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PAPA FRANCESCO HA LASCIATO RD CONGO 🇨🇬 PER TERMINARE IL VIAGGIO APOSTOLICO IN SUD SUDAN 🇸🇩

Bisogna, dunque, sradicare le piante velenose dell’odio, dell’egoismo, del rancore, della violenza; demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione; edificare una convivenza fondata sulla giustizia, sulla verità e sulla pace; e, infine, piantare semi di rinascita, perché il Congo di domani sia davvero quello che il Signore sogna: una terra benedetta e felice, mai più violentata, oppressa e insanguinata

PAPA FRANCESCO
Francesco all’incontro con i vescovi nella sede della Conferenza episcopale a Kinshasa
RD del Congo: il valore dell’uomo nella gioia di un incontro

Il Papa oggi lascia la Repubblica Democratica del Congo per andare in Sud Sudan.

Indescrivibile la gratitudine e la gioia di Kinshasa per questo incontro che ha squarciato logiche predatorie e di possesso

MASSIMILIANO MENICHETTI

L’Africa vista dalla Repubblica Democratica del Congo è molto diversa rispetto a quando si è fuori da questo continente. Basta un solo giorno e l’angolo della prospettiva si alza incredibilmente, diventa possibile riconoscere ciò che da molte altre latitudini, paradossalmente, sfugge e si dimentica: qui il cuore dell’uomo è capace di gioire per un incontro. La pace, la concordia, la fratellanza in effetti nascono dalla relazione, che in questo luogo si tocca e si vede.

Nella terra dei diamanti si festeggia se un amico viene a trovarti, si è onorati della visita di un parente, di un nonno, che condivide la sua storia, la saggezza di una vita intera. La parola gioia non è stata svuotata di significato, non è superficiale, ma appare piena, perché non si aggancia ad un momento effimero, ma all’uomo. E’ la gioia dell’incontro che ha riempito di gente, accalcata su più strati: le strade, i cavalcavia, l’aeroporto di Ndololo, lo stadio dei Martiri, durante la visita di Papa Francesco. Il desiderio era quello di vedere, ascoltare, ma anche salutare, omaggiare, festeggiare, condividere. E questa gioia, in Africa, si canta, si suona, si balla. Emozioni riflesse negli occhi spesso inumiditi dalle lacrime, nei sorrisi spalancati di bambini, adulti ed anziani, che si sono ritrovati a camminare insieme al Successore di Pietro, a seguire la consapevolezza della speranza che si fonda in Cristo.

In questo Paese, dove un europeo probabilmente non troverebbe le “comodità irrinunciabili” a cui è abituato, è possibile rintracciare la radice vivida di ogni cosa, sia nel bene, sia nel male. Forse accade perché l’uomo non è stato anestetizzato dall’opulenza del benessere, o perché qui il tempo non è ancora del tutto scandito dalla frenesia del fare, ma dal respiro del sole, della natura. Kinshasa è una città caotica e disordinata, in cui le baracche, su strade sterrate ed asfaltate, si alternano a cumuli di rifiuti, palazzi in costruzione, abitazioni curate e scheletri in cemento armato.

Il traffico sembra non avere regole, i veicoli se non sono imbottigliati, si spostano, sfrecciando velocemente, continuamente a destra e sinistra. La maggior parte delle auto sono ammaccate, con gli specchietti retrovisori legati con fili e nastro adesivo per non cadere, le portiere dei pulmini per il trasposto pubblico sono spesso aperte per consentire di stipare più gente possibile, alcuni viaggiano in piedi sporgendo di fuori. La polizia e i militari presidiano le strade, hanno lunghi sfollagente che agitano contro chi viola le direttive. Sulle motorette si sale anche in quattro. Tantissimi i bambini che giocano dietro lamiere colorate che delimitano spazi vuoti, le donne trasportano sulla testa sacchi di ogni dimensione.

Lo sguardo degli abitanti è sempre lo stesso: ti attraversa. In questa terra in cui vivono e si scontrano le contraddizioni della ricchezza del sottosuolo e della povertà, della bellezza della natura e della guerra, ciò che prevale è la spinta inarrestabile del popolo, tutta proiettata in avanti. “La Repubblica Democratica del Congo sarà un paradiso”. Questa speranza non è un’attesa, una chimera, ma ciò che si ascolta da una generazione intera, da chi, portando Cristo, costruisce giorno dopo giorno tra le macerie, la corruzione, gli scartati, le violenze, i soprusi, lo sfruttamento e la divisione tribale.

Forse però è proprio questo che spaventa chi depreda, schiaccia e silenzia l’Africa, chi cerca di relegarla ad un problema da risolvere o Stati da aiutare. Tutti qui ricordano le due visite di San Giovanni Paolo II, ma anche quella recentissima del cardinale Parolin, venuto a luglio in rappresentanza di Francesco, che ha rimandato il viaggio a causa del dolore al ginocchio. Il segretario di Stato vaticano ha portato la promessa che il Santo Padre sarebbe venuto. “E’ passato un anno” ha sospirato il Pontefice sull’aereo in direzione Kinshasa. Il Papa è stato di parola e questo popolo non lo dimentica, si sente onorato, rispettato, amato. Francesco ha alimentato nel Paese, in cui la Chiesa è rigogliosa, la certezza dell’orizzonte, la consapevolezza del legame in Cristo.

Questo continente sta crescendo enormemente, non solo in termini di prodotto interno lordo, ma le opportunità non verranno dal coltan, dal petrolio, dalle pietre preziose – certamente saranno strumenti – ma dalla memoria dell’uomo, dalla voglia d’incontro, dalla vitalità, dalla giovinezza, dal desiderio di questi popoli, i quali consentiranno a tutta l’umanità di vivere nuove sfide, di cambiare, crescere, svilupparsi. E’ questo il ribaltamento di prospettiva portato dal Papa che ha indicato la luce di Cristo quale faro da seguire, perché in Lui le logiche coloniali o predatorie si dissolvono consentendo all’uomo di diventare se stesso in relazione agli altri.

RD Congo, i Papa ai vescovi: siate vicini alla gente, l’episcopato non è per fare affari
Francesco all’incontro con i vescovi nella sede della Conferenza episcopale a Kinshasa
Nel lungo discorso ai vescovi del Congo, incontrati prima di partire per il Sud Sudan, Francesco raccomanda ai presuli di camminare al fianco della popolazione che soffre, di sradicare odio, egoismo, violenza, di demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione e di edificare una pacifica convivenza. E cita l’esempio di monsignor Christophe Munzihirwa, il Romero del Congo

Tiziana Campisi – Città del Vaticano

La Chiesa ha bisogno “di respirare l’aria pura del Vangelo”, di scacciare quella inquinata della mondanità e di “custodire il cuore giovane della fede”. Il Papa lo sottolinea ai vescovi delle 48 circoscrizioni ecclesiastiche della Repubblica Democratica del Congo che incontra nella sede della Conferenza episcopale a Kinshasa, prima di lasciare il Paese e raggiungere il Sud Sudan.  Ringrazia i presuli “per la calorosa accoglienza” ricevuta, grato per il loro ministero in mezzo alla gente, tra fatiche e speranze per quella Chiesa “giovane, dinamica, gioiosa, animata dall’anelito missionario” vista in questi giorni. “Una Chiesa presente nella storia” del Paese, “protagonista di carità; una comunità capace di attrarre e contagiare con il suo entusiasmo”, ma il cui volto è “solcato dal dolore e dalla fatica, segnato a volte dalla paura e dallo scoraggiamento”, perché “Chiesa che soffre per il suo popolo” e “segno visibile del Cristo che, ancora oggi, viene rifiutato, condannato e disprezzato nei tanti crocifissi del mondo, e piange” le stesse lacrime degli uomini; lacrime che la Chiesa vuole asciugare “impegnandosi a prendere su di sé le ferite materiali e spirituali della gente”.

Vedo Gesù sofferente nella storia di questo popolo crocifisso, popolo oppresso, sconvolto da una violenza che non risparmia, segnato dal dolore innocente, costretto a convivere con le acque torbide della corruzione e dell’ingiustizia che inquinano la società, e a patire in tanti suoi figli la povertà.

Ma nel Paese che definisce “‘cuore verde’ dell’Africa”, Francesco vede pure “un popolo che non ha perso la speranza, che abbraccia con entusiasmo la fede e guarda ai suoi Pastori”, che sa affidarsi al Signore per ottenere il dono della pace, “soffocata dallo sfruttamento, da egoismi di parte, dai veleni dei conflitti e delle verità manipolate”.

Il ministero episcopale, la vicinanza di Dio e la profezia per il popolo

Nella realtà congolese il Papa invita i vescovi ad esercitare il loro ministero vivendo “la vicinanza di Dio e la profezia per il popolo”.

Anzitutto vorrei dirvi: lasciatevi toccare e consolare dalla vicinanza di Dio.

Francesco evidenzia che, per chi è chiamato a essere Pastore del Popolo di Dio, è importante strutturarsi nella preghiera, stando ore davanti al Signore, perché “solo così si avvicina al Buon Pastore il popolo” che gli è affidato “e solo così si diventa veramente Pastori”. 

Senza di Lui non possiamo fare nulla. Saremmo imprenditori, “maestri”, ma non dietro la vocazione del Signore. Senza di Lui non possiamo fare nulla. Che non succeda di pensarci autosufficienti, tanto meno di vedere nell’episcopato la possibilità di scalare posizioni sociali e di esercitare il potere. Quello spirito brutto del carrierismo, è brutto quello.

E ancora il Pontefice insiste perchè la mondanità non intacchi il ministero episcopale.

E soprattutto: che non entri lo spirito della mondanità, che ci fa interpretare il ministero secondo i criteri dei propri utili tornaconti, che rende freddi e distaccati nell’amministrare quanto ci è affidato, che porta a servirci del ruolo anziché servire gli altri, e a non curare più la relazione indispensabile, quella umile e quotidiana della preghiera. Non dimentichiamo che la mondanità è il peggio che può accadere alla Chiesa.

Vicini alla realtà della vita quotidiana

È la vicinanza con Dio che rende “testimoni credibili e portavoce del suo amore presso il popolo”, spiega il Papa, che raccomanda però una prossimità concreta tra la gente.

L’annuncio del Vangelo, l’animazione della vita pastorale, la guida del popolo non possono risolversi in principi distanti dalla realtà della vita quotidiana, ma devono toccare le ferite e comunicare la vicinanza divina, perché le persone scoprano la loro dignità di figli di Dio e perchè imparino a camminare a testa alta, senza mai abbassare il capo dinanzi alle umiliazioni e alle oppressioni.

Coltivare la vicinanza con Dio spinge verso il popolo, chiarisce Francesco, fa sentire compassione per la gente; e l’atteggiamento compassione non è un sentimento, continua il Pontefice, ma “patire con…”. “Rafforzati dal Signore” si diventa “strumenti di consolazione e di riconciliazione per gli altri, per sanare le piaghe di chi soffre, lenire il dolore di chi piange, risollevare i poveri, liberare le persone da tante forme di schiavitù e di oppressione”.

Collaborare a una storia nuova che Dio desidera costruire

E poi i vescovi devono essere “profezia per il popolo”, annunciare la Parola di Dio, non trattenerla solo per sé, indica il Papa.

Essa è un fuoco, un fuoco che brucia la nostra apatia e accende in noi il desiderio di illuminare chi è nel buio. La Parola di Dio è un fuoco che brucia dentro, che ci spinge a uscire fuori! Ecco la nostra identità episcopale: bruciati dalla Parola di Dio, in uscita verso il Popolo di Dio, con zelo apostolico!

Si tratta di “collaborare a una storia nuova che Dio desidera costruire in mezzo a un mondo di perversione e di ingiustizia”, precisa il Pontefice, un mondo in cui i vescovi sono “chiamati a continuare a far sentire” la loro “voce profetica, perché le coscienze si sentano interpellate e ciascuno possa diventare protagonista e responsabile di un futuro diverso”.

Bisogna, dunque, sradicare le piante velenose dell’odio, dell’egoismo, del rancore, della violenza; demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione; edificare una convivenza fondata sulla giustizia, sulla verità e sulla pace; e, infine, piantare semi di rinascita, perché il Congo di domani sia davvero quello che il Signore sogna: una terra benedetta e felice, mai più violentata, oppressa e insanguinata.

I pastori non svolgono un’azione politica

Ma Francesco raccomanda che quella dei presuli non sia “un’azione politica”. Perché se “la profezia cristiana si incarna in tante azioni politiche e sociali”, compito dei pastori è annunciare la Parola “per risvegliare le coscienze, per denunciare il male, per rincuorare coloro che sono affranti e senza speranza”. Consolare, dunque, consolare il popolo.  E non solo con le parole, ma anche con la vicinanza e la testimonianza: “vicinanza, anzitutto, ai preti – i primi prossimi di un vescovo -, ascolto degli operatori pastorali, incoraggiamento allo spirito sinodale per lavorare insieme”; testimonianza per “essere credibili per primi e per tutto, e in particolare nel coltivare la comunione, nella vita morale e nell’amministrazione dei beni”.

Servi del popolo, non affaristi

Per il Papa, è essenziale “saper costruire armonia, senza ergersi su piedistalli, senza asprezze, ma dando il buon esempio nel sostegno e nel perdono vicendevoli, lavorando insieme, come modelli di fraternità, di pace e di semplicità evangelica.

Non accada mai che, mentre il popolo soffre la fame, di voi si possa dire: “quelli non se ne curano e vanno chi al proprio campo, chi ai propri affari”. No, gli affari, per favore, lasciamoli fuori dalla vigna del Signore! Un pastore non può essere un affarista, non può! Siamo Pastori e servi del popolo di Dio, non amministratori delle cose, non affaristi, pastori! L’amministrazione del vescovo deve essere quella del pastore: davanti al gregge, in mezzo al gregge, dietro al gregge. Davanti al gregge per segnalare la strada; in mezzo al gregge per sentire l’odore del gregge, non perderlo. Dietro al gregge per aiutare coloro che vanno più lentamente.

L’esempio di monsignor Christophe Munzihirwa

Ai vescovi Francesco chiede inoltre “di non lasciare che il fuoco della profezia sia spento da calcoli o ambiguità con il potere, e nemmeno dal quieto vivere e dall’abitudinarietà”.

Dinanzi al popolo che soffre e all’ingiustizia, il Vangelo chiede di alzare la voce. Quando secondo Dio alziamo la voce, rischiamo. Lo ha fatto – questo alzare la voce –  lo ha fatto un vostro fratello, il servo di Dio monsignor Christophe Munzihirwa, pastore coraggioso e voce profetica, che ha custodito il suo popolo offrendo la vita.

Arcivescovo di Bukavu, gesuita, chiamato il “Romero del Congo”, monsignor Munzihirwa è stato ucciso il 29 ottobre 1996, negli anni della prima guerra del Congo, vent’anni dopo è stata aperta la causa di beatificazione. Il Papa ricorda il suo invito a restare saldi nella fede, ad avere fiducia in Dio nei momenti difficili e assicura che “il suo seme, piantato in questa terra, insieme a quello di tanti altri, porterà frutto”. Esorta, poi, a “fare memoria, con gratitudine, dei grandi Pastori che hanno segnato la storia” del Paese e della Chiesa congolese e di chi ha evangelizzato la nazione e cita anche il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya.

Concludendo il suo discorso, Francesco incoraggia i presuli ad essere “profeti di speranza per il popolo”, “testimoni e annunciatori gioiosi del Vangelo”, “apostoli di giustizia, samaritani di solidarietà”, “testimoni di misericordia e di riconciliazione in mezzo a violenze scatenate non solo dallo sfruttamento delle risorse e da conflitti etnici e tribali, ma anche e soprattutto dalla forza oscura del maligno, nemico di Dio e dell’uomo”, confidando in Gesù, che è risorto e “ha già vinto il mondo”.  E prima di chiudere il suo discorso il Papa raccomanda ancora “misericordia, perdonare sempre”, osservare sì il codice di diritto canonico, ma perdonare i fedeli che chiedono la confessione, perchè “il cuore del pastore va oltre”, “perdonare sempre per seminare perdono nella società”.

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