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LE DONNE SFRUTTATE NEI CAMPI “DELLA MARINA”

Lettere lucane

In passato ho avuto la possibilità di visitare per ben due volte il ghetto dei braccianti africani di San Severo, in provincia di Foggia. Ricordo una bidonville infernale, fuochi accesi, miasmi, baracche di fortuna, miseri mercatini improvvisati a terra, finanche una casupola di lamiere adibita a postribolo. In questi giorni sono tanti gli africani che lavorano per pochi euro al giorno nelle coltivazioni del Metapontino. So bene quanto siano bassi i margini di guadagno per chi produce prodotti a basso costo e di largo consumo; ma so anche bene quanto possa essere spietato il genere umano. Mi auguro che gli africani che si spaccano la schiena sulle nostre terre siano sempre più tutelati, e che le loro condizioni di vita possano concretamente migliorare anno dopo anno. Ma so che è difficile, perché un pezzo di agricoltura industriale italiana è di fatto un buco nero. Lo stesso trattamento che noi riserviamo oggi agli africani, un tempo veniva riservato a noi italiani. E penso al dramma poco conosciuto dello sfruttamento delle donne lucane nei campi del Metapontino negli anni ‘70, ‘80 e, in parte, ‘90. Io questa durissima pagina di storia sociale la ricordo personalmente. Negli anni ‘80 molte madri di famiglia di paesi come Viggianello avevano come unica possibilità di lavoro andare “alla marina”, e lavorare per venti mila lire al giorno, anche se “in regola”. Mia zia Maria, sorella di mia madre, ci è andata per anni, “alla marina”. Si svegliava alle tre e mezza del mattino; poi, poco dopo le quattro, passava il furgone del caporale, che andava a prendere “le donne” nelle varie contrade. Verso le sei e mezza arrivavano nei campi. Infine il rientro a casa, di sera, dopo aver fatto il solito massacrante giro delle contrade. Mia zia era stremata, pallida, col voltastomaco. L’unica differenza con chi ci butta il sangue adesso, “alla marina”, è che mia zia aveva la pelle bianca.

diconsoli@lecronache.info

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