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COVID-19, IL DIRITTO ALLA PRIVACY DEGLI AMMALATI

Lettere lucane


La paura del contagio nelle grandi città è una paranoia senza volto, un’ossessione astratta. L’anonimo brulichio delle grandi città non permette di dare un nome e un volto all’untore. Chiunque potrebbe averci infettato: il barista, la cassiera, il vicino di posto sul tram. Tutta gente che non conosciamo, di cui ignoriamo il nome e la storia. Nei piccoli paesi, invece, è diverso. Ed è peggio. Perché nei piccoli paesi ogni volto che incroci ha un nome e una storia, e se una persona risulta positiva, tu immediatamente entri in paranoia, perché è vero sì che ci hai parlato a un metro di distanza, ma magari, sia pure attraverso le mascherine, il virus è passato ugualmente, e tu ora sei malato per “colpa” sua. Come ben sapete, ogni giorno noi apprendiamo il numero esatto dei positivi. E in Basilicata la ripartizione avviene paese per paese. A volte in un paese risulta un solo positivo. A quel punto scatta la caccia al nome con una girandola di messaggi allarmati su Whatsapp. Non poche volte, esasperati dalla pressione, i positivi si sentono addirittura in dovere di dichiarare pubblicamente l’esito del tampone. Quando i sindaci dei nostri piccoli comuni comunicano su Facebook che un loro concittadino è risultato positivo, i commenti che si leggono sotto ai loro post sono implicitamente spietati, vili, delatori. L’unico obiettivo della gente è sapere il nome dell’infetto, così da capire se è stato ligio oppure no nel rispettare la quarantena. A quel punto parte la caccia all’untore, che non poche volte si colpevolizza e si chiude in un silenzio ostile e depresso. Passano i secoli, ma non passa questa pulsione arcaica di cercare il colpevole, di perseguitarlo, di colpevolizzarlo per essersi ammalato. Trovo tutto questo gravissimo e indecente. Perché nei piccoli paesi la privacy dovrebbe essere un diritto come nelle grandi città.


diconsoli@lecronache.info

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