Ventotto anni fa, in ospedale a Castrovillari, si spegneva Giuseppe Passarelli, un carabiniere giovanissimo, arrivato con un colpo di pistola sparato alla nuca. Il giornalista Fabio Amendolara ospita nella seconda puntata di “Crona-Chi?”, il nuovo podcast di Cronache, Chicca D’Alessandro, ex referente Libera Matera, che ripercorre la vicenda punto per punto. «Cominciamo dal principio, da che famiglia proviene Giuseppe?» chiede Amendolara. «Da una famiglia per bene, persone umili e grandi lavoratori. Molto uniti ma oggi molto provati dal dolore, perché 28 anni dopo, devono ancora sentirsi dire che sono “i familiari di quello che si è ammazzato” -spiega D’Alessandro Giuseppe era un militare di leva nel 1997 ed aveva preso servizio da una ventina di giorni nella Caserma di Cassano Allo Ionio. Veniva da Policoro ed aveva fatto di tutto per poter svolgere il servizio di leva nei carabinieri, era il suo sogno, avrebbe lasciato anche il suo lavoro da muratore. Aveva l’entusiasmo dei suoi 19 anni. Non aveva ancora neppure la patente quando si trasferisce a Cassano, e lo accompagna il papà. Per tornare a casa quindi prendeva passaggi da carabinieri che da lì facevano invece servizio a Policoro». Il 24 marzo però, avviene il tragico e prematuro epilogo: Giuseppe viene trovato in fin di vita in una stanza della caserma di Cassano. Uno sparo alla nuca, alcuni commilitoni lo sollevano di peso e lo portano in auto fino all’ospedale di Castrovillari. Da lì viene trasferito all’Annunziata di Cosenza, dove spirerà nel pomeriggio. «Da allora i familiari chiedono al sistema giudiziario che qualcuno finalmente gli dica cosa sia accaduto. Tutte le inchieste sono finite con “suicidio”, “si”, “no, forse è qualcos’altro”. Ma cos’è allora?» incalza Amendolara. «Nelle archiviazioni parlano di “probabile suicidio” non sono neanche certi e i genitori aspettano giustizia -spiega D’Alessandro- perché già da ciò che c’è agli atti si evince che non può essere stato lui a spararsi». «Morire con un colpo alla nuca è alquanto insolito e poi i colpi sono ravvicinati al corpo» sottolinea l’intervistatore. «Esatto -prosegue l’ex referente di Libera Basilicata- invece il corpo di Passarelli, da relazioni della Procura, parla di posizione anomala, di un colpo esploso a 10 cm di distanza dalla nuca, dal basso verso l’alto con posizione obliqua. In più il braccio avrebbe dovuto avere una lunghezza non comune per assumere quella posizione». «Ricordo una pozza di sangue a terra, particolare» rammenta Amendolara, che si era già occupato del caso. «Purtroppo non è stato mai fatto un sequestro dell’area, e parliamo dell’archivio della Caserma dove Giuseppe viene mandato a prendere dei fascicoli su tre cassetti -spiega D’Alessandro- Questo è importante, perché ne parleranno come se lui fosse andato in ansia, come se non riuscisse a trovare questi fascicoli. Ma tornando al sangue, quello nelle foto, si vede che nella parte centrale della macchia è come se fosse stato poggiato qualcosa ed intriso. Da qui anche un gocciolamento anomalo rispetto a quanto racconteranno i commilitoni di Cassano. Sulla pistola invece, nello sparo sarebbe dovuta cadere nelle vicinanze, invece viene ritrovata non sul lato destro». «Ci sono poi dettagli importanti che emergono sul corpo e sul luogo…» sottolinea Amendolara. «Secondo le ricostruzioni Giuseppe viene spostato dal posto con trascinamento, aveva infatti vistose abrasioni sulle scarpe, oltre ad essere sporco di terra, cosa anomala in una caserma –racconta l’intervistata- e sempre il perito, il Dottor Barbaro, aveva già allertato nel 1998 le autorità su diversi punti, ovvero che lo stub, la prova del guanto di paraffina, era negativo: non c’era polvere da sparo sulle mani di Giuseppe; Che la giacca fosse imbrattata dall’interno e non dall’esterno; Che mancassero dei reperti quindi non analizzabili, tipo la fondina, il moschettone e la stessa pistola non si sa se fosse quella in dotazione a Giuseppe. Inoltre era stata ripulita». «Nonostante tutto la Procura chiude le indagini più volte, e vengono riaperte poi su richiesta della famiglia, che però non riesce mai ad avere un dato definitivo?» chiede Amendolara. «Esatto -incalza D’Alessandro- ci sono state tre archiviazioni, 2001, 2007, 2010. Partono come suicidio, poi individuano il reato di omicidio, ma chiudono perché ritengono più probabile il suicidio. Il padre di Giuseppe subito dopo ne richiede l’apertura, in base ad una serie di punti non chiari. Ma dopo poco viene richiuso, sempre senza un indagato. Viene loro detto che umanamente è comprensibile non accettare la morte di un figlio, ma i fatti erano andati diversamente. La Procura quando chiude le archiviazioni