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CHI DI SPERANZA VIVE, DISPERATO MUORE

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Nello sguardo da adolescente invecchiato a cui ci ha ormai abituati Roberto Speranza non c’è solo la malattia infantile della sinistra quando governa pure il destino di un Paese, ma anche la sua vocazione alla dissolvenza con cui avanza, ritratta, cestina ogni cosa, in un incrocio di abitudini oscillanti da far impallidire d’incertezza persino Amleto. Ora lasciamo stare la sua distanza dalla sanità, avendo nella sua vita coltivato paginette marxiste e soprattutto sperticato le mani sulle mosse fallimentari di D’Alema e Bersani, ma che usasse la logica del pendolo anche contro se stesso nessuno l’avrebbe mai potuto immaginare. Eppure per resistere all’aria del tempo, per dirla con Camus, Speranza, in piena crisi pandemica e nonostante l’ordalia di riunioni e provvedimenti, s’è improvvisato di colpo saggista, sbagliando titolo e data d’uscita di un libro che poi ha prontamente bloccato e che gli è valso la visita d’ironia notturna delle Iene, da cui è fuggito in pavida ritirata. Peggiore sorte è toccata anche al suo cognome, definitivamente giubilato dal tasso di letalità italiana, il più alto d’Europa e su cui ha smesso da tempo di fare benauguranti quanto inefficaci battute. Ha scritto con la lucidità del caso Franz Kafka: “C’è molta speranza, ma nessuna per noi”.

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