Vivendo i profondi cambiamenti di questi ultimi decenni mi colpisce il fatto che anche nei nostri paesi il sentimento della solitudine si è acuito. Sempre più spesso amici vecchi e nuovi mi confessano di avere difficoltà a relazionarsi, di non trovare persone con cui condividere pensieri ed esperienze, di trovare gli altri estremamente deludenti, banali, egoisti. E mi chiedo: era così anche quando la comunità rurale non si era ancora trasformata in società liquida e poi in “community” virtuale? Era così forte il sentimento della solitudine quando si viveva tutti insieme un tempo sicuro cadenzato da riti codificati da secoli? È un tabù, la solitudine, e si ha paura a confessarla, perché confessarla significa ammettere di essere esclusi del grande circo dell’eterno divertimento globale. Eppure la solitudine è una malattia sempre più diffusa. Quante persone in questo momento hanno paura di aprirsi, tendono a difendersi, si sentono invisibili, sbagliate, poco interessanti, superflue, brutte, non comprese, ecc.? In un mondo in cui i valori dominanti parrebbero ormai essere la bellezza, il successo e la giovinezza, c’è davvero spazio per chi non corrisponde a questi canoni? Ma non è sempre colpa di questa vacua modernità. Spesso è colpa anche nostra, perché magari siamo troppo pigri, troppo permalosi, troppo insoddisfatti di noi, troppo insicuri, troppo presuntuosi, e convinti, sbagliando, che gli altri non siano alla nostra altezza. Per me il più grande problema politico del nostro tempo è proprio questa depressione di massa, questo sentimento negativo che abbiamo maturato verso noi stessi e verso il mondo, per cui è come se avessimo un vetro opaco davanti agli occhi. Analizzare a fondo questa malattia significa provare ad accettarci, a capire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, e da qui ripartire, con orgoglio e dignità per ciò che siamo nel bene e nel male.

diconsoli@lecronache.info

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