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BORGATA SAN CATALDO IN AGRO DI BELLA (POTENZA)

Oggi possiamo affermare con orgoglio che il progetto iniziale era grandioso, razionale e generoso. Ci dispiace che qualche strada o piazza sia stata dedicata al Cardinale Ruffo, alleato di briganti e malfattori, galeotti, banditi, disertori, reclusi evasi e camorristi sanfedisti e fra’ diavolo, per reprimere le libertà nascenti nel regno di Napoli. Qualche via di San Cataldo potrebbe portare invece il nome di Plinio Marconi. Naturalmente è un suggerimento

 

PLANIMETRIA GENERALE DELLA BORGATA SAN CATALDO IN AGRO DI BELLA POTENZA 1953 dell’Arch. PLINIO MARCONI

di CATALDO SABATO

Come si vede, il Progetto dell’Arch. Marconi (1° planimetria) era molto più ambizioso di quanto è stato realizzato (2° planimetria)

Oggi l’insediamento abitativo risulta non solo modificato rispetto all’impianto originario, ma tutta la parte disegnata a sud del decumano (oggi strada secondaria dietro le casette a schiera da Sordetti alla Chiesa) è stata in seguito costruita in parte dell’Istituto Case Popolari e in parte dai privati, ma in maniera caotica senza alcun riferimento al disegno armonico e razionale del grande Architetto.


La scelta di questo modello di insediamento rurale fu il tema di un acceso dibattito che animò il rapporto tra gli intellettuali e i tecnici dell’Ente.

Plinio Marconi scelse la tipologia accentrante invece che la casa colonica sul singolo lotto agricolo, insistendo sulla necessità del borgo visto come centro organizzativo dei servizi di una comunità rurale. 

La costituzione del “borgo residenziale” assumerà la specifica funzione di centro propulsivo di una vera e propria comunità rurale produttiva con tutto il concreto e fecondo contenuto sociale di tipo organizzativo.


Nel caso specifico il “borgo residenziale” si manifesta come la salda chiave di volta di un sia pur limitato esempio di concreta riforma agraria connessa intimamente ad una altrettanto concreta trasformazione fondiaria

Dalle suddette riflessioni si evince una filosofia chiara che stava dietro la costruzione del borgo, che doveva anzitutto comprendere gli edifici necessari all’organizzazione civile della popolazione .

Il progetto comprendeva la chiesa (Don Peppino Grieco si oppose alla costruzione prioritaria della chiesa, chiedendo con forza che venissero costruite con priorità assoluta le case), la scuola, la sede dei servizi civici, botteghe e case di artigiani e commercianti, poste e telegrafi e le dimore dei contadini (a schiera, a gruppi o isolate, con l’allevamento zootecnico presso l’abitazione) che detenevano il lotto assegnato nella zona di influenza del borgo entro un raggio di 3 Km al massimo.

La tipologia delle masserie insediate nei singoli lotti avrebbe innescato una storia simile a quella che oggi troviamo nell’area di Sant’Antonio Casalini, dove però i terreni agricoli erano più fertili.

Noi sappiamo come sono andate poi le vicende e le storie, che si sono dovute misurare con varianti e revisione prezzi, ma anche con una realtà fatta funzionari capaci o incapaci, arroganti o premurosi, rapaci o generosi, e dei contadini di San Cataldo portatori di tutte le riserve mentali e materiali che si erano stratificate nel tempo.

In seguito lo stesso Architetto fu incaricato di redigere cinque tipologie da adottare per la costruzione di case nelle campagne.

Egli prese ad esempio alcune soluzioni già esistenti sul territorio nazionale, come nella Valle Padana, affermando che l’abitazione rurale sparsa, se ben concepita, non deturpa, ma umanizza e adorna la natura.

Naturalmente le motivazioni di Marconi sono ancora più suggestive.

Le tipologie di dell’Arch. Marconi furono adottate a Scanzano , dove si trasferirono molti sancataldesi.

Oggi possiamo affermare con orgoglio che il progetto iniziale era grandioso, razionale e generoso.
Ci dispiace che qualche strada o piazza sia stata dedicata al Cardinale Ruffo, alleato di briganti e malfattori, galeotti, banditi, disertori, reclusi evasi e camorristi sanfedisti e fra’ diavolo, per reprimere le libertà nascenti nel regno di Napoli.

Qualche via di San Cataldo potrebbe portare invece il nome di Plinio Marconi.

Naturalmente è un suggerimento.

PLINIO MARCONI? … CHI ERA COSTUI? …

 Per una nuova teoria estetica dell’architettura: il contributo di Plinio Marconi.

 In questi ultimi anni, dentro e fuori delle nostre scuole di architettura, sembra che la dimensione teorica della ricerca disciplinare sia andata progressivamente appannandosi.

