“AVERE UNA PATOLOGIA NON È UN “DIFETTO”
Ogni giorno è una sfida: «mi definiscono supereroe, ma ho solo imparato a convivere con la Retinite pigmentosa»
Salvatore Cella è di Muro Lucano, ma da diversi anni ormai vive a L’Aquila dove persegue sia la Laurea triennale che quella Magistrale, entrambe con 110 e lode. Il suo approccio con la musica avviene all’età di 14 anni, oggi è un bravo musicista, in particolare con la fisarmonica. Ha già vinto numerosi premi e concorsi nazionali ed internazionali, e si esibisce frequentemente in concerti da solista e in formazioni cameristiche. Salvatore è un vero talento insomma. Anche quando parla della sua patologia, la retinite pigmentosa. E lo fa in modo dissacrante. Non di rado sui social si leggono suoi accadimenti e aneddoti di vita quotidiana in cui racconta, sdrammatizzando con ironia, i problemi che questa malattia quotidianamente gli pone innanzi. Proprio nel solco di questa sua apertura, gli chiediamo una intervista che ci accorda senza esitare, per “sdoganare” il tema della riservatezza dinanzi ad una malattia.
Fissiamo subito l’appuntamento per l’intervista e gli chiediamo: Quando hai iniziato ad avere i primi sintomi, e di che patologia si tratta? «È una malattia genetica ereditaria e degenerativa della retina. Per intenderci, la stessa che ha la cantante Annalisa Minetti, che partecipò anche al Festival di Sanremo, e spesso testimonial anche delle campagne informative. Dovrebbe essere una malattia rara, che colpisce 1 persona su 30.000 ma purtroppo i numeri sono in aumento. Con essa si intende un gruppo di malattie ereditarie della retina che provocano perdita progressiva della vista fino ad arrivare, nei casi più gravi, alla cecità totale. Nella forma più comune, i primi sintomi consistono nella diminuzione della capacità di vedere in condizioni di penombra e nel restringimento del campo visivo. Altre volte invece, si inizia con la perdita della parte centrale del campo visivo. Si tratta dunque di una patologia molto soggettiva, per cui non c’è una diagnosi standard. Io sono nato così ed ho sempre visto nello stesso modo, sono un ipovedente, quindi nella categoria tra i normovedenti e i non vedenti».
Quando ti fu diagnosticata e quale fu la reazione? «Mi fu diagnosticata all’età di 5 anni, quindi non ricordo quel momento, ma da sempre rammento che i miei genitori mi spiegarono la Retinite. Posso testimoniare comunque che è vero che quando uno dei 5 sensi viene a mancare, gli altri si amplificano: una cosa che ho fatto è memorizzare ad esempio i bordi delle monete tenendole in tasca, ma le difficoltà maggiori le riscontro di notte, anche se vi sono luci soffuse o quando c’è una luce molto forte, o penombra. Così ho sviluppato degli escamotage: memorizzo ogni minimo dettaglio, ed uso i numeri, conto le scale o memorizzo i percorsi e le voci, per riconoscere le persone. Qualcuno mi ha definito un “supereroe”, ma io non faccio nulla di speciale, se non affrontare la vita e tutto ciò che ne comporta».
Per Salvatore tutto è iniziato proprio dalle scale di casa, all’epoca però la Retinite pigmentosa ancora non era conosciuta, poi un medico di Salerno riuscì a diagnosticarla consigliandogli il centro di Ricerca del Policlinico Federico II di Napoli, dove con la Dottoressa Simonelli ha intrapreso il suo percorso di controllo ed esami da oltre 20 anni.
Hai mai taciuto le complicanze derivanti dalla Retinite pigmentosa? «Ho passato tutta la fase adolescenziale e preadolescenziale cercando di rincorrere quella “normalità” che la società continua a propagandare. Volevo dimostrare a tutti i costi che anche io potevo fare tutto, essere tutto, come chiunque altro. Ma più mi sforzavo e più notavo che c’era qualcosa che non andava. In quell’accanimento stavo dimenticando me stesso, quello che sono. Non mi stavo guardando. Non volevo guardarmi. Con il tempo ho capito che se agisco mosso dalla voglia di conformarmi non sto agendo davvero per me stesso. Ho capito che non sono io quello che si deve conformare, ma è la società che deve aprirsi alla presenza di tutte le soggettività, e grazie all’umorismo e all’autoironia ho trovato una valvola di sfogo per gestire la rabbia e la frustrazione verso una società che non ha mai previsto la mia presenza. Siamo nel Disability Pride Month e io ci ho messo un po’ a comprendere davvero il significato di orgoglio. Trovare l’orgoglio dentro di noi è un percorso lungo e complicato. Esattamente com’è complicato per una pianta crescere in un terreno ostile. Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni, ci sono giorni in cui senti di poter raggiungere qualsiasi obiettivo, e giorni in cui vorresti mollare tutto perché gli ostacoli sono troppi. Giorni in cui ti senti un leone pronto a spaccare il mondo e giorni in cui ti assale la stanchezza e vorresti solo che tutto fosse più semplice. Be proud of who you are, nei giorni buoni e nei giorni meno buoni. Non mi stavo guardando. Non volevo guardarmi».
Oggi invece ne parli pubblicamente, come hai iniziato? «All’inizio ero sempre molto negativo, non nego che anche oggi ho dei momenti di nervosismo, ci sta. Ma più passa il tempo più diventano momenti rari, grazie soprattutto alle persone che mi hanno apprezzato per come sono. Con il tempo ho capito che se agisco mosso dalla voglia di conformarmi non sto agendo davvero per me stesso. Ho capito che non sono io quello che si deve conformare, ma è la società che deve aprirsi alla presenza di tutte le soggettività, e grazie all’umorismo e all’autoironia ho trovato una valvola di sfogo per gestire la rabbia e la frustrazione verso una società che non ha mai previsto la mia presenza. Se prima avevo timore a mostrarmi per come sono, forse perché rinnegavo la malattia, un giorno ho detto basta. Non puoi né devi nasconderla, mi sono detto, per cui o ti piangi addosso, o affronti la situazione di petto. È una patologia con cui si vive h24.
Quando sono arrivati i social? «I social sono arrivati per caso, un giorno che ero particolarmente giù, è stata una valvola di sfogo. Alla fine Fb è un diario, seppur pubblico. E allora, mi sono detto, se tutti scrivono della propria vita, perché io non dovrei scrivere della mia? Devo dire che da allora molto è cambiato, anche in chi mi circonda, perché hanno capito, ad esempio, di non prendersela se non li saluto per strada. Personalmente mi sento cambiato, ma a prescindere dall’utilizzo dei social: è qualcosa che ti cambia dentro, sei consapevole che vai verso la perdita della vista, e ti sale l’angoscia, ma dopo essermi aperto, ho notato che anche l’approccio delle persone è cambiato in positivo. Facebook è stato solo l’incipit di un lavoro assiduo su me stesso. Mi autovaluto, mi analizzo e cerco di migliorare sempre. Non posso dire di averla accettata al 100%, ma sono a buon punto. Temevo il giudizio altrui, era costante la bassa autostima, ma poi ho detto basta, non potevo vivere in base a ciò che la gente pensava di me. Così ho abbattuto il muro e ne ho parlato pubblicamente».
Oggi vivi solo, lontano dalla tua famiglia, era una cosa che potevi immaginare? «Sono molto affezionato a Muro ed alle persone di lì, ma da quando sono andato via è iniziato il vero cambiamento. Certo, inizialmente, quando mi trasferii per iniziare il Conservatorio, mi ha fatto paura vivere solo, sentivo il peso della mia patologia attraverso gli altri, mi spiego: leggevo sui volti altrui l’interrogativo “come potrà fare?”, e lì è scattata la molla, dovevo dare dimostrazione a loro ma in primis a me stesso, che potevo farcela. Come disse un mio professore al liceo, “gli unici limiti che abbiamo, sono quelli che ci poniamo”, ed è così. Non potrò fare tutto, ma quello che posso, lo devo fare al meglio. Ora sono 7 anni che vivo solo, ed ogni giorno è un continuo di sfide: dalle pulizie di casa alle attività di studio, dalle uscite alle necessità del quotidiano, però lo consiglio davvero per lasciarsi alle spalle le paure che ci portiamo addosso, e poi oggi anche la tecnologia ci aiuta molto, io ad esempio utilizzo tantissimo la sintesi vocale per farmi guidare dal navigatore anche a piedi, o per le letture, così come il contrasto elevato delle lettere per i caratteri sugli schermi».
Ritieni che di questi temi occorra parlarne di più per sdoganarli? «Assolutamente sì, è inutile ma soprattutto dannoso tenersi tutto dentro e chiudersi in sé stessi, non ci aiuta a migliorare, anzi. Soprattutto, vorrei aggiungere, è importante non temere l’aiuto che può darci un bravo psicologo. Tutti abbiamo dei traumi, delle paure, degli scogli da superare, ognuno a suo modo. Senza timore. Il percorso introspettivo lo consiglio vivamente. Circondiamoci inoltre di persone che ci apprezzano, con le quali ci apriamo liberamente, sono anche loro che ci fanno crescere. Avere una patologia non è un “difetto” ma qualcosa che fa parte di noi, per cui non va nascosta, non dobbiamo indossare alcuna maschera nella vita. Chi mi conosce da molti anni spesso si stupisce ricordando com’ero da ragazzino, e un po’ mi stupisco anche io».