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LE MANI DELLO STATO SU CULTURA E SPETTACOLO

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Sto seguendo anch’io il dibattito sulle difficoltà del mondo della cultura e dello spettacolo in Basilicata – ma il tema è non soltanto nazionale, bensì mondiale. A mio avviso la pandemia ha esasperato e reso evidenti i limiti strutturali di un mondo afflitto sostanzialmente da iper-produzione. Non soltanto si produce troppo rispetto alla reale domanda del mercato – troppi film, troppe serie, troppi giornali, troppi siti, troppi festival, troppi eventi, troppi libri, ecc. – ma in più non c’è nessuna corrispondenza tra la massa professionale che vuole lavorare nel mondo della cultura e dello spettacolo e la reale offerta di lavoro del mercato. E’ del tutto evidente che una simile impasse non può che creare angoscia e disagio. Lo Stato in tutte le sue articolazioni ha deciso di rispondere a questa grave situazione sottolineando l’importanza educativa, identitaria e sociale della cosiddetta “industria culturale”, decidendo si sovvenzionare cospicuamente questo mondo – dal cinema all’editoria al teatro. Chi è del mestiere sa bene, per esempio, che è quasi impossibile realizzare un film senza ricorrere ai fondi della Rai, del Ministero, delle Film Commission, del tax credit, ecc. Perché il mercato è povero ed è assediato da migliaia di proposte di ogni tipo. Inutile dunque girarci intorno: in una simile situazione socio-economica, l’arte rischia di diventare arte di Stato. Ora, il problema a mio avviso non è tanto quello di innescare meccanismi di censura o auto-censura – ovviamente c’è anche questo rischio, perché essendo il principale committente lo Stato è chiaro che tenderanno a prevalere i progetti educativi, edificanti e più “corretti”, diciamo così – ma di privilegiare chi sa instaurare rapporti di “vicinanza” con i potenti della politica e della burocrazia statale e parastatale, penalizzando le figure più anarchiche, libertarie e fuori dagli schemi.

diconsoli@lecronache.info

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