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QUELLA VOLTA CHE PARLAI CON GIULIO ANDREOTTI

Lettere lucane

Sto leggendo in piccole dosi i due volumi appena pubblicati da Solferino di Giulio Andreotti (“I diari segreti” e “I diari degli anni di piombo”: in totale, circa 1.500 pagine di fitte annotazioni). Sono libri importanti, perché aiutano a capire meglio la politica italiana – la politica italiana ha leggi non scritte di assoluta sottigliezza e brutalità – e la psicologia di Andreotti, che è assai inafferrabile. Leggendo queste annotazioni – spesso freddamente cronachistiche, e solo a volte pervase da lampi e guizzi calorosi o perfidi – mi sono ricordato dell’unica volta che ho avuto l’occasione di conoscere Andreotti. Accadde nel 2006, a Roma. All’epoca dirigevo la casa editrice Avagliano, e poiché avevo pubblicato “Israele in bianco e nero” di Giovannino Russo – un grande giornalista lucano, maestro del reportage narrativo – l’ufficio stampa della casa editrice mi disse che per la presentazione a Roma del libro l’autore aveva pensato ad Arrigo Levi e a Giulio Andreotti. Rimasi alquanto colpito, perché Giovannino era un repubblicano laico che nulla aveva da spartire con Andreotti. All’epoca mio figlio Claudio aveva appena un anno, e perciò lo portammo con noi. Ricordo che arrivammo in anticipo; e ricordo che in anticipo arrivò anche Andreotti. E così mi ritrovai a parlare con l’uomo più potente della Prima Repubblica, anche se con imbarazzo, perché qualsiasi cosa dicessi mi sembrava banale e trascurabile. Lui invece si mostrò “normale” e dimesso – si mise a giocare con Claudio, ma in maniera un po’ inquietante: allungava il pallido dito indice e lo muoveva lentamente davanti ai suoi occhi sgranati; era evidente che tutto sapesse fare, quel gigante della politica, tranne che intrattenere un bambino. Ricordo pure che al termine della presentazione ci facemmo alcune foto – non solo con Andreotti, ma anche con amici lucani come Rocco Falciano e il grande Mauro Masi.

diconsoli@lecronache.info

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