REPORT GIORNALIERO VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO IN UNGHERIA
L’incoraggiamento del Papa è quindi quello di parlare sempre il “linguaggio della carità”, seguendo l’esempio di Santa Elisabetta, del suo pane ai poveri trasformato in rose, perché l’amore donato agli affamati possa far “fiorire la gioia” e profumare l’esistenza
PAPA FRANCESCO
Dove sono gli sforzi creativi di pace?
Andrea Tornielli
È una domanda drammatica quella che Francesco rivolge dal cuore dell’Europa, da quell’Ungheria i cui confini lambiscono l’Ucraina vittima della guerra di aggressione russa. È una domanda che interpella innanzitutto i leader delle nazioni coinvolte insieme ai capi dei governi europei e a quelli di tutto il mondo. Interpella anche la coscienza di ciascuno di noi.
Il Papa ha fatto sue le parole pronunciate nel 1950 da un padre fondatore dell’Europa, Robert Schuman: “Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche”, in quanto “la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Parole “memorabili” le definisce Francesco, che si è quindi chiesto: “In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?”.
È significativo notare che già il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, un anno fa, intervenendo al Consiglio d’Europa, aveva citato questa frase di Schuman. Già, dove sono questi sforzi creativi? Dov’è la diplomazia con la sua capacità di intraprendere vie nuove e coraggiose per un negoziato che ponga fine al confitto? Dove sono gli “schemi di pace” da mettere in gioco per superare gli incombenti “schemi di guerra”?
La domanda di Francesco è drammatica e realistica. Drammatica, perché ci mette di fronte all’assenza di iniziativa da parte di un’Europa che sembra arrendersi alla logica del riarmo e della guerra mentre appare piuttosto afona sulla pace. Realista, perché ci mette in guardia dall’assuefarci all’“infantilismo bellico”, a un tragico conflitto che può in ogni istante degenerare, con esiti catastrofici per l’umanità intera.
Eppure le parole del Pontefice, il suo riferimento al cammino unitario europeo, “grande speranza” insieme alle Nazioni Unite per prevenire ulteriori guerre dopo quella devastante conclusa nel 1945, contengono già una risposta. Sta nell’invito a ritrovare “l’anima europea”, l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre i loro confini, che non hanno ceduto alle sirene del nazionalismo e sono stati capaci di ricucire invece di strappare. Milioni di persone che oggi vedono infrangersi le grandi speranze suscitate dalla fine della Guerra Fredda e vedono ritornare gli incubi della minaccia atomica, attendono una risposta: dove sono gli sforzi creativi di pace?
Nella casa dei giovani disabili di Budapest che attendono la carezza del Papa
Andrea De Angelis – Budapest
Una fila di tutori è appoggiata sui muri di una palestra. Sopra ci sono scritti nomi di bambini. Accanto le cyclette, piccole, anche loro progettate per gli ospiti della struttura. Entrare nell’istituto Beato László Batthyány-Strattmann di Budapest vuol dire incontrare i sorrisi di chi affronta, ogni giorno, le difficoltà legate a disabilità gravi. I volti dei bambini, dei giovani che trovano conforto e sostegno in questa realtà fondata da suor Anna Fehér, ricordata come la “Madre Teresa di Ungheria”, sostengono chi ha il privilegio di osservarli. Ogni piccola conquista, per loro, è un grande passo. Per questo oltre ad educatori, volontari e psicologi, in questo edificio lavorano anche fisioterapisti di livello. Ogni dettaglio merita la massima cura.
