Come tutti sanno, in Basilicata sta nascendo una Facoltà di Medicina. Questa cosa mi fa ricordare che per qualche anno fui indeciso se iscrivermi a Lettere o a Medicina. Da sempre faccio il critico letterario – non come vorrei, purtroppo, perché per vivere sono costretto a fare altro – e devo dire che il mestiere del critico letterario ha molto a che vedere con il mestiere di medico. Sono profondamente affascinato dalla vecchia guardia di medici, spesso colti e capaci di fare diagnosi olistiche – osservavano attentamente, coglievano aspetti secondari, mettevano in connessione pezzi in apparenza distanti, ascoltavano e osservavano attentamente gli occhi, le mani, il cuore, il respiro, la pelle, la lingua, ecc. Oggi i medici più giovani sono molto più specializzati, ma spesso hanno un approccio post-umanistico, nel senso che raramente sanno leggere con sicurezza e originalità il testo del corpo – il corpo infatti è come un libro – senza ricorrere a strumenti tecnologici. Anche nella critica letteraria emergono sempre di più “scienziati del testo” – strutturalisti, filologi, ecc. – ma la capacità di fare diagnosi della critica militante rimane unica, benché a volte insufficiente da un punto di vista “scientifico”. Fare una diagnosi è la cosa più importanti in assoluto, sia per un medico che per un critico letterario, perché la diagnosi permettere di capire esattamente come funziona ciò che si analizza. Sia i medici che i critici letterari sono come dei commissari di polizia che provano a risolvere un giallo: nel caso della medicina, la causa di un malessere; nel caso della letteratura, il movente, il segreto nascosto di un libro – quello che non tutti riescono a vedere. I grandi sono sempre coloro che non hanno pregiudizi, e che affrontano il testo scritto o il testo del corpo senza preconcetti, ma con curiosità, intuito, pazienza, amore e improvvise folgorazioni.