però parla sempre di possibile suicidio, ma con prove determinate da leggi scientifiche. Un particolare: dicono che prima che Giuseppe prendesse servizio alle 14:00, avesse pranzato insieme ai colleghi, ed era agitato, ma nell’autopsia la bile risultava ancora nella cistifellea, pertanto non poteva aver mangiato. La presunta agitazione, unita al fatto che non avesse trovato i fascicoli in archivio, l’avrebbero pertanto indotto a spararsi». «Ma ci sono anche anomalie afferenti al giorno precedente, giusto?» incalza ancora Amendolara. «Sì, Giuseppe muore il giorno dopo le Palme. Il giorno prima, il 22 marzo, chiama i genitori dicendo che dopo aver smontato dal turno, alle 6:00 avrebbe preso il passaggio per tornare a casa – spiega D’Alessandro- Il 23 mattina alle 9:00 richiama i familiari avvisandoli che dovendo sostituire un collega, non potrà tornare a casa, dicendo di non poter parlare per telefono e che poi avrebbe spiegato. Sarà l’ultima volta che i genitori lo sentiranno. Il 23 mattino non prende servizio ma sarà trattenuto in caserma e il 24, secondo le ricostruzioni, alle 14:00 monta in servizio. Altro particolare, il giorno prima avrebbe partecipato ad una perquisizione a casa di un tossicodipendente di Cassano». «Un paese particolare, sciolto per infiltrazioni mafiose, con un clan molto forte. Ricordo che in una manifestazione cui partecipammo, al nostro passaggio i cittadini abbassarono le tapparelle alle finestre» rammenta Amendolara. «Giuso, qui parliamo di una famiglia della ‘ndrangheta –concorda D’Alessandro- con ramificazioni sulla costa del metapontino e a Policoro. Allora ero in Libera, e mi occupavo del caso ed il contesto parlava molto di paura di dire qualcosa. Però una volta una persona mi disse di ricordare che ci fosse stata una sparatoria quel giorno, fuori dalla caserma. Questo si riallaccerebbe alla divisa sporca di Giuseppe e al trascinamento. Ed il Dottor Barbaro, che ringrazio sempre per l’interessamento, parla proprio dell’impossibilità di una sola persona di trascinare il corpo». «Oltre a tutte queste zone d’ombra, ci sono anche aspetti nuovi?» chiede il giornalista. «C’è stata una segnalazione nel 2017, dopo una campagna di sensibilizzazione che facemmo come Libera. Venimmo contattati via mail, da un ragazzo che era stato lì carabiniere dopo Giuseppe, ed aveva indicato il nome preciso di una persona che sapeva tutto sul caso. Io stessa poi lo ascoltai e mi disse che questa persona era molto nervosa ogni volta che si parlava del caso di Giuseppe. Incontrò poi anche la famiglia, ma la cosa finì lì». «Però ci sono tutti questi elementi che parlano e ci permettono di dire che c’è ancora possibilità di venirne a capo…» commenta Amendolara. «Certo, e ci tengo ribadire anche le contraddizioni degli stessi carabinieri -sottolinea D’Alessandro- Giuseppe ha avuto almeno tre ore di agonia prima di morire e fu portato senza ambulanza, trascinato in una macchina di ordinanza, presso un ospedale privo di rianimazione che non avrebbe potuto salvarlo. Si perse quindi del tempo. Da Castrovillari lo portano a Cosenza, perdendo altro tempo utile. Non furono fatte poi intercettazioni. La famiglia venne lasciata sola. Era giovane, era morto in un luogo in cui era arrivato solo da 20 giorni e questo giocò a sfavore. Io mi aspetto però un interesse maggiore da parte della comunità policorese e un coinvolgimento del Sindaco affinché sia di supporto alla famiglia, perché additarli come il padre di quello che si è ammazzato è un pregiudizio sbagliato. Bisogna chiedere la riapertura del caso e che i giudici si mettano una mano sulla coscienza. Potrebbe essere un loro figlio». «Come spesso accade per far sì che si accetti una ricostruzione giudiziaria, occorre mettere tutto in fila da capo» si avvia a concludere Amendolara. «Sì, oggi ci sono nuovi metodi, si possono analizzare le foto, si può analizzare la divisa che i genitori hanno. C’erano indicazioni su formazioni pilifere che non appartenevano, dal DNA, a Giuseppe: si parlava di un cane, poi di una donna, ma non si è mai approfondito. Occorrerebbe risentire gli stessi commilitoni. Noi interessammo anche il parroco, che prima ci accolse, poi chiuse addirittura la porta secondaria da cui ci fece uscire senza accompagnarci. Questo la dice lunga sul clima, sul tabù, su una situazione invece che grida giustizia. Io ogni tanto vado anche al cimitero a trovare Giuseppe – conclude D’Alessandro- e mi duole il cuore pensare che si dica che si sia suicidato. Io non sono più dentro Libera da qualche anno già, ma con i familiari non ci fermeremo, però abbiamo bisogno di coscienze che si smuovano»

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