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LAVORARE “A GIORNATA” O REDDITO DI CITTADINANZA?

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Ho lavorato per tanti anni “a giornata”. Non guadagnavo tanto, ma potevo racimolare ciò che mi serviva per mantenermi agli studi. Il lavoro bassamente specializzato è sempre nobile, e raramente non si riesce a trovare quando si ha davvero buona volontà. Certo, non si guadagna molto – io da cameriere, negli anni ’90, guadagnavo trenta o quarantamila lire al giorno – ma intanto si lavora, si sopravvive, si sta in mezzo alle persone, ci si industria per trovare qualcosa di migliore. Se fossi costretto a tornare a vivere in paese – salute permettendo: la salute è tutto – mi metterei subito in cerca di lavori manuali tipo tagliare la legna, falciare l’erba, raccogliere ortaggi, ecc. Se ti impegni, quaranta euro al giorno li rimedi sempre, e in più ti fanno mangiare a pranzo. Ma, soprattutto, stai in mezzo agli altri, ascolti storie, trovi nuove opportunità. Tutto il contrario di ciò che avviene ai ragazzotti in buona salute a cui vergognosamente lo Stato elargisce per anni un reddito di cittadinanza senza lavorare e senza impegnarsi su nessun fronte. Ripeto, non sto parlando di quanti, in là con gli anni, hanno problemi di salute o di capacità lavorativa, ma dei tanti giovani e forti che si fanno calpestare la dignità con un umiliante stipendio assistenzialistico. Lavorare “a giornata” per 20 giorni al mese significa guadagnare – se va bene – 800 euro, ovviamente in nero (i voucher avevano risolto il problema del nero, ma furono abiliti per ragioni ideologiche). Ebbene, col reddito di cittadinanza – senza lavorare, stando comodamente sul divano – uno porta a casa quasi la stessa cifra. Perché, dunque, lavorare? Il reddito di cittadinanza non è soltanto nella maggior parte dei casi un enorme spreco di risorse pubbliche, ma anzitutto un grave problema culturale, perché fa intendere che in Italia si può indifferentemente lavorare come non lavorare: il risultato non cambia.

diconsoli@lecronache.info

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