Ad un periodo piuttosto segnato da astrazioni, anche eccessive, e da più e meno marcati e significativi ideologismi, pare infatti aver fatto seguito un momento apparentemente più caratterizzato dall’operatività, più impegnato nelle cose, nella sperimentazione progettuale dei linguaggi, nella frammentaria “costruzione” di una nuova architettura. Se tutto questo è vero, tanto che ormai appare come un diffuso stato di fatto, ed è altrettanto vero che tale tendenza ha profondamente segnato la cultura architettonica di questi ultimi vent’anni anni, non v’è comunque chi non veda come alla positività di un diffuso richiamo alla concretezza si siano, in più di un caso, affiancate le aporie di un’ulteriore astrazione che fanno per lo più capo ad una concretezza più invocata che raggiunta, di un mestiere ormai più mimato che sperimentato nel reale.

E’ quindi logico e urgente quanto da più parti si invoca, soprattutto tra le generazioni più giovani, nella prospettiva, da un lato, di riscoprire gli aspetti teorici e fondativi delle discipline facenti capo al vasto territorio dell’Architettura e, dall’altro, di affrontare con maggiore realismo anche gli aspetti materiali e concreti del costruire.

Per quanto ci riguarda appare così più che motivato l’obiettivo di ritrovare un nesso sostanziale tra le dimensioni della storia, della critica e dell’estetica dell’architettura contemporanea, quale fondamenti ineliminabili di qualsiasi ulteriore discorso, anche applicativo.

Il rischio, ormai incombente sulla nostra scuola, è infatti quello di diventare in ultimo, e al fondo di tante e pur apparentemente radicali trasformazioni istituzionali e organizzative, un gigantesco istituto superiore per geometri da riversare, quasi un sottoprodotto, sul “mercato” europeo, e ci pare vada sventato sul nascere riproponendo un impegno serio sui temi fondamentali dell’Architettura.

E’ anche e soprattutto in questa prospettiva che, prima attraverso il corso di Stiria delle Arti Industriali e poi quello di Storia dell’Architettura Contemporanea, ci siamo a più riprese impegnati nel tentativo di ampliare, per quanto possibile, i temi della didattica e della ricerca verso gli argomenti della teoria e della critica.

In questo senso l’approfondimento della dimensione teorica della ricerca architettonica tra diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo secolo ci ha così portati a contatto con dimensioni assai poco indagate, se non addirittura del tutto inesplorate, del dibattito contemporaneo.

Il caso romano, da questo specifico punto di vista, appare poi esemplare; pur provenendo infatti da questa scuola alcuni dei più ilustri protagonisti del dibattito internazionale degli ultimi cinquant’anni, basti pensare alle personalità di Bruno Zevi, di Leonardo Benevolo, di Manfredo Tafuri, di Paolo Portoghesi, solo per fare qualche nome, non è stata ancora avviata una revisione sistematica, stratigrafica, del panorama romano che, invece, almeno dalla metà del secolo scorso rappresenta una serie di tappe importanti dell’itinerario critico contemporaneo.

Oggetto di una svalutazione complessiva sicuramente eccessiva che ha indotto all’obio di tante personalità di sicuro rilievo che hanno tutte affrontato in profondità i temi del rapporto tra teoria e pratica e tra storia e progetto dell’architettura, i diversi autori che abbiamo, di volta in volta analizzato e riproposto si collocano tutti in organica e reciproca coazione definendo un compendio di utili occasioni di riflessione; denunciando la presenza di personalità di grande respiro a costruire un percorso logico che conduce fino ai nostri giorni.

Infatti, solo partendo dal contributo di personalità fondamentali come quella del Poletti e del Calderini, prima, per passare, poi, attraverso quelle del Milani, del Giovannoni, del Piacentini e ancora, del Fasolo, del Minnucci e del Marconi, si potrà giungere a definire nella sua più autentica dimensione e nella sua specifica essenza la complessità di una situazione romana la quale attraverso le sue aporie e le sue cadute, ma anche i suoi non irrilevanti momenti di eccellenza, riveste ormai un ruolo importante e decisivo, non solo a livello locale, ma anche e soprattutto internazionale.

Non può essere questa la sede per soffermarsi più a lungo su questi temi di carattere generale, ché questa breve nota vuole solo essere un pretesto alla riflessione e soprattutto un’indicazione per appofondire ulteriori e ancora fertili indirizzi di ricerca a definire più oltre una costellazione di dati conoscitivi indispensabili per porre le basi di qualunque ulteriore sviluppo, anche didattico.

Il caso di Plinio Marconi, da questo punto di vista appare emblematico ed esemplare.

Praticamente, dimenticato, tralasciato ed evitato dalla critica e dalla storiografia contempranea al pari di altre personalità, peraltro eminenti, (vedi il caso per certi versi “analogo” di Giuseppe Vaccaro, solo recentemente “riscoperto”), gravitanti a diverso titolo nella vasta e variegata orbita culturale piacentiniana, anzi magari solo per questo destinate ad un’affatto speciale damnatio memoriae ; come se Marcello Piacentini (al pari di Bottai) non fosse stato, come in realtà invece è accaduto, capace di calamitare attorno alle sue iniziative alcune delle forze intellettuali più vivaci attive a Roma tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.

