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LA MANCANZA DI RISPETTO PER CHI VIVE UN LUTTO

Lettere lucane

Ricordo che quando qualcuno moriva a Fratta o nei dintorni, i miei genitori mi impedivano per qualche giorno di accendere la televisione e la radio. Era una forma di rispetto per il dolore degli altri. Oggi si dice: “Sì, ma cosa cambia? Tanto il morto mica può tornare”. Sembra un’obiezione impeccabile; in realtà – ma è soltanto un mio modo di vedere le cose – contiene in sé un elemento di volgarità. La stessa che noto in alcune scene di divertimento sfrenato di queste ultime settimane. Ripeto, è corretto dire che quando una persona muore, quella persona non può più tornare in vita; ma chi rimane, chi ha voluto bene a quella persona, ha bisogno di delicatezza, e di rispetto, perché le assenze feriscono, provano, distruggono, e sono ferite da curare con il tempo e con la sensibilità del mondo. Io capisco bene che il mondo debba sempre guardare avanti, e non farsi azzoppare dal dolore; e capisco l’esigenza di rimettere in moto l’economia e di lasciarsi alle spalle questi duri mesi di lutti e di paure. Ma c’è un limite a tutto. Perché abbiamo avuto quasi 130.000 morti, e per forza una parte dei nostri comportamenti deve tenere conto di questo dolore, perché non tutto può essere ricondotto a dialettiche politiche o economiche. Certe feste, certe risse, certi riti pacchiani sono uno sberleffo a chi sta ancora facendo i conti con la malattia, con la paura, con la morte – appunto, con le assenze. Non tutto è presente – anzi, “eterno presente”. Noi esseri umani non siamo soltanto proiettati nel futuro con pervicace determinazione, ma abbiamo bisogno di dare un senso ai nostri ricordi, di riannodare i fili spezzati del passato, di dialogare con le ombre – con chi, lasciandoci, ci ha lasciato un vuoto. Non dico spegnere la televisione e la radio come si faceva ai miei tempi; ma nemmeno essere così strafottenti, così volgari, così privi di pudore e di delicatezza.

diconsoli@lecronache.info

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