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SULLA POESIA DIALETTALE È CALATO IL BUIO

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Quando iniziai a studiare la letteratura italiana – grosso modo nei primi anni ’90 del secolo scorso – la poesia dialettale era molto considerata dalla critica. Forse perché era ancora vivo il tema del rapporto tra centro e periferia, tra culture egemoni e culture subalterne; o forse perché non si era ancora diffuso l’esperanto inglese, che ha reso sempre più marginale la lingua italiana – figuriamoci i dialetti. Ricordo ancora, anche grazie a incontri fortunati come quelli con Franco Brevini, Ugo Vignuzzi e Dante Maffìa, che alla metà degli anni ’90 la poesia dialettale aveva ancora una sua centralità, e forte era l’eco di studi cruciali come quelli di Muscetta sul Belli o di Pasolini sulla poesia popolare. Albino Pierro, tanto per fare un nome a noi caro, aveva la migliore artiglieria critica schierata intorno alla sua opera, da Contini a Mengaldo. Poi, nel volgere di pochi anni, il plurilinguismo è diventato sempre più episodico, e la letteratura dialettale definitivamente rubricata a esperienza provinciale e di retroguardia. Il fenomeno è molto interessante, perché nella realtà i dialetti non sono mai scomparsi, anzi, sembrano più vivi che mai, ma la letteratura li ha come rifiutati, in tal modo, a mio avviso, portando allo scoperto un senso di inferiorità e, al contempo, un totale disinteresse per “la questione della lingua”. C’è un poeta lucano che paga in prima persona il momento sfortunato della poesia dialettale. Si chiama Domenico Brancale, è del 1976, ed è originario di Sant’Arcangelo. Ebbene, di Brancale, della sua interessante poesia, si parla poco, perché alla poesia dialettale, piena di sollecitazione storiche, antropologiche e linguistiche, si preferisce troppo spesso opere narrative d’intrattenimento omogeneizzate e depurate di ogni forma di identità. Di Brancale consiglio di leggere “Scannacucce” (Mesogea); e chissà che il discorso non si riapra.

diconsoli@lecronache.info

 

 

 

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