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TENSIONE E TERRORE: COSÌ RIENTRANO GLI ITALIANI DA KABUL

LA TESTIMONIANZAI nostri connazionali lasciano l’ambasciata in Afghanistan. Un nostro contatto racconta l’assedio talebano

L’avanzata della milizia talebana a Kabul ha portato l’esodo di massa degli occidentali ancora operativi nelle Ambasciate e negli Uffici Governativi di stanza in Afghanistan. Anche i nostri connazionali sono rientrati con un volo speciale decollato in tutta fretta dall’aeroporto di Kabul e inserito in quella che è stata definita operazione “Aquila Omnia”. A supportare le operazioni di rimpatrio, militari del comando operativo interforze e dell’Esercito che dovranno coordinare le operazioni di rientro in Italia di tutto il personale diplomatico e di tutti i collaboratori.
A bordo di quel velivolo, un Kc767 dell’Aereonautica Militare arrivato a Fiumicino, circa settanta persone convocate mediante una mail con cui veniva formulato l’invito a lasciare il Paese. Una vera e propria evacuazione con rimpatrio immediato per questioni di sicurezza. Sulla ‘missione sicurezza’ degli italiani c’è il massimo riserbo, nessuno può comunicare dettagli importanti, divieto assoluto di raccontare con dovizia di particolari ciò che è accaduto nelle ultime ore nel Paese più martoriato della storia dell’ultimo ventennio. Riusciamo a strappare solo qualche dichiarazione in particolare sullo stato d’animo e su ciò che si è provato nei momenti della presa della capitale da parte dei talebani.
“Finalmente a casa” è l’espressione ricorrente di chi a Kabul ha trascorso gli ultimi anni, lavorando fianco a fianco con gli afghani, guardando oltre le proprie mura il palazzo del Governo locale preso d’assedio dalla milizia talebana. Le dichiarazioni ufficiali devono essere obbligatoriamente rese solo dagli Stati Uniti, ovvero da chi ha gestito per vent’anni le trattative. Quello che riusciamo a cogliere dalle voci rotte dall’emozione è che sono stati momenti terribili, con la situazione precipitata in poche ore mentre il resto del mondo non immaginava che potesse esserci una tale recrudescenza nell’avanzata talebana. Una situazione devastante moralmente in cui il primo pensiero è stato quello di mettere in salvo la vita. Tensione altissima anche nel momento dell’imbarco per il rischio che le milizie armate potessero invadere le piste di decollo. Non è semplice vivere e operare militarmente in quei territori: vedere i talebani schierati nei dintorni del palazzo del Governo afghano è stato indicativo di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco: a quel punto la prima regola ci dice un nostro contatto è abbandonare il luogo e mettersi in salvo. Ed è quello che hanno fatto i nostri connazionali che hanno sottratto al regime talebano anche alcuni civili afghani. Alcuni italiani rientrati a Fiumicino hanno avuto un pensiero per chi è rimasto: guardando il cielo hanno rivolto una preghiera per chi è ancora in Afghanistan. Sperano che non accada nulla nelle prossime ore, nei prossimi giorni e che tutti si riescano a mettere in salvo. Un pensiero a chi è ancora lì, dunque: già perché è lì che si lasciano non solo effetti personali dei quali non si rientrerà più in possesso, ma soprattutto si lasciano gli affetti: lavorare in quei posti, con l’adrenalina sempre addosso, permette di stringere rapporti con uomini e donne che diventano fratelli e sorelle con cui si condividono emozioni, timori, speranze. Sappiamo da fonti dirette che si lavora sempre in stato di allerta anche nelle Ambasciate perché in quei luoghi non sai mai cosa può accadere. “Ogni tanto ti svegli con un’aria pesante che sovrasta le giornate dice il nostro contatto sai a quel punto che ogni movimento è rischioso e anche affacciarsi ad una finestra può diventare molto pericoloso”. Sui volti di altri nostri connazionali l’incredulità ancora mista al terrore, alla paura tangibile negli occhi di chi ha lasciato la morte per ritornare a vivere pur se con il rischio altissimo di ritorsioni dietro le spalle.
In Afghanistan l’Italia lascia le sue impronte: la rappresentanza italiana era attiva dal 30 ottobre 2001 e si è conclusa il 29 giugno scorso con il rientro dell’ultimo contingente militare. Il ritiro delle forze militari italiane ha fatto seguito alla decisione del Presidente americano John Biden di ritirare le truppe degli Stati Uniti entro la fatidica data dell’11 settembre 2021. La missione militare italiana era di stanza ad Herat dove prevalentemente si è occupata dell’addestramento militare dell’esercito afghano. Cinquantamila i soldati che si sono alternati in questi dieci anni. Il nostro paese ha visto scorrere il proprio sangue in Afghanistan con cinquantatré militari caduti in attentati e attacchi terroristici. Dal 29 giugno scorso, nel Paese asiatico era rimasto solo il personale dell’ambasciata. Qualcuno è ancora lì ma il Governo italiano sta provvedendo ad organizzare il trasferimento in patria.
L’Afghanistan è ormai lontano, ma chi lavora in quei contesti sa che prima o poi ci dovrà tornare. Non sarà il Paese martoriato dai talebani, sarà qualche altro territorio pronto ad esplodere come una bomba ad orologeria: fatto sta che chi ha scelto di lavorare in questi contesti è consapevole di doversi mettere al servizio del resto del mondo. E una mano tesa verso l’integrazione, verso la ricostruzione sociale ed ideologica, a volte vale più della stessa vita.

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