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PARTITE IVA E IMPIEGATI PUBBLICI, FIGLI E FIGLIASTRI

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Sono una partita Iva sin dal 2000. E dunque sono vent’anni che conosco dal di dentro i problemi – anzitutto fiscali – dei liberi professionisti. Essere una partita Iva significa scoprire una verità agghiacciante: che l’Italia punisce chi lavora tanto e chi accetta le incognite del mercato – perché chi fattura 100.000 euro all’anno subisce una pressione fiscale del 65%, e questa non è giustizia sociale, ma esproprio leninista. In Italia viene premiato chi fa poco o non fa niente, mentre chi punta a fatturare molto viene perseguitato, considerato un ladro, un evasore. E io trovo questa mentalità sbagliatissima, perché chi guadagna molto contribuisce in maniera determinante al gettito fiscale, ai consumi – i consumi sono anche entrate fiscali –, agli investimenti, ecc. La giustizia sociale non si ottiene aumentando assistenzialisticamente il numero dei poveri, ma facendo in modo che tutti possano lavorare e guadagnare di più aumentando opportunità e rendendo la pressione fiscale sostenibile (dovrebbe riguardare al massimo un terzo dell’imponibile). In Italia – e in Basilicata più che mai – sta dilagando una mentalità socialistoide per cui si crede che le risorse dello Stato siano infinite. Io dico che non bisogna punire i ricchi, ma fare in modo che chi è povero abbia strumenti per mettersi in gioco, migliorarsi, impegnarsi. Ecco perché sono dalla parte dei liberi professionisti e degli imprenditori che in queste settimane stanno protestando duramente per far capire che il Fisco non può continuare a torturare chi ha avuto cali di fatturato ed è di fatto fuori mercato. Anche perché una domanda sorge spontanea: come mai gli impiegati pubblici non danno una mano allo Stato cedendo una piccola parte del proprio stipendio? E come si può invocare unità nazionale se gli impiegati pubblici non sentono il bisogno di dare un corposo segnale di solidarietà in un momento come questo?

diconsoli@lecronache.info

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