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SE CHI SOFFRE È COSTRETTO A VERGOGNARSENE

Lettere lucane

Spesso mi chiedo se sia possibile una lettura psicoanalitica della civiltà contadina. Rispetto a qualche anno fa, però, ho notato che la civiltà di internet ha cancellato parole come nevrosi, depressione, ansia, angoscia, alienazione, ecc., perché, a differenza del ‘900, i social impongono modelli vincenti e superficiali, che non prevedono crisi, sofferenze profonde e cadute – gli anni d’oro del discorso psichiatrico sono senz’altro gli anni ‘70, quando per la prima volta si raggiunse, almeno in Italia e Francia, una straordinaria franchezza sull’argomento. Oggi il disagio va nascosto, e a prevalere sono formule cretine come “ridere sempre, arrendersi mai”. Poi però il malessere c’è, ed è profondo, anche se muto. Leggo da sempre i libri di psicologi, psichiatri e filosofi della mente – da Jervis a Guattari, da Jaspers a Musatti, da Groddeck a Lacan – e mi chiedo per quale ragioni oggi il discorso sulla mente e sul disagio venga affrontato esclusivamente in maniera funzionale – come fosse, il disagio, un difetto meccanico da aggiustare rapidamente, e non, appunto, un linguaggio, un discorso, una domanda profonda sull’Essere. Mutatis mutanids, siamo tornati alla civiltà dell’omertà e della reticenza contadina, quando qualsiasi sintomo anomalo veniva trattato con la reclusione nei manicomi – i lucani finivano in quello di Aversa. Trovo che gli anni ‘70 siano stati anni di straordinaria libertà espressiva – al di là del canone dominante degli “anni di piombo” – e di profonde analisi sui perché della vita. Tachicardie, capogiri, dipendenze, disturbi alimentari, parestesie, insonnie, ecc., tutto ormai viene inquadrato in una logica clinica. E invece il malessere psicosomatico è sempre il sintomo di una domanda inevasa, di un bisogno di ascolto e di una difficoltà a esprimersi. Averci costretto a vergognarci della sofferenza è uno dei crimini di questo tempo vacuo.

diconsoli@lecronache.info

 

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