Un momento unico
Alle pareti, come nelle scuole di ogni angolo del mondo, ci sono i disegni dei bambini, realizzati nonostante i problemi alla vista. Dai tulipani fatti usando le forchette come pennelli, fino a fiori ed animali realizzati con dischetti di cotone e cartapesta. Fervono i preparativi quando ci rechiamo presso la struttura. Ad accoglierci il direttore dell’istituto, György Inotay. Mani grandi, le sue, come quelle dei tanti che qui non si risparmiano per regalare momenti di “normalità” agli ospiti. Sono 72 in tutto, le scarpette di alcuni si trovano sotto le panchine, nelle sale utilizzano altre calzature. Lungo i corridoi i corrimano a doppia altezza, per i bambini e per i ragazzi. Ogni passo va fatto con prudenza, mentre l’entusiasmo con cui si attende l’arrivo del Papa non conosce limiti. “Ci stiamo preparando al meglio, con l’emozione di chi sa che stiamo per vivere un momento unico, irripetibile”, dice il direttore. Ci mostra con fierezza il percorso che sabato 29 aprile farà il Papa, sui muri dei fogli stampati che raffigurano la bandiera dello Stato del Vaticano, con le frecce ad indicare il percorso che effettuerà Francesco. L’ingresso, i corridoi, ma anche una piccola cappella. La palestra, il laboratorio, dove i giovani realizzano prodotti in tessuto, in lana, compresi dei rosari di diverso colore
Suonerò per il Papa
Quando si arriva nella sala dove il Papa parlerà, si notano subito i nomi delle persone sulle sedie, i classici biglietti posati sopra ogni posto. Altri, però, sono posizionati a terra. “Questi sono destinati a chi sarà sulla sedia a rotelle”, spiega la guida. Poi l’attenzione va su un pianoforte, accanto c’è un ragazzo, poco più che ventenne. Il suo nome è Újfalusi Zoltán. “Sono una delle persone che da più tempo si trova in questo istituto, tutti ci prepariamo per l’incontro con il Santo Padre, quasi due mesi fa”, rivela. “Abbiamo appreso la notizia su internet, Papa Francesco verrà a trovare noi disabili, qui, nel nostro istituto! Io e i miei amici non ci volevamo credere, pensavamo fosse una notizia non vera, abbiamo allora verificato e sono arrivate conferme. Davvero tra poche ore verrà da noi, personalmente! Eravamo felicissimi e subito ci siamo messi a preparare un canto per lui, con il nostro coro faremo uno spettacolo di circa 15 minuti”. Mentre parla, Zoli – questo il nome con cui tutti lo conoscono – a volte si interrompe, gli occhi diventano lucidi, poi riprende il suo racconto. “Non saremo mai abbastanza grati a Dio per averci concesso questo incontro con il Papa, la sua benedizione sarà sempre con noi. Ritornando allo spettacolo che faremo, è un grande onore per me poter suonare al pianoforte tre brani”, spiega, prima di eseguirne uno. In anteprima.
https://youtu.be/Tvgugwkax_E
La storia dell’istituto
L’istituto Beato László Batthyány-Strattmann è situato nel XII distretto della capitale, in un edificio a più piani, ed è in grado di accogliere – nella sua scuola materna ed elementare per ciechi – bambini ipovedenti o con bisogni educativi speciali, grazie alla presenza di professionisti della salute mentale, dei più moderni strumenti educativi e fisioterapici, di una piscina e di una palestra. La Casa per bambini ciechi è sempre stata diretta da Suor Anna Fehér – la “Madre Teresa di Ungheria”, come fu definita negli anni ’80 -, fino alla sua morte, avvenuta nel 2021. Suor Anna, pedagoga, anche lei ipovedente, realizzò la Szent Anna Otthona per bambini ipovedenti, in piazza Batthyány, in un appartamento di appena 100 metri quadri. Questa Casa, non essendo abbastanza grande per accogliere i tanti bambini bisognosi, nel 1989 fu trasferita nell’attuale sede più grande, oggi visitata dal Papa, ammettendo al suo interno anche bambini ipovedenti con disabilità motorie. Il lavoro dell’Istituto, grazie alla determinazione e all’impegno di Suor Anna, è riuscito a dare nuove speranze e opportunità a tanti bambini con disabilità. La Casa è gestita dal 2016 dall’organizzazione “Kolping”, che è diretta dalla Conferenza Episcopale ungherese.
Il Papa abbraccia i bimbi malati di Budapest: “Grazie per la vostra tenerezza”
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Comincia all’Istituto cattolico per ciechi e Casa speciale per bambini Beato László Batthyány-Strattmann la seconda giornata in Ungheria di Papa Francesco. Il Pontefice arriva intorno alle 8.45. Ad accoglierlo in quella che per tanti bambini ipovedenti o con bisogni educativi speciali è una vera e propria dimora, è il direttore del centro, György Inotay, che gli mostra alcune aule della struttura.
Francesco viene accompagnato quindi in una sala in sedia a rotelle, che non desta curiosità o stupore fra le tante altre dei bambini con disabilità gravi che nell’istituto vengono non solo curati e assistiti, ma anche educati e avviati ad una professione. Ci sono anche ragazzi, prima in affidamento, ai quali la Casa Beato László Batthyány-Strattmann ha dato una professione, formandoli come infermieri. Il direttore del centro saluta il Papa con la preghiera francescana di pace, poi vengono eseguiti alcuni canti. Francesco ascolta abbracciando con il suo sguardo i piccoli, poi ringrazia tutti “per l’accoglienza e la tenerezza”.
Grazie per i vostri canti, per i gesti, per i vostri occhi. Grazie signor direttore perché lei ha voluto cominciare quest’atto con la preghiera di San Francesco che è un programma di vita. Perché sempre il Santo chiede la grazia che dove non c’è qualcosa che io possa fare qualcosa, quando manca qualcosa io posso fare qualcosa. In un cammino dalla realtà come è, portare avanti, far camminare la realtà.
Francesco aggiunge che questo è Vangelo puro, che “Gesù è venuto a prendere la realtà com’era e portarla avanti”, che “sarebbe stato più facile prendere le idee, le ideologie e portarle avanti senza tenere conto della realtà”, ma che il cammino evangelico, quello di Gesù, è questo: portare avanti la realtà così com’è.
Lo scambio dei doni
Al Papa la Casa Beato László Batthyány-Strattmann offre alcuni doni, tra questi una borsa a tracolla – blu e bianca per richiamare la bandiera dell’Argentina, la patria di Francesco, e gialla e bianca come i colori del Vaticano -, e una coroncina del Rosario gialla e bianca con una croce tau in frassino bianco che è stata intagliata dal direttore dell’istituto. Vengono consegnate anche due lettere, una lettera in scrittura Braille, una in italiano e una lettera che racconta la storia della guarigione di un bambino cieco raccontata da monsignor Miklós Beer, vescovo emerito di Vác. Francesco ricambia donando una scultura, realizzata a Lecce, della Madonna che scioglie i nodi, alla quale è particolarmente devoto.
Fuggiti di casa, oggi accolgono il Papa: le storie dei rifugiati a Budapest
Andrea De Angelis – Budapest
Tutto è pronto, nel piazzale dinanzi alla chiesa di Santa Elisabetta d’Ungheria, dove oggi, sabato 29 aprile, il Papa incontra poveri e rifugiati. Tanti i bambini, intere famiglie di migranti sono presenti per un momento unico, indelebile nella memoria di chi ha ancora negli occhi le immagini del distacco da casa, dal Paese d’origine. Pakistani, ucraini, zingari e rom, per citarne solo alcuni. Un crocevia di lingue e culture, che oggi ad una sola voce parla al vescovo di Roma. Francesco, pellegrino di pace, venuto per portare una carezza e per dire, ancora una volta, che “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” sono i verbi più appropriati per il fenomeno migratorio. Anche qui, in Ungheria, dove a nord est c’è il confine che separa i magiari dagli ucraini.
Il grazie al Papa
Proprio una famiglia ucraina, di lingua russa, ripete più volte il suo “grazie al Papa”. Le sue preghiere, gli appelli, le parole spese in più occasioni per il martoriato popolo ucraino sono balsamo e fonte di speranza. Grazie a questa vicinanza è possibile volgere “con più fiducia” lo sguardo al futuro. Nonostante i lutti, gli orrori di questa guerra, di ogni conflitto. Una ragazza pakistana racconta la sua storia, lei che è arrivata in Ungheria “per poter vivere pienamente la propria fede” ed è grata al popolo ungherese per l’accoglienza ricevuta. Ci parla dei giovani, di chi si sente “chiamato a costruire una società migliore”, promuovendo quello sviluppo integrale a cui il Papa tante volte ha sollecitato. Si respira, oggi a Budapest, quella creatività del bene di cui Francesco si è fatto promotore, chiedendo a tutti e ciascuno di favorire la pace, costruendola come fanno gli artigiani.
