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START IL 10 SETTEMBRE : 14ª EDIZIONE CITTÀ DELLE 100 SCALE FESTIVAL

“Credo anche, che arrivati ad un certo punto sia necessario cambiare (forse cedere) il passo, mutare esperienza fare si che le cose possano evolvere per non adagiarsi sugli allori”

DIRE TACERE : CITTÀ DELLE 100 SCALE FESTIVAL 

FRANCESCO SCARINGI 

È il tempo di …

Parte la 14 edizione del Città delle 100 scale Festival.

La presentazione con una conferenza stampa é il 7 settembre. Inizio il 10. 

Sono qui a chiedermi dopo 14 anni, 15 a dire il vero mettendoci anche l’anno di preparazione per la prima edizione, che faccio qui?
Per fare il verso ad una famosa trasmissione. Qual è il Il senso personale e comunitario, se penso agli amici e alla città?

Sento un po’ sulle spalle la pesantezza dei tempi per un clima politico, culturale e sociale segnato da profonda inquietudine.

Le domande sul senso si possono moltiplicare. Cosa questo festival è diventato per la nostra città e regione?
Siamo riusciti a mostrare la bellezza e la complessità delle arti performative contemporanee?

È servito, quello che abbiamo fatto al mondo della cultura?

E lo sforzo reso per rendere il festival originale, interessante e culturalmente valido è stato raggiunto o almeno percepito?

Fino a quando si può continuare in mezzo a tante ostilità volontarie o involontarie provenienti dal mondo politico e ahimè anche da dentro il nostro non privo di competizione, narcisismo, fraintendimenti e logiche corporative?

Credo anche, che arrivati ad un certo punto sia necessario cambiare (forse cedere) il passo, mutare esperienza fare si che le cose possano evolvere per non adagiarsi sugli allori.

Nonostante che il festival continua ad essere innovativo e creativo, grazie ai collaboratori e all’ottimo staff, penso che figure più giovani e attente a quello che succede in un mondo “onlife” debbano avere l’occasione di prendere in mano il testimone.

Ma risulta difficile.
La precarietà incombe e i rischi economici di condurre un’operazione complessa come un festival sono tanti.

La cultura, quella a me cara, purtroppo non porta soldi, non può essere quantitativamente produttiva.

Vive di qualità e di “spreco”, non può essere considerata come industria, altrimenti corre il rischio di diventare un’ancilla dell’intrattenimento e del turismo (chiaramente cose di per sé non negative).

La cultura è essenzialmente ricerca di senso, riguarda il modo di essere di uomini e donne che vivono entro una società grazie a quel mondo simbolico di cui essa ne è parte essenziale e vi agisce.

Il rischio è che si assottigli diventando preda solo del marketing, che la riduce ad una unica dimensione.

Le diade di parole che ho scelto per questa 14esima edizione è “dire/tacere”, prese in prestito dal filosofo Wittgenstein

Infatti sono la contrazione dell’ultima proposizione del Tractatus in cui il filosofo viennese scriveva

“di ciò di cui non si può dire bisogna tacere”

Uno spunto metaforico per richiamare varie questioni.

Un riferimento lo possiamo fare alla guerra russo ucraina.

È emersa tanta retorica e tanta propaganda politica accompagnata da tanta violenza per escludere, azzittire con arroganza e prepotenza chi esprime critica, contestazione o voglia di pace.

Esiste un’altra guerra che, come afferma Stiegler, si combatte nel nostro vivere quotidiano, riguarda il piano dell’estetico, che gioca un ruolo fondamentale sul nostro modo di sentire, rappresentare e agire nel mondo.

A conclusione di questa mia breve riflessione voglio riportare qualcosa che ci ha fatto piacere, scritta da Eugenio Barba, personalità molto importante del teatro contemporaneo, dopo essere stato nostro ospite l’anno passato con la grande Julia Varley.

Tra la stima e l’amicizia manifestata nei nostri confronti ecco due passaggi molto belli di una sua mail.

Caro Francesco e Giuseppe,
Aveva un sapore di casa la vostra accoglienza, di lontani parenti che ci conoscevano ed erano felici di incontrarci di persona.

Mi sentivo a mio agio con il vostro modo di salutarci, semplice e schietto, il tono di voce quasi intimo …

… Questo è il ricordo che Julia ed io riportiamo dal Città delle 100 scale, il rifugio che da ossigeno ed energie agli universi interiori dei vostri spettatori.

Vi ricordate della fortezza del Krak dei cavalieri nella Siria meridionale, costruito nell’11° secolo dall’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale? Accoglieva e dava asilo ai pellegrini che a piedi, dall’Europa, si dirigevano a Gerusalemme a visitare una tomba vuota.

Vi sono teatri-fortezze che rianimano chi li visita. A Potenza ho conosciuto un Krak.

Vi auguro tanta energia per continuare ancora a lungo, senza dubitare, senza cedere.
L’attenzione e l’atteggiamento degli spettatori dopo lo spettacolo conferma il valore e il senso del vostro impegno.

Un caro abbraccio da Julia ed Eugenio

Dire/Tacere
IL concept di Città delle 100 Scale Festival 14 edizione

Anche per questa 14 edizione per connotare il festival abbiamo scelto una coppia di termini antitetici Dire/Tacere, che non sono la definizione di un tema. Il fine del festival sta nel narrare la molteplicità delle espressioni e delle poetiche dei vari protagonisti chiamati con le loro performance dall’Italia e dal mondo.
È solo un’allusione allo zeitgeist, allo spirito del tempo, come direbbe Hegel.

In realtà Dire/Tacere è la contrazione dell’ultima proposizione del Tractatus del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (Vienna, 26 aprile 1889 – Cambridge, 29 aprile 1951): “Di ciò di cui non si può dire, si deve tacere ( Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen)”.
Il filosofo viennese si interroga sui limiti del linguaggio, del suo infrangersi sugli scogli di ciò che lui chiama il Mistico. Per noi una metafora che fa segno al silenzio come ascolto di ciò che non può essere detto, o a cui si ingiunge di tacere, ma che però ha diritto a non essere abbandonato al suono inarticolato.
In tal senso le arti performative aprono possibilità altre al dire ed essere, zattera di salvataggio per un mondo ormai abbandonato ai flutti di un mare agitato.

Dire/Tacere è anche monito a un dire eccessivo e prevaricatore, alla violenza della condanna e dell’esclusione, alle perentorie definizioni, alle pratiche di dominio e violenza come la guerra dimostra nel suo eccesso di rappresentazione e fascinazione. Prevale l’assuefazione all’enfasi della pervasiva propaganda, diretta e indiretta, mentre sono tacitate voci negate alla storia e all’esistenza. Esse si affacciano da sotto le macerie, come nel quadro di Klee, Angelus Novus. Sono travolti dal vortice della storia in attesa che il telos del tempo si arresti, nel tempo ora, in un balzo di redenzione – come dice Benjamin a commento del quadro – che ne squarci la pretesa edificatoria, nel segno di una discontinuità “rivoluzionaria”, che dalle rovine del passato possa fare emergere possibilità inespresse, per configurare nuovi orizzonti.

Il segno grafico, che connota il festival dal punto di vista comunicativo, ha una sua valenza performativa.
Il tratto che si sovrappone ai due termini del concept riguarda la fatica del dire e nello stesso tempo l’impulso alla cancellazione per l’incombente fallimento. Evoca il continuo e ossessivo rumore di fondo, che ci circonda, barriera al senso, che rende fragile il dire, oscillante tra la tautologia insensata e le ossessive cancellature.

Il segno grafico ha forza in sé, per il gioco ritmico e musicale che lo sorregge.

Ai tempi binari e ternari dei due termini si sovrappongono la sincope delle cancellature e delle sillabe rosse secondo sfumature jazzistiche. Performance poetica, grafico/sonora.

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