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QUANTO DEVE DURARE IL LUTTO DELLA BASILICATA?

La riflessione

DI LUCIA SERINO


Le scale mobili, come ben sanno tutti i potentini, prima dell’ultima rampa che porta agli ascensori di Piazza XVIII agosto, sono un piccolo ma irrinunciabile museo della memoria del terremoto dell’80. Una teca di vetro a terra (in verità da ripristinare per le gocce di umidità che si sono create all’interno) segna la data e l’ora della scossa, alle pareti le gigantografie delle prime pagine dei quotidiani dei giorni dell’emergenza, le foto della città transennata e infine, la foto delle foto, quella del dolore, del lutto, che ha i volti di cinque donne vestite di nero fino al collo e il capo coperto da un fazzoletto.

Guardano tutte nella stessa direzione, non è perso lo sguardo, ma è impietrito su ciò che vedono come a riconoscere l’impotenza umana davanti a ciò che è accaduto, il tempo irrigidito dal destino, le labbra chiuse, perché la tragedia lascia senza parole. Lo stare assieme, una accanto all’altra, unico conforto a tanto stordimento.

Fu la prima cosa che mi colpì quando arrivai a Potenza, poi l’abitudine, come credo capiti a tutti i potentini, ha neutralizzato l’impatto visivo di quell’immagine. Si sale e si scende senza più fermarsi, senza farci più caso. Ieri, però, quella foto mi ha di nuovo rapita, e stavolta non con la forza di una consapevolezza necessaria e ineludibile di ciò che in questa città è successo, ma con un effetto all’improvviso respingente che ho ricondotto in un primo momento alla condizione che stiamo vivendo, e alla scarsa capacità di reggere uno sguardo di dolore.

Poi ho riflettuto sul tempo trascorso da quello scatto e sull’idea della Basilicata e del suo capoluogo, su come essa si rappresenta arrivando in cima alla città e sulle convinzioni, fuorvianti, che può trasmettere a chi vuole conoscerla o, anche, inconsapevolmente, a chi cresce qui: quanti anni deve durare il lutto della Basilicata? Perché solo il dolore deve rappresentarla?

Qual è il contrappeso emotivo al passaggio davanti a quel sacrario di morte? Dov’è la raffigurazione del futuro e la scommessa sulla modernità, dov’è la gioia e perché mai dovremmo rinunciarci? Questo ragionamento non è un oltraggio alla memoria, quel piccolo antro del ricordo di una data così centrale nella vita recente della regione, è tutto sommato giusto che rimanga lì. Però è anche arrivato il momento di aggiungere altro, di apparire, anche figurativamente, senza più quell’antropomorfiale vianache ci lega inconsciamente a un archetipo di società che, proprio nei momenti di crisi come quello che viviamo, ci potrebbe apparire rassicurante e protettivo. Un salto all’indietro come certezza di resistenza.

Quel memento così lugubre si deve, oggi più che mai che siamo dentro a un nuovo lutto, accompagnare a uno sforzo di immaginazione sul futuro, senza più donne col capo coperto e, si spera al più presto, senza più mascherine, quando si potrà. La Basilicata non è ferma al terremoto, e non potrà essere ferma al Covid. Il lutto non è l’unica condizione da raccontare, in uno stato di perenne flagellazione della memoria. Si può, si deve andare avanti, con rispetto del passato, ma con fame di domani.

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