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Omicidio di Lidia Macchi: assolto in appello Stefano Binda

“Intervista alla Dott.ssa Ursula Franco, consulente di parte per la difesa di Stefano Binda”

LIDIA MACCHI
Omicidio di Lidia Macchi: assolto in appello Stefano Binda
omicidio di Lidia Macchi del 1987
“Intervista alla Dott.ssa Ursula Franco, consulente di parte per la difesa di Stefano Binda”
Stefano Binda

Lidia Macchi, una studentessa di 21 anni, è stata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco del Varesotto.

Stefano Binda, un conoscente della Macchi, 19enne all’epoca dei fatti, è stato condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese ed è poi stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano, il 24 luglio 2019.

A Binda era stata attribuita una missiva intitolata IN MORTE DI UN’AMICA, che era stata recapitata a casa Macchi all’indomani dell’omicidio, una missiva che, secondo l’accusa, era stata scritta dall’assassino.

All’indomani della condanna gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli hanno chiesto una consulenza alla criminologa Ursula Franco.

Ad oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno dato ragione alla criminologa Ursula Franco. In merito, la Franco ci ha rilasciato un’intervista.

Criminologa URSULA FRANCO
– Dottoressa Franco, secondo lei e secondo i giudici dell’appello Binda non è l’assassino, si arriverà mai alla soluzione del caso?

No. Il caso Macchi resterà un caso irrisolto. In questo caso le mancanze investigative non lasciano scampo ma, soprattutto, una volta riaperto il caso, l’errore più grossolano fatto dagli inquirenti è stato quello di aver preso per buona la prima ricostruzione della dinamica omicidiaria. L’errore nella ricostruzione dei fatti non ha permesso né di ricostruire il giusto profilo dell’assassino, né di inferire il movente. L’errata ricostruzione ha viziato il caso, perché ha lasciato spazio all’ipotesi che l’aggressore si trovasse alla guida dell’auto di Lidia e che, quindi, fosse un suo conoscente. La Macchi, invece, fece sedere quello che si sarebbe poi rivelato il suo assassino sul sedile del passeggero, lo provano la posizione avanzata del sedile del guidatore e la dinamica dell’aggressione.

– Dottoressa, cosa è successo quel 5 gennaio 1987 nel bosco di Sass Pinin?

L’ipotesi più plausibile, che non solo si confà a tutte le risultanze investigative ma che ricalca anche la casistica in tema di omicidi di questo tipo, è che Lidia e il suo assassino non si conoscessero e che fossero rimasti insieme pochissimi minuti, il tempo impiegato per raggiungere il bosco di Sass Pinin e quello della commissione del delitto.

Chi uccise Lidia Macchi non si intrattenne con lei né per consumare un rapporto sessuale consenziente, né per violentarla sotto minaccia, né post mortem. Lidia incontrò il suo assassino per caso e nulla lascia pensare che lo conoscesse, lo raccolse in un posto particolare, un ospedale; questo soggetto può essersi spacciato per un medico, per un infermiere, per un parente addolorato, per disabile ed aver convinto la povera Lidia ad accompagnarlo da qualche parte, forse alla stazione di Cittiglio, che si trova poco distante dal bosco di Sass Pinin, luogo del ritrovamento del cadavere.

Chi uccise Lidia si era organizzato per uccidere, aveva condotto il coltello con sé lasciando al caso la scelta della vittima e, con tutta probabilità, raggiunse l’Ospedale di Cittiglio in treno o a piedi.

È alquanto improbabile, infatti, che l’assassino di Lidia, che era deciso ad uccidere qualcuno, avesse lasciato nel parcheggio dell’Ospedale la propria auto e, dopo aver commesso l’omicidio, fosse tornato a riprenderla, questo perché, poiché conosceva bene i luoghi, sapeva che, data la poca affluenza nel parcheggio dopo le 20.30, avrebbe rischiato di essere notato. Lidia fu uccisa intorno alle 20.15 del 5 gennaio 1987 e fu ritrovata da tre amici intorno alle 9.00 del 7 gennaio, dopo circa 36 ore; al momento del ritrovamento il cadavere era coperto da un cartone, cartoni simili vennero individuati dagli inquirenti in una discarica a poca distanza dall’auto, il lungo tempo intercorso tra l’omicidio e il ritrovamento del cadavere ed il tipo di omicidio, un omicidio premeditato e a sangue freddo, dove non c’è spazio per il rimorso, ci permettono di inferire che, con tutta probabilità, a coprire il corpo esanime di Lidia fu un soggetto estraneo all’omicidio che, forse perché pregiudicato, non si rivolse alle forze dell’ordine, posto che la zona era frequentata da coppiette, prostitute, transessuali, tossicodipendenti e spacciatori.

– Sappiamo che gli abiti che Lidia indossava quel giorno sono stati distrutti, che cosa si sarebbe potuto trovare su quei vestiti?

Il sangue del suo assassino e quindi il suo DNA. Un omicida che colpisce la sua vittima con numerose coltellate, come in questo caso, di frequente, si ferisce, in quanto dopo i primi colpi il coltello si sporca di sangue e gli scivola dalle mani, in specie quando lo stesso, dopo aver colpito il tessuto osseo, si arresta. Voglio sottolineare come in casi di omicidi vecchi di decenni, come questo, solo una eventuale prova scientifica capace di collocare senza ombra di dubbio un indagato sulla scena del crimine permette di attribuirgli la responsabilità del reato.

È però necessario che, a monte, si possa contare su una ricostruzione dell’omicidio impeccabile, è da lì che bisogna partire.

– E invece, dello sperma raccolto durante le prime indagini, e poi scomparso, che può dirci?

Agli atti non c’è nulla che lasci pensare che Lidia abbia avuto un rapporto sessuale con l’omicida, a mio avviso, quello sperma non avrebbe permesso di identificare il suo assassino ma, se fosse stato attribuito al suo donatore, avrebbe evitato che si seguisse l’errata pista dell’omicidio sessuale.

– Dottoressa Franco, si può incardinare una condanna all’ergastolo sugli indizi legati alla supposta paternità di uno scritto e all’interpretazione psicologica dello stesso?

Evidentemente no. Io l’ho detto subito che attribuire a qualcuno la lettera-poesia “IN MORTE DI UN’AMICA” equivaleva ad escludere che lo stesso fosse l’assassino di Lidia. L’autore anonimo, infatti, non solo non ha fornito informazioni riguardanti l’omicidio che non fossero note a tutti ma ha mostrato di non conoscere né la dinamica omicidiaria, né il movente.

Chi scrisse la lettera, riguardo al movente, riportò l’ipotesi della prima ora diffusa dai familiari di Lidia e dai giornali, un’ipotesi errata.

– I giudici dell’Appello le hanno dato ragione riguardo alla teste dell’accusa, tale Patrizia Bianchi.

Le informazioni fornite dalla Bianchi non sono di nessun interesse, peraltro, durante la sua deposizione, la teste ha dissimulato e ha usato alcuni escