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PIENA ED INCONDIZIONATA SOLIDARIETÀ A LILIANA SEGRE  

N. RGNR
N. R.G.G.I.P.

TRIBUNALE DI MILANO
Sezione Giudice per le indagini preliminari


ORDINANZA A SEGUITO DI OPPOSIZIONE A RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

– art. 409 c.p.p. –

Il giudice per le indagini preliminare, dott. Alberto Carboni, visti gli atti del procedimento penale indicato in epigrate, nei confronti di:
2.
7.
8.
9.
10.
11.
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13.
14.
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16.
17.
per il reato di cui:
595 comma 3 c.p. e 604 ter c.p., commessi in luoghi sconosciuti dal 13.10.2022 al 30.5.2024
nel quale è persona offesa dal reato:
SEGRE Liliana, nata a assistita dall’avv.
del foro di Milano

OSSERVA
Il procedimento riguarda 246 messaggi apparsi su internet che sono stati portati all’attenzione
dell’autorità giudiziaria con 27 querele presentate dalla senatrice Liliana Segre dal 6.12.2022 al 10.7.2024.
In relazione a tali commenti:
1. in alcuni casi si è proceduto separatamente con contestazione della relativa fattispecie di reato;
2. in alcuni casi si è arrivati all’identificazione dell’autore degli scritti, ma il pubblico ministero ha ritenuto di non procedere all’iscrizione considerando i messaggi pur offensivi, ma non diffamatori;
3. in alcuni casi sono state svolte attività volte a individuare gli autori dei post, ma la scarsa collaborazione offerta dagli Internet Service Providers non ha consentito di giungere ad alcun risultato;
4. in alcuni casi è stato possibile identificare gli autori dei post e i loro nominativi sono stati iscritti nel registro degli indagati.
Nelle pagine che seguono saranno esaminati in maniera schematica i commenti rispetto ai quali non è stato emesso avviso di conclusione indagini. Pare comunque opportuno svolgere alcune considerazioni di ordine generale alla base delle decisioni assunte.
Un primo tema riguarda la completezza delle indagini.
Come noto, gli Internet Service Providers che gestiscono i social media hanno sede all’estero e non ritengono di essere assoggettati alla disciplina comunitaria in tema di discovery e data retention dei files di log. Ciò nonostante, in molti casi sono stati emessi decreti di acquisizione di dati di traffico telematico ed è stata sollecitata la collaborazione degli ISP. Le risposte ottenute possono essere così sintetizzate:
– Facebook e Instagram hanno comunicato di aver assunto in carico le richieste e hanno risposto solo su base discrezionale;
• Google ha comunicato che il diritto dell’utente di avere opinioni e diffondere idee libere da interferenze dell’autorità pubblica prevale sul legittimo interesse delle Forze dell’Ordine nelle indagini;
– Twitter ha risposto su base discrezionale ritenendo di poter comunicare i dati in possesso, sia di registrazione sia di connessione, solo per alcuni degli account richiesti;
– Telegram non ha fornito alcuna risposta.
Da ultimo, come risulta dalla nota di PG del 10 aprile 2025, Facebook e Twitter hanno rifiutato di fornire i dati di cui ai decreti emessi nel gennaio 2025 e hanno chiesto che venga formulata una richiesta in via rogatoriale. Sebbene il tenore formale della risposta lasci intendere che la rogatoria sia una strada percorribile, è tuttavia noto che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti non dà seguito alle richieste di collaborazione per l’identificazione degli autori del reato di diffamazione. Secondo la normativa statunitense, infatti, la possibilità di esercizio dell’azione penale riguarda solo fatti configurabili come grave espressione di minaccia reale o come istigazione o proposito di azione illegale imminente. Al contrario, qualora le frasi incriminate abbiano solo contenuto offensivo e diffamatorio, vengono ritenute prevalenti la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa, garantite dal 1° emendamento della Costituzione americana. Di conseguenza, un’eventuale richiesta in tal senso non avrebbe possibilità di avere esito positivo e si risolverebbe in un’attività priva di utilità.
È quindi chiaro che non residuano realistici margini investigativi che implichino la collaborazione di ISP nei casi in cui questi abbiano già rifiutato l’ostensione dei dati a seguito del decreto emesso dall’autorità giudiziaria. In queste ipotesi, le sole attività che potrebbero essere svolte con profitto sono gli approfondimenti basati sulle informazioni personali pubblicate sui vari profili social. Come risulta dalle indagini svolte in relazione alle prime querele, nella maggior parte dei casi gli utenti facebook registrano il profilo con il proprio nome reale e inseriscono numerose informazioni personali.

La possibilità di identificare gli autori dei post è dunque realistica e devono essere ordinate nuove indagini nei casi in cui non viene dato atto che non sono stati svolti approfondimenti sui nomi dei profili e che queste verifiche hanno dato esito negativo. Sebbene le ricerche abbiano una minor possibilità di successo, le stesse devono essere svolte anche in relazione ai profili twitter e instagram in quanto non è infrequente che vengano pubblicate informazioni personali.
Non sembra che vi siano invece margini realistici di approfondimento per quanto riguarda i profili telegram.

Anticipando sin d’ora quanto meglio specificato in seguito, la quasi totalità dei casi si riferisce ai profili menzionati nell’informativa 24/19- 10 del 21.6.2023, la quale conclude con l’indicazione che verranno esperite le opportune ricerche su fonti aperte che potrebbero consentire l’individuazione degli autori dei fatti. Non sembra, tuttavia, che in atti vi sia l’indicazione (anche solo sintetica) dello svolgimento di queste indagini e dei relativi esiti.

In aggiunta a quanto detto, è necessario procedere con l’emissione di decreti di acquisizione dei dati del traffico telematico in relazione ai profili per i quali non risulta che questa attività sia stata fatta. Come visto, in alcuni casi gli ISP hanno risposto positivamente alle richieste dell’autorità giudiziaria e si rende quindi opportuno un tentativo in tal senso.

L’emissione dei decreti è invece superflua in relazione ai profili telegram, atteso che il gestore ha già manifestato in anticipo il rifiuto di qualsiasi forma di collaborazione.
In conclusione, in tutti i casi in cui i post hanno valenza diffamatoria è necessario:
1. che siano svolte ricerche sulle informazioni personali eventualmente presenti nei profili social;
2. che sia formalizzata la richiesta di acquisizione dei dati del traffico telematico.
Altro tema di carattere generale riguarda i numerosi post che accostano in vario modo la senatrice Segre al nazismo. Nella richiesta di archiviazione si sostiene che è frequente nel dibattito político l’utilizzo, per contrastare e stigmatizzare l’avversario politico, del termine “nazista”, ovviamente in un senso differente rispetto a quello proprio e storico.
Questa premessa è condivisibile nella sua valenza astratta, ma il ragionamento proposto non può invece essere calato nella peculiare vicenda in esame.

A ben vedere, infatti, accusare di nazismo una reduce dai campi di sterminio integra di per sé il reato di diffamazione sia nei casi in cui tale epiteto viene esternato in modo apodittico e non argomentato, sia quando esso si accompagna a riferimenti che richiamano con spregevole ironia la vita nei lagher

Espressioni simili non possono essere considerate forme di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile, sarebbe comunque legittimo nel dibattito democratico.
Esse costituiscono invece uno sfregio alla verità oggettiva e rappresentano la più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’olocausto.

Il tragico vissuto personale della senatrice Segre e l’incidenza che l’ideologia nazista ha avuto nella sua esistenza sono circostanze che erano ben conosciute agli autori dei post, i quali hanno accostato il termine nazista alla sua immagine proprio in ragione della speciale carica offensiva che ne sarebbe derivata.
Del resto, basti notare che nella maggior parte dei casi l’accusa di nazismo è stata veicolata mediante il richiamo a immagini o figure – come quella del kapò – che rievocano in maniera inqualificabile il passato della senatrice Segre al fine di strumentalizzarlo con chiari intenti denigratori.

Vi sono poi numerosi post che si risolvono in insulti gratuiti alla persona.
La circostanza che espressioni offensive siano state formulate sul web non caratterizza la vicenda in termini di minor disvalore.
Al contrario, il procedimento in esame conferma che l’estrema diffusività dello strumento informatico genera spirali di odio e violenza che sono alimentate proprio dalla inescusabile leggerezza con cui gli utenti si lasciano andare a commenti diffamatori.

Il numero impressionante di messaggi che si pongono ben oltre il limite più estremo della continenza non può determinare una sorta di assuefazione a un fenomeno che, invece, deve essere valutato secondo i consueti canoni di giudizio che regolano il confine fra diritto di critica e diritto all’onore.

Va quindi ribadito che il web non rappresenta un terreno franco dove ogni insulto è consentito e dove la reputazione degli individui può essere calpestata impunemente

Va ribadito che lo schermo di un computer non è una barriera che assicura l’anonimato e che la tastiera non è un’arma contro la quale non ci sono difese.

Va ribadito – come già dimostrano le indagini finora svolte – che lo Stato è presente e che è pronto ad andare fino in fondo per tutelare i diritti di chi invoca il suo intervento.

P.Q.M.

previa esecuzione delle necessarie separazioni,
ordina di formulare l’imputazione nei confronti di:|
ordina l’iscrizione di:
ordina che siano svolte nuove indagini (richiesta di acquisizione dati telematici, accertamenti OSINT e sui dati personali presenti nei profili social) volte a identificare
i seguenti profili social:

ordina l’archiviazione delle ulteriori posizioni.

Milano, 28 aprile 2025

Il giudice
Alberto Carboni

🔹

Liliana Segre
Milano 1930 – vivente
DI Daniela Padoan

Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.
Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo. Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine. «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte». Fu un sollievo, paradossalmente, sentire che ciò che li attendeva non era più nelle loro mani: il senso che la continua, angosciosa responsabilità del futuro fosse finita. Ora spettava ad altri decidere della loro vita. Era l’8 dicembre 1943. Dal comando di Selvetta di Viggiù, Liliana e Alberto Segre vennero trasferiti nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore, a Milano, in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei. Il 30 gennaio 1944, in una Milano indifferente, dove solo i carcerati si affacciarono alle finestre per un ultimo saluto commosso, i detenuti ebrei di San Vittore – più di seicento persone, tra cui quaranta bambini, inclusa Liliana – vennero caricati su una fila di camion coperti e condotti alla Stazione Centrale. «Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti, tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni» [1] .
Dopo una breve sosta nel campo di transito di Fossoli, il convoglio n. 6 – che viaggiava sotto la sigla RSHA del Reichssicherheitshauptamt, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – si mise in moto per destinazione ignota. Arrivò ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Dei 605 prigionieri ebrei, circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore. Al momento della selezione sulla rampa, mentre gli uomini venivano rapidamente divisi dalle donne, Liliana avrebbe sentito la mano del padre sciogliersi dalla sua; lo avrebbe visto allontanarsi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe conservato di lui. Selezionata per il lavoro schiavo, tatuata con il numero di matricola 75190, cominciava – nella ferita di una separazione impossibile, impensabile – la sua vita di tredicenne in un mondo di fango, di sopraffazione e morte. L’apprendistato della sopravvivenza fu per Liliana soprattutto estraniazione: non vedere, seguire il cammino dei propri zoccoli tra le baracche, senza mai acquisire l’orientamento. Una strategia radicale la guidava: ignorare con tutte le proprie forze quel mondo inaudito; scegliere una stella in cielo da ritrovare la notte, per avere un appiglio e un luogo al di fuori del filo spinato; non affezionarsi a nessuno, perché qualsiasi altra perdita sarebbe stata insopportabile. Eppure tutto sarebbe stato registrato, nella sua mente di bambina, come dal più sensibile dei sismografi, per essere sottoposto a scomposizione e interrogazione morale per il resto della vita. Quando, negli anni della prima maturità, avrebbe cercato di far sì che la sua esistenza riprendesse il corso della normalità, ormai moglie e madre di tre figli, i momenti in cui aveva scelto la vita sarebbero tornati a visitarla come domande poste da un tribunale interiore: aveva provato sollievo durante la selezione, quando non era stata scelta per il gas, mentre Janine, sua compagna di lavoro nella fabbrica di munizioni, veniva chiamata fuori dalla fila. Non si era nemmeno voltata a salutarla, felice di essere viva. Quella semplice, primaria felicità si cristallizzerà come un verdetto di colpa col quale fare i conti per il resto della vita: il rovello che sopravvivere abbia significato una caduta, una mancanza; che il male l’abbia macchiata. Così l’universo della sopraffazione, il mondo dove l’uomo ha eretto il male a misura e legge, diventa per Liliana il luogo del giudizio: anche su se stessa. Non che non le sia evidente la colpa dei carnefici e l’innocenza delle vittime: questa chiarezza in lei è addirittura un urlo. Ma sa che è necessario giudicare a ogni passo, se stessi e gli altri, benché essere uomini sia un continuo cadere. Si è molto scritto della filosofia dopo Auschwitz, della necessità del pensiero di incontrare l’enormità di ciò che è stato: Liliana è ai miei occhi il luogo filosofico di quell’incontro, un magma incandescente di pensiero eternamente arroventato dalla consapevolezza che “questo è stato”.
Per questo – ancora più che per la sua instancabile e feconda opera di memoria – è pienamente una testimone: nel suo risentimento, nel suo risentire senza remissione l’offesa portata a se stessa, a quelli che chiama “i miei santi martiri” e a tutte le vittime della Shoah, ha fatto di sé un luogo memoriale. Ed è pienamente una sopravvissuta, una figura segnata dal portare in sé il senso della sopravvivenza: vivere comunque, senza fare del male a nessuno, ma non lasciarsi uccidere. Vivere nonostante il dolore, l’incomprensione, e l’immenso, insanabile stupore. Vivere come scelta etica, come sopravvivenza dell’umano. Accogliendo giorno dopo giorno la necessità di addomesticare il ricordo e i suoi soprassalti, senza poter mai davvero trovar requie dall’enormità dell’esperienza; senza riparo dalla sofferenza che questa colpa, come scriveva Levi, sia stata irrevocabilmente introdotta nell’universo degli uomini.
