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IL MALESSERE DELLA POLIZIA PENITENZIARIA

Lettere lucane

Sono le classiche notizie che non fanno notizia, ma che svelano un mondo sommerso e poco conosciuto. Un poliziotto penitenziario del carcere di Melfi è stato aggredito da un detenuto – uno di quelli evasi dal carcere di Foggia l’8 marzo scorso – con un pungo alla nuca. A scatenare la violenza, almeno da ciò che apprendiamo dal Sappe (Sindacato autonomo Polizia penitenziaria), sarebbe stata la segnalazione da parte del poliziotto di un’infrazione del detenuto. Ma, come dicevo sopra, questa notizia non fa scalpore, è una “breve in cronaca” di cui si legge a malapena il titolo, ma il mondo che svela – la sofferenza della Polizia penitenziaria – è di straordinaria gravità. Purtroppo se ne parla poco, ma chi vive in carcere non da detenuto ma da forza dell’ordine vive di fatto da carcerato con, in più, addosso la diffidenza e l’ostilità dei carcerati. Stare chiusi in carcere senza aver commesso reati espone a uno stress emotivo e fisico molto forte. A questo si aggiungono le pressioni organizzative – tanto per usare un eufemismo –, e le minacce e le aggressioni dei detenuti, che sfogano sui poliziotti le loro rabbie e le loro frustrazioni. Vivere in carcere per giorni, mesi e anni – sempre a contatto con la violenza verbale e fisica, il degrado, la paura – porta anche i più forti emotivamente a rischiare di ammalarsi di ansia o depressione, parole tabù, purtroppo, nel mondo “virile” delle forze dell’ordine. Ma non parlarne è un grave errore, perché dei suicidi dei poliziotti penitenziaria sappiamo tutti, e credo che non sia intelligente e generoso non affrontare il problema. La verità è che quando entri in un carcere, per qualsiasi motivo tu lo faccia, nel momento in cui le porte di ferro si chiudono dietro di te, in quel momento sei un carcerato come tutti, anche se sei lì dentro da poliziotto, da professore o da direttore.

diconsoli@lecronache.info

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