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APPUNTAMENTO CON LA MORTE, STEFANUTTI «ANDÒ GIÀ ARMATO DI SUO»

Ecco le motivazioni della Cassazione: il teste che scagionava l’assassino non attendibile perchè «aveva paura» di lui

Non 3, ma 4 pistole per un omicidio: la notte tra il 28 e il 29 aprile del 2013, Rocco Dorino Stefanutti, recandosi andò «“armato di suo”» presso l’abitazione di Donato Abruzzese, in via Parigi a Potenza, ponendosi così «volontariamente nella situazione di pericolo della quale era del tutto prevedibile e voluto l’esito rappresentato dal conflitto a fuoco, il che esclude la fattispecie scriminante» della legittima difesa. È questo uno dei passaggi tra i più fondamentali delle depositate motivazioni poste a base della sentenza della Cassazione con cui gli “ermellini”, lo scorso febbraio, hanno confermato la condanna a 18 anni di reclusione per Stefanutti che sosteneva di esser stato «aggredito per primo». I giudici hanno vagliato, ritenendolo dato «centrale», anche l’attendibilità della moglie della vittima, che anche in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, confermò di aver visto «Stefanutti armato di pistola». La donna, però, sentita dagli inquirenti 2 ore dopo l’omicidio, verso le 3 e 30 di notte, e la mattinata dopo, verso le 9 e 30, il dettaglio della pistola non lo aveva detto. Riferì che Stefanutti era armato, quando nella stessa giornata, verso le 16,25 del 30 aprile, fu nuovamente ascoltata dagli inquirenti. Per i giudici, nulla di strano, avendo attribuito la dimenticanza allo shock per tragica morte del marito e non per l’ipotizzata «concertazione» della versione dei fatti con Acierno che anche era lì quella notte.

Acierno fornì indizi anche sul movente dell’omicidio, rappresentato dal contrasto insorto tra Stefanutti e Abruzzese dopo che quest’ultimo aveva interrotto il rapporto commerciale con il primo. La sera dell’omicidio, assassino e vittima, dopo un incontro al ristorante Singapore uscirono «con rinnovati e impellenti propositi di sfida». Dall’autopsia risultò che Abruzzese era stato attinto da 5 colpi sparati da pistola calibro 9. La mattina del 29, la polizia giudiziaria, avuta «la relativa indicazione da tale Acierno Gerardino», trovò in una aiuola prossima al palazzo di via Parigi 12, tre armi: una pistola calibro 6,35, una pistola calibro 9 e un revolver calibro 10,35. Come Acierno dichiarò, prima dell’arrivo dei soccorsi, la sua versione di aver chiamato prima il 118 e poi di aver nascosto le armi è stata ritenuto attendibile dalla Cassazione, lui stesso fece «sparire» la pistola impugnata da Abruzzese, l’altra che Abruzzese portava alla cintola e un’altra che si trovava a terra alla sinistra del corpo della vittima.

Poi, però, ci sarebbe pure «la quarta pistola mai ritrovata a Stefanutti». Valutata anche l’attendibilità delle dichiarazioni di Gianfranco Siesto, acquisite agli atti senza riconferma in aula, poichè deceduto, che «presente alla cena con Abruzzese e con lui in auto quando si allontanarono dal ristorante», non solo riferì dell’«esternazione da parte di Abruzzese della volontà di uccidere il rivale», ma anche che «l’imputato non era armato» e che, pertanto e verosimilmente, Stefanutti sparò con la pistola che era riuscito, negli attimi concitati pre-omicidio, a sottrarre proprio ad Acierno. Per i giudici, teste inattendibile, poichè le dichiarazioni «“nuove”» date «dopo un periodo di carcerazione trascorso insieme con Stefanutti, rispetto al quale, al suo ingresso in carcere, aveva manifestato la propria paura».

Ferdinando Moliterni

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