Capace di improvvise risate, di fulminanti battute di spirito, di giudizi taglienti, di un’attenzione pronta a percepire ogni cambio di registro comunicativo, Liliana è un sismografo del presente, eppure i suoi occhi sembrano contenere il buio, la notte. «Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite» dice spesso, ma a guardare i suoi occhi fondi è come se le avesse percorse tutte: ha dovuto abbracciare e consolare la bambina che era e, una volta diventata madre e nonna – sconfiggendo orgogliosamente la perversa ideologia che avrebbe voluto cancellare dal mondo lei e la sua discendenza – accogliere in sé dapprima la figura del padre e poi quella dei nonni, in una progressiva maternità che cancella la distanza tra le generazioni. Come una necessità di farsi rifugio e difesa per tutte quelle figure della memoria, man mano che la rivisitazione dei ricordi prende altre stratificazioni di significati: lo scoramento del padre per non averla potuta proteggere diventa – ora che sa cosa significhi voler proteggere i propri figli – il suo stesso scoramento per non aver potuto salvare quella figura amata, morta a quarantaquattro anni, la stessa età del suo secondogenito; la fatica dei nonni nel salire il predellino del vagone bestiame – spinti e picchiati – risentita quasi nelle ossa man mano che le sue stesse movenze si fanno più caute; la solitudine di Janine, diventata nel tempo sorella e poi figlia, da riaccogliere e confortare ogni giorno in un abbraccio materno.
Ogni volta che racconta, Liliana deve scegliere parole che rendano per quanto possibile comunicabili le immagini di alcune tra le innumerevoli vittime alla cui sopraffazione ha dovuto assistere. Alcuni giorni prima che l’esercito sovietico entrasse ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, fu costretta dai soldati nazisti – insieme agli ottantamila internati ancora capaci di reggersi in piedi – a incamminarsi verso la Germania, in una marcia forzata che divenne nota come Marcia della morte, perché le strade innevate della Polonia erano disseminate dei cadaveri dei prigionieri che non avevano retto alla fame e al gelo, o che erano stati finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945. Quando tornò a Milano, della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno [2]. Questa moltitudine di vittime cancellate dal mondo abita Liliana e costituisce la sua sola etica e religione. Non ha necessità di una fede, di catechismi, di edificazioni morali: tutto ciò che rassicura i nostri passi nel mondo – i concetti di umanità, diritto, cultura, cullati nei secoli – si è dissolto davanti ai suoi occhi, eppure deve continuare a credere che essere uomini abbia un senso.
Per questo Liliana è inamovibile dal mare di buio che ha negli occhi. Lì è la sua misura, ed è una misura che porta ovunque, presentandosi come un convitato di pietra, difficile da eludere, perché Auschwitz non è un passato, un capitolo dei libri di storia: è il numero tatuato sul suo avambraccio, orgogliosamente mostrato come una cifra identitaria, divenuta scelta e destino. «Noi sopravvissuti siamo soprattutto il nostro numero. Prima del mio nome viene il mio numero: 75190. Perché non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io» [3].
Liliana sa che l’uomo è una costruzione fragile che va protetta e alimentata, e per questo affronta il dolore, la fatica della testimonianza, anno dopo anno, anche di fronte al sospetto della sua inutilità. Il suo narrare è diventato una fucina di metafore e di immagini. Ha continuato a esaminare, a scandagliare i concetti che esprime, a verificarne la solidità e l’efficacia, a mettere alla prova i ricordi anche nei più minuti dettagli, confrontandosi con quella che è diventata un’amica insostituibile, Goti Bauer, anch’essa deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944, che la convinse a testimoniare e la sostenne nei suoi primi racconti in pubblico. Da allora, Liliana Segre è diventata una testimone importantissima, amata, richiesta in tutte le scuole. L’autorevolezza della sua figura pubblica è stata riconosciuta dall’attribuzione di molte e prestigiose onorificenze, lauree e medaglie, che tuttavia su di lei fanno un effetto incongruo: come incoronare un’aquila, o un ermellino bianco, per usare l’immagine con cui una volta descrisse se stessa, ragazza, al ritorno da Auschwitz: grassa, gonfia (pesata dai soldati inglesi era poco più di trenta chili; dopo quattro mesi in un campo profughi americano era aumentata di quaranta chili per un violento scompenso ormonale), incapace di dormire su un letto, abituata al gergo dei soldati, accettata a stento dai pochi parenti rimasti perché “sconveniente”, non più ragazza di buona famiglia ma figura anarchica, ingestibile, imbarazzante: un ermellino uscito dalle macerie dell’umano. Ed è proprio in questo sapere che il cielo è cenere, e nel suo continuare a portare in sé l’umano, nel suo farsene pienamente carico, che si dà il miracolo che l’esistenza di Liliana ci consegna.
Onorificenze e riconoscimenti
27 novembre 2008, laurea honoris causa in Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
15 dicembre 2010, laurea honoris causa in Scienze pedagogiche presso l’Università di Verona
7 dicembre 2010, Ambrogino d’Oro della Città di Milano
Nel gennaio del 2018 è stata nominata Senatrice a vita
NOTE
1. Milano Centrale, binario 21. Destinazione Auschwitz, a cura di Andrea Jarach, Proedi Editore, Milano 2004. Proprio al Binario 21, il 26 gennaio 2010, per il Giorno della memoria, è stata posata la prima pietra di quello che sarà il Memoriale della Shoah di Milano.
2. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, Mursia 2002.
3. Testimonianza di Liliana Segre, Conservatorio G. Verdi di Milano, Giorno della memoria 2010.
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Fonti, risorse bibliografiche, siti su Liliana Segre

