un prelato condividano qualcosa che non sia una polemica. Forse è rimasto l’unico in Basilicata a credere davvero che la politica debba servire a qualcosa. Forse è l’ultimo che lotta non per essere eletto, ma per essere ascoltato. Affamato sì, ma mai arreso.
Mario Polese: Il figlio del destino (con curriculum a doppia lievitazione)
Ovvero: l’ascesa zen di un consigliere sempreverde. In Basilicata ci sono i politici che passano, quelli che resistono, e poi c’è Mario Polese, che sembra nato con la fascia tricolore già addosso, cucita tra una versione di latino della madre e un’analisi di mercato del padre. Un concentrato di ambizione e savoir-faire, impastato in casa Polese-Nigri, dove la cultura classica si mescola alla contabilità bancaria, con un pizzico di Lions Club e una spruzzata di Panathlon a decorazione. Polese è l’uomo che ogni mamma vorrebbe per figlio e ogni partito per candidato: elegante, formato, istituzionale, e soprattutto onnipresente. A 31 anni coordina primarie vincenti, si candida, si elegge, si rieleva. Nel 2017 si prende pure la segreteria del PD lucano con una maggioranza bulgara: 73% dei voti, manco fosse la reincarnazione di De Gasperi con l’account TikTok. Poi la giravolta elegante: nel 2019 trasloca in Italia Viva, senza mai perdere l’aplomb. Dove c’è un centro, lì c’è Mario. Dove c’è un Renzi, lì c’è Polese a prendere appunti. Intanto, tra un selfie istituzionale e una stretta di mano lucidata a dovere, viene rieletto per la terza volta in Regione. Una continuità talmente stabile che l’INPS gli ha già fatto una targa onoraria per anzianità anticipata. Vicepresidente del Consiglio, Segretario di Commissione, membro di Task Force Covid. C’era anche lì, mentre gli altri cercavano gel disinfettante e mascherine: lui scriveva decreti e rilanciava l’economia, probabilmente da un tablet in modalità multitasking. Ha l’abilità innata di restare sempre in piedi, qualunque cosa accada intorno: crisi di governo, pandemie, scioglimenti di partiti, scossoni interni e tagli al caffè regionale. Lui è lì. Impeccabile. Ponderato. Pronto a firmare una mozione o a rilanciare un tweet. C’è chi lo accusa di essere troppo democristiano per i tempi moderni. Ma lui, in realtà, è post-democristiano: una versione aggiornata, senza polvere e con interfaccia socialfriendly. E mentre in Basilicata si litiga su tutto, lui costruisce ponti. Non infrastrutturali, sia chiaro: politici.
Simona Bonito: La consigliera che se c’è da fare, c’è già
E se non c’è, è perché sta già organizzando il prossimo evento sulla parità di genere da un’altra parte. Simona Bonito non ha bisogno di biglietti da visita: è sufficiente una stretta di mano, uno sguardo deciso e, nel dubbio, un regolamento sulla parità di trattamento stampato in borsa. Consigliera di Parità della Provincia di Potenza, è da più di vent’anni un’instancabile esperta di formazione, fondi europei, politiche di genere e tutte quelle cose che mandano in tilt i consiglieri con la passione per i selfie e la grammatica approssimativa. Simona vive nella rara zona grigia tra l’attivismo elegante e l’istituzionalità con i tacchi: non urla, ma incide; non minaccia, ma convince. Da anni gravita attorno all’associazione Letti di Sera, una costellazione culturale fatta di libri, incontri e festival, in cui Simona sembra avere un ruolo che oscilla tra collaboratrice di fiducia, anima del dibattito e presenza onnisciente che sa tutto prima degli altri ma fa finta di nulla. Non l’ha fondata, non la dirige, ma guai a pensare che lì dentro si muova una virgola senza che lei lo sappia. Al Festival La Notte Bianca del Libro c’è sempre: tra una presentazione e una chiacchiera col pubblico, riesce a infilare anche un workshop su stereotipi e leadership femminile.
Piera De Marca: La capocantiere della cultura santarsieriana (senza casco, ma con tripla firma)
Nel magico universo della cultura lucana ai tempi di Vito Santarsiero, presidente della Provincia per una legislatura e sindaco di Potenza per due, mentre lui agitava lo slogan “Potenza città cultura” come un messia del marketing territoriale, Piera De Marca era già lì. Non con la bandierina, ma con la cazzuola, il calendario degli eventi, il regolamento di contabilità, la planimetria e una pazienza da martire. Se Vito era il regista dell’opera, lei era l’intera troupe tecnica, con in più l’ansia da scadenza e la responsabilità della firma su ogni delibera. Durante la fase “provinciale” del duo, quando Santarsiero scoprì che anche la cultura poteva avere un suo fascino elettorale, Piera fu incaricata di rianimare il Museo Provinciale e, colpo di scena, di dare dignità culturale a un ex spazio abbandonato e polveroso, noto come il Covo degli Arditi. Un nome da film di guerra, ma trasformato dalla ditta Santarsiero & De Marca in un hub per mostre, installazioni, presentazioni di libri, e probabilmente anche per qualche improbabile aperitivo con patatine incartate nella Gazzetta Ufficiale. Il merito? Tutto suo. Il riconoscimento? Spesso solo per l’uomo col microfono. Poi arriva l’epoca comunale, la fase due del “santarsièresimo culturale”: la Galleria Civica, fortemente voluta dal Vito nazionale, diventa la nuova creatura da accudire. E chi poteva farlo se non Piera? Implacabile, invisibile, inossidabile. Gli artisti si perdevano in chiacchiere sulle correnti post-industriali, lei contava i pannelli, verificava la provenienza delle opere e faceva sì che anche l’arte concettuale avesse almeno un’uscita di sicurezza. Diciamolo: Piera De Marca non era una funzionaria. Era una macchina da guerra burocratica travestita da professionista discreta. Se Vito si accendeva in conferenza stampa, Piera spegneva gli incendi dietro le quinte. Un’artigiana della cultura pubblica, con il passo felpato e il manuale di rendicontazione nel cuore. E così si chiude anche questa tredicesima puntata della nostra cavalcata semiseria tra i volti e le voci della scena pubblica lucana. Come sempre, lo spirito che ci guida non è quello del giudice, ma del giullare di corte: osserva, racconta, sdrammatizza. E soprattutto sorride. A domani, sempre su queste pagine, sempre con lo stesso spirito: raccontare per non dimenticare, sorridere per non impazzire.
Dino Quaratino