Durante la giornata parlo con molti lucani al telefono. Mi raccontano paure, fatti, pensieri. Anche quando sono a Roma non interrompo mai il dialogo con le persone della mia terra. Le telefonate di questi giorni sono tristi, pieni di interrogativi e di rabbia. Sento che molti si fanno forza con l’adagio “tanto noi viviamo di poco”, ma quello che sembra poco, a vederlo bene, è tanto, e ora è in pericolo. Non so perché, ma in questi giorni penso spesso a “L’uomo che piantava gli alberi”, un romanzo breve del 1953 dello scrittore francese Jean Giono. Mi piacerebbe che lo leggessero in tanti, perché lì dentro c’è esattamente ciò che vorrei dire a me e agli altri in questi giorni drammatici. La storia del romanzo è semplice ma gigantesca: un pastore di mezz’età, durante la prima guerra mondiale, anziché partecipare alla distruzione dell’umanità, pianta in solitudine, dopo aver perso la moglie, centinaia di migliaia di ghiande. Un giovane va a fargli visita nel 1913, e osserva stupito il suo proposito di creare un bosco. Poi va in guerra. Nel 1920 ritorna da lui ma, tornando, nota che tutto è cambiato: il paesaggio brullo e senz’acqua si è completamente trasformato. La landa desolata di una volta è diventata un’immensa foresta. Il pastore, nella solitudine più assoluta, aveva realizzato il suo sogno. Noi ora siamo assediati dall’ansia, dalla rabbia, dalla depressione, e avere ottimismo non è semplice. Tuttavia non possiamo permetterci – per dovere rispetto alle future generazioni – di crollare, di non dare l’esempio, di non preparare, a costo di immani sacrifici, un futuro dignitoso. Mi piace pensare che in questi mesi di impoverimento e di dolore, ovunque – a Teana, a Pietragalla, a Pomarico, a Barile, a sant’Arcangelo, ecc. – sempre più persone, con disperato ottimismo, piantino metaforicamente alberi proprio come il protagonista del romanzo di Jean Giono.
diconsoli@lecronache.info

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