AA. VV., Voci dalla Shoah, testimonianze per non dimenticare, La Nuova Italia, Firenze 1995
Daniela Padoan, Come una rana d’inverno, Bompiani 2004

Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre tra le ultime testimoni della Shoah, Paoline Editoriale Libri 2005

Mimmo Calopresti, Volevo solo vivere

Cdec, Archivio della memoria, Filmato Liliana Segre

Daniela Padoan, La Shoah delle donne, Rai3 – “Doc3”

Daniela Padoan, Il filo nero. Dalle leggi razziali alla Shoah, Rai3 – “La grande storia”

Memorie, Rai3 – “Racconti di vita”

Il sito della Fondazione Memoria della Deportazione

Il discorso di Liliana Segre alla Comunità Europea nel Giorno della Memoria (27 gennaio 2020).

Referenze iconografiche:

Prima immagine: Ritratto giovanile di Liliana Segre, 1948. Immagine in pubblico dominio.

Seconda immagine: Inaugurazione dell’anno accademico 2019-2020 (prima parte), martedì 18 febbraio 2020, Aula magna del Rettorato – foto di Stefania Sepulcri (settore Ufficio stampa e comunicazione). CC BY NC SA_2.0

Terza immagine: Liliana e Alberto Segre, 1938. Foto della Famiglia Segre, fonte Memoriale della Shoah di Milano. Immagine in pubblico dominio.

1️⃣ Immagine giovanile di Liliana Segre, 1948

2️⃣ Inaugurazione dell’anno accademico 2019-2020 (prima parte), martedì 18 febbraio 2020, Aula magna del Rettorato – foto di Stefania Sepulcri (settore Ufficio stampa e comunicazione) –
Inaugurazione dell’anno accademico 2019-2020 (prima parte), martedì 18 febbraio 2020, Aula magna del Rettorato – foto di Stefania Sepulcri (settore Ufficio stampa e comunicazione) –

3️⃣ Liliana e Alberto Segre, 1938

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