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COME LAVORAVANO I CONTADINI DI UNA VOLTA

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Vivo in una città caotica; e, questo caos, giorno dopo giorno tende a prendersi tutto: i ritmi del corpo, il modo di lavorare, ecc. Le persone corrono, si arrabbiano, si disperano sulle strade per un ritardo, un parcheggio, una multa; sul lavoro, invece, si tende a fare troppe cose, a nevrotizzarsi, a farsi sfiancare da frustrazioni, competizioni, litigi. Forse si vuole fare troppo; o forse a nessuno sta più bene di avere soltanto una vita: se ne vorrebbero avere due, dieci, cento, mille. Faccio queste riflessioni al termine di una riunione dove tutti hanno parlato e poco ascoltato, tutti letto sui cellulari a capo chino, tutti dimostrato di pensare ad altro, di avere altri pensieri, interferenze, malumori, idiosincrasie, ecc. Mentre guardavo i miei colleghi – e provavo a osservarmi senza nessuna tentazione di mettermi al di sopra degli altri – mi sono tornate alla mente certe immagini lontane – armoniose, olimpiche – della mia giovinezza in campagna, a Rotonda, quando trascorrevo molto tempo nelle terre con gli anziani, dai quali amavo ascoltare storie, ricordi, aneddoti, leggende. E di colpo ho rivisto mio nonno Angelo, Vincenzo del Cozzo,  zio Ciccillo, zu’ Gaetano – ognuno in un tempo diverso, ognuno in una diversa terra – che lavoravano lenti, calmi, decisi, fino in fondo calati nel dovere, nella loro antichissima morale lavorativa. La cosa che mi impressionava di questi miei giganti era il fatto che lavoravano giorni interi senza mai cambiare ritmo, perché la loro forza era proprio la consapevolezza che la durata è possibile soltanto nella calma, nell’armonia e nella costanza. Mio nonno, per esempio, zappava dalla mattina alla sera; e ci riusciva, nonostante la durezza di quel lavoro, perché lo faceva lentamente, con ritmo cadenzato, con un andamento sereno che non gli faceva perdere nemmeno un grammo di energia. Poi, l’armonia è andata perduta.

diconsoli@lecronache.info

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