La Comunità di Sant’Egidio
In questo processo di accoglienza e integrazione riveste un ruolo importante la Comunità di Sant’Egidio, presente da lungo tempo in Ungheria. Péter Szőke, responsabile della Comunità a Budapest, spiega con emozione quanto sia importante per queste persone poter incontrare il Papa. Loro, rifugiati, accolgono oggi il successore di Pietro. “Penso che i poveri e i rifugiati in particolare capiscono che il Papa vuole loro bene, per questo sono pieni di aspettative e speranze”, afferma. “Sanno che Francesco è un messaggero di pace e gli ucraini, tutti i rifugiati sono anche loro messaggeri di pace perché si trovano qui per sete di pace, per essere fuggiti da realtà violente e disumane”.
https://youtu.be/pjynd7RWOPg
Essere accanto agli ultimi
Qual è, gli chiediamo, il ruolo di Sant’Egidio in Ungheria? “Non è mai facile capire l’importanza di una realtà in un luogo specifico, ma posso dire – prosegue Szőke – ciò che cerchiamo di essere. La strada – ricorda – ce la indicò il Papa, parlandoci tempo fa delle ‘tre P’, ovvero dell’importanza della preghiera, dell’essere accanto ai poveri e di promuovere la pace”. Per questo, ogni giorno, “cerchiamo di promuovere la pace, di coltivare amicizie con chi è solo, compresi gli anziani, diffondendo una cultura di solidarietà e amore verso chi troppo spesso è scartato”. Tra chi oggi è più fragile c’è anche la popolazione ucraina, i tanti rifugiati “inizialmente accolti nelle stazione, poi – spiega – in appartamenti presi in affitto”. Ma ci sono situazioni ancora più complicate, come quella “dei malati rifugiati, di chi ha bisogno di dialisi ed è importante essere accanto a loro”. Senza dimenticare i “poveri tra i poveri, gli zingari di lingua ungherese provenienti dall’Ucraina. Molti di loro – conclude – fanno fatica a trovare il loro posto oggi, spesso sono analfabeti, cerchiamo di aiutarli a trovare lavoro e accoglienza, anche se non è facile”.
Una famiglia ucraina al Papa: grazie per aver fatto sentire la sua voce per la pace
Tiziana Campisi – Vatican News
Nella chiesa di Santa Elisabetta d’Ungheria, dove sono radunati poveri, rifugiati, bisognosi e disagiati, è il presidente della Caritas, monsignor Antal Spányi, vescovo di Székesfehérvár, il primo a prendere la parola. Spiega al Papa che la Caritas, nel Paese, è nata nel 1931 e che ha lavorato “con grande vigore fino al 1950, quando l’organizzazione fu bandita dal regime comunista”. Ma tante braccia continuarono a rimboccarsi le maniche per gli indigenti “quasi clandestinamente nelle parrocchie fino al 1991”, quando l’organizzazione caritativa venne ufficialmente rilanciata. Oggi sono migliaia i suoi volontari che, con il supporto di diversi professionisti, organizzati nelle parrocchie, assistono anziani e malati, aiutano famiglie bisognose, disabili, tossicodipendenti, senzatetto e minoranze svantaggiate, sostengono cristiani perseguitati, rifugiati e vittime di disastri umanitari. A supportarli una serie di organizzazioni, gruppi di spiritualità e altre comunità di fede. Al Papa presentano poi le loro testimonianze tre famiglie.
La forza delle fede che aiuta ad affrontare le difficoltà
Brigitta Kanalas, greco-cattolica, racconta degli stenti vissuti sin da bambina e di essersi sposata ancora diciassettenne. Poi l’arrivo di tre figlie e delle difficoltà, e dei debiti contratti per far fronte alle necessità. Il marito comincia a bere e Brigitta sostiene la famiglia, senza però guadagnare abbastanza. L’intero nucleo familiare finisce così in una casa fatiscente. Un amico offre accoglienza alla figlia più piccola, ma Brigitta viene denunciata dai parenti del marito che la accusano di non occuparsi delle bambine, provocando l’intervento dei servizi sociali. È allora che la donna trova aiuto nella Chiesa greco-cattolica locale. Le vengono offerti un lavoro a tempo indeterminato e una casa, ma lei intende vendicarsi di chi le ha causato del male. Intanto si ammalano una figlia e il marito e Brigitta, disperata, comincia a pregare per la loro guarigione e a chiedere perdono a Dio per i torti fatti agli altri. Riscopre la fede, le sue preghiere vengono ascoltate e la sua storia ha un lieto fine.
Dall’Ucraina a Budapest per un futuro migliore
Oleg Yakovlev e la sua famiglia sono ucraini. Arrivano da Dnipro, abbandonata lo scorso anno, a seguito dei bombardamenti. Oleg è padre di 5 figli e in quel momento, con la moglie, non sa dove andare. Nella sua memoria però è rimasto vivo il ricordo di anni prima, del suo servizio come cuoco-soldato in Ungheria, e dell’ospitalità e cordialità degli ungheresi. Budapest diviene la loro destinazione, raggiunta dopo un viaggio di diversi giorni. Appena arrivata, la famiglia Yakovlev riceve aiuti, poi viene accolta nel Centro di Integrazione della Caritas. “Per noi e per i nostri figli, l’Ungheria è stata l’inizio di una nuova vita – racconta Oleg – di una nuova possibilità. Qui siamo stati accolti e abbiamo trovato una nuova casa”. L’uomo si rivolge poi direttamente al Papa e lo ringrazia “per aver fatto sentire la sua voce per la pace e per essersi schierato a favore delle vittime della guerra” e con un canto, insieme ai figli e alla moglie esprime la sua gratitudine agli operatori della Caritas.
Una famiglia a servizio di senzatetto e bisognosi
La terza testimonianza è quella dei coniugi Zoltán Kunszabó, diacono permanente, e Anna Pataki Kunszabó, che fanno parte della Comunità Cattolica Nuova Gerusalemme. Da anni sono al fianco dei poveri e offrono il loro aiuto in ogni modo possibile. Nel 2007 hanno dato vita al Servizio “Uno Solo”, un centro che serve pasti ogni giorno, mediamente a più di 100 persone, e dove è possibile usufruire di servizi igienici e di diversi tipi di assistenza. “A Budapest ci sono 2.246 persone che vivono in centri di accoglienza per i senzatetto e 436 persone che vivono per strada – spiega Zoltán -. Tuttavia, il numero di persone a rischio di diventare senzatetto è molto più alto. Tra i nostri ospiti ci sono persone senza famiglia che sono cresciute in istituto, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti, persone uscite di prigione. Ma anche madri e nonne abbandonate che crescono i loro figli da sole, e anche anziani”. Anna aggiunge che il problema principale dei senzatetto non è l’alloggio, ma l’esaurimento delle loro risorse interiori e la mancanza di relazioni umane di supporto. E manca anche Gesù con la sua Parola. “Chiunque sperimenti il proprio valore, anche solo per un momento, alla presenza di Dio – sono le parole di Anna – può iniziare una nuova vita con Cristo, recuperando la propria dignità. Ecco perché abbiamo regolarmente preghiere di lode, liturgie, confessioni e adorazioni eucaristiche”. E poi, nel centro creato dai coniugi Kunszabó, viene pure offerta l’opportunità di prepararsi ai sacramenti. Non si tratta di programmi obbligatori, ma sono frequentati con spirito di apertura, sottolinea Anna. “È una grande gioia per noi assistere al pieno recupero della vita di una persona” conclude, precisando che qualunque loro attività o servizio offerto non sarebbero stati possibili senza il sostegno delle preghiere quotidiane e il supporto dei loro cinque figli.
Francesco tra i poveri e i rifugiati: la Chiesa parli il linguaggio della carità
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
La carità non è fatta solo di attenzione ai bisogni materiali, perché oltre a questo ci sono la storia e la dignità delle persone e la loro necessità di sentirsi amate e benvenute. Questo è il linguaggio della carità, lo definisce Francesco, parlato anche da Santa Elisabetta, alla quale il popolo ungherese più di tutti è devoto, colei che seguì l’esempio di Francesco d’Assisi, spogliandosi delle agiatezze del suo rango per dedicare la sua vita agli ultimi:
Questo vale per tutta la Chiesa: non basta dare il pane che sfama lo stomaco, c’è bisogno di nutrire il cuore delle persone! La carità non è una semplice assistenza materiale e sociale, ma si preoccupa della persona intera e desidera rimetterla in piedi con l’amore di Gesù: un amore che aiuta a riacquistare bellezza e dignità. Fare la carità significa avere il coraggio di guardare agli occhi, tu non puoi aiutare un altro guardando da un’altra parte. Per fare la carità ci vuole il coraggio di toccare, tu non puoi buttare l’elemosina a distanza senza toccare. Toccare e guardare e così tu toccando e guardando incomincia un cammino, un cammino con quella persona bisognosa, che ti farà capire quanto bisognoso, quanto bisognosa sei tu dello sguardo e della mano del Signore.
La carità, idioma universale
Nel suo secondo giorno in terra ungherese il Papa incontra i poveri e i rifugiati all’interno della chiesa dedicata proprio alla santa, dove si sono riuniti in circa 600, dentro, e un migliaio fuori, nel piazzale antistante. Francesco ascolta i canti tzigani dei rom, e Libertango di Astor Piazzolla, ma soprattutto le testimonianze di chi ha vissuto sofferenze e privazioni, di chi è fuggito dalla guerra, di chi è senza casa, di chi è rimasto solo, segnato da povertà e fragilità e ringrazia la Chiesa ungherese per il servizio accanto a chi vive il disagio:
Questa è la testimonianza che ci è richiesta: la compassione verso tutti, specialmente verso coloro che sono segnati dalla povertà, dalla malattia e dal dolore … compassione che vuol dire ‘patire con’. Abbiamo bisogno di una Chiesa che parli fluentemente il linguaggio della carità, idioma universale che tutti ascoltano e comprendono, anche i più lontani, anche coloro che non credono
Fede è andare incontro ai poveri
I poveri indicano una sfida, prosegue il Papa, quella di non permettere che la fede “diventi preda di una sorta di egoismo spirituale”, di una spiritualità costruita a misura della propria tranquillità e soddisfazione:
Vera fede, invece, è quella che scomoda, che rischia, che fa uscire incontro ai poveri e rende capaci di parlare con la vita il linguaggio della carità. Come afferma San Paolo, possiamo parlare tante lingue, possedere sapienza e ricchezze, ma se non abbiamo la carità non abbiamo niente e non siamo niente
Estirpare indifferenza ed egoismo
Dio non risolve i problemi dall’alto, il suo abbraccio e la sua vicinanza si esprimono per mezzo della compassione di chi non resta indifferente di fronte al “grido di chi è povero” e Francesco quindi esprime riconoscenza alla Chiesa ungherese per il capillare “impegno profuso nella carità”, attraverso le Caritas, i volontari, gli operatori pastorali e anche attraverso la collaborazione con altre Confessioni, “unite in quella comunione ecumenica che sgorga proprio dalla carità”.
Il grazie va soprattutto all’accoglienza dedicata a chi fugge dall’Ucraina, come raccontato da una delle testimonianze, e che a Budapest, grazie all’ospitalità ricevuta, ha visto riaccendersi la speranza che “incoraggia a intraprendere nuovi percorsi di vita”:
Anche nel dolore e nella sofferenza, infatti, si ritrova il coraggio di andare avanti quando si è ricevuto il balsamo dell’amore: è questa la forza che aiuta a credere che non è tutto perduto e che un futuro diverso è possibile. L’amore che Gesù ci dona e che ci comanda di vivere contribuisce allora a estirpare dalla società, dalle città e dai luoghi in cui viviamo, i mali dell’indifferenza, è una peste l’indifferenza, il male dell’egoismo, e riaccende la speranza di un’umanità nuova, più giusta e fraterna, dove tutti possano sentirsi a casa.
L’incoraggiamento del Papa è quindi quello di parlare sempre il “linguaggio della carità”, seguendo l’esempio di Santa Elisabetta, del suo pane ai poveri trasformato in rose, perché l’amore donato agli affamati possa far “fiorire la gioia” e profumare l’esistenza.
*^*