In questi giorni si discute molto sulla proposta di indire un referendum per decidere se abolire oppure no il reddito di cittadinanza. Come sempre più spesso mi accade, non ho idee definitive sull’argomento. In linea di massima sono contrario a tutte le misure assistenzialistiche che tendono – magari involontariamente, per carità – a impigrire la popolazione attiva e a renderla succube del sussidio di Stato. Ma obiettivamente ho notato che senza il reddito di cittadinanza la pandemia avrebbe avuto costi sociali molto più alti, e questo ha contribuito a modificare almeno in parte il mio giudizio negativo sulla misura. C’è però un argomento correlato sul quale si discute poco, almeno tra noi comuni mortali, e che secondo me è fondamentale. Mi riferisco a come incrociare in maniera efficiente sul territorio la domanda e l’offerta di lavoro. Mi sono sempre chiesto, cioè, perché i vecchi uffici di collocamento non abbiano funzionato. Sicuramente c’è un elemento di incapacità da parte dello Stato di organizzare una rete efficiente sul territorio, ma secondo me al fondo della questione c’è anche un altro aspetto, ovvero il fatto che in Italia la domanda e l’offerta di lavoro s’incrociano di sovente per via amicale. Non voglio denunciare populisticamente un malcostume, ma sottolineare il fatto che in un Paese molto poco coeso e pieno di trappole e di ostilità di ogni tipo, chi dà lavoro preferisce avere persone brave ma anche di fiducia, e le persone di fiducia, a loro volta, non possono che essere “segnalate” da altre persone di fiducia. E la fiducia è un “valore” che lo Stato non potrà mai garantire con le sue asettiche graduatorie. In Italia non basta garantire professionalità, ma anche fedeltà, capacità di mitigare i conflitti, bassa litigiosità, quasi una sorta di immedesimazione nei problemi di chi ti dà un lavoro. Un “amico”queste doti può garantirle, lo Stato no.