Plinio Marconi, in questo contesto rappresenta bene (e la lettura dei suoi scritti ce lo dimostra con abbondanza di elementi, per certi versi, sorprendenti), la qualità di questi giovani architetti, informatissimi su quanto avveniva nel resto del mondo (la redazione di architettura, da questo punto di vista, fu un vero e proprio cenacolo dove non a caso si formarono e si informarono personalità come quella di Quaroni, di Fariello, di Muratori, solo per fare qualche nome tra i tanti possibili) e capaci di catalizzare anche sul piano teorico gli argomenti complessi di un dibattito contemporaneo che, soprattutto attorno al Trenta, vide un momento di straordinaria quanto accelerata vitalità.

Soprattutto in rapporto tra la sperimentazione più recente e gli eterocliti presupposti teorici e metodologici, tecnici ed estetici che ne erano alla base, la riflessione di Plinio Marconi ci fa così intravedere la ricchezza del bagaglio teorico di quanti, in forme più e meno evolute e consapevoli, si stavano avviando ad attraversare un territorio ancora inesplorato, verso gli incerti, pur affascinanti, ma ancora per tanti versi oscuri, obiettivi del Moderno.

Tra i testi pubblicati dal Marconi in quegli anni, oltre al vastissimo saggio Critica della critica, questioni di estetica nell’arte e nell’architettura d’oggi  che vide la luce sulle pagine di “Architettura” a partire dal gennaio del 1938 e che rappresenta senz’altro uno dei più cospicui contributi al dibattito teorico del momento (saggio al quale è dedicato l’ampio articolo di Danilo De Vito) e che ci mostra un autore ormai consapevole e dotato di una vasta attezzatura teorica, ci piace qui ricordarne l’altro, intitolato I recenti sviluppi dell’architettura italiana in rapporto alle loro origini  apparso sulle pagine della medesima rivista, in quell’anno di fuoco, per l’architettura italiana, che fu il 1931.

Qui con sorprendente attualità e quasi a corollario dei più recenti contributi di Marcello Piacentini e di Gustavo Giovanni sul medesimo tema, Marconi già amplia considerevolmente l’orizzonte storico-critico delle sue riflessioni andando a toccare soprattutto in relazione alle interpretazioni e alle teorie dell’einfuhlung  i nomi di Hegel, di Schelling, di Fischer, di Lipps, di Adamy, di Beltcher, di Ruskin, di Behrens, in contrapposizione a quelli di Schopenhauer, di Viollet-le Duc, di Pugin, di Semper, di Thiersch, di Cloquet, di Garnier; d’altro canto, per quanto atteneva ai temi dei “valori plastici” nel campo delle arti figurative, rinviando insieme ai nomi della Sarfatti, di Soffici e di Severini, a quelli di Waldmann, di K. Einstein, di Gleizes, di Coquiot, di Breton, di Hautecoeur;  mentre altrettanto noti e citati paiono già gli scritti di Le Corbusier, di Platz e di Yirmounsky.

Già alcune intuizioni, che diventeranno poi materiale del dibattito più radicale del dopoguerra, erano, in quel lontano saggio, espresse con chiarezza, ma anche temperate da una precisa visione storica dei problemi del contemporaneo: “Mentre da un lato vediamo le teorie relativiste e le ultime scoperte nel campo della fisica e della chimica battere in breccia i rigidi postulati del materialismo scientifico ottocentesco e ricondurre la scienza mediante la consapevolezza dell’indefinita traslazione dei suoi problemi ad una più modesta considerazione dei propri limiti e possibilità nei riguardi della inattingibilità di una verità immobile; mentre dall’altro lato vediamo gli ultimi sviluppi dell’idealismo assoluto sboccare inevitabilmente in un contingentalismo di natura scettica; mentre in conclusione vacillano i dogmi fra loro contrastanti formulati dal pensiero speculativo precedente e prevalgono invece soluzioni attiviste a pragmatiste della realtà: è da presumere che accentuandosi tal tendenza, vedremo infine alle unilaterali posizioni intellettualistiche superate sostituirsi la totalità piena della vita … Sorgerà allora, sulle rovine del romantico secolo XIX una nuova epoca classica …” Cosicché l’architettura attuale “chiuso il momento polemico” dovrà “sboccare poi ad una rinnovata sintesi la quale troverà la sua formulazione definitiva in uno stile moderno, classico non già in senso superficiale e formale, ma profondo e sostanziale. Ritorno alla natura, intanto, che è sempre stata il farmaco di tutti i mali di perdizione e di esaurimento“.

G.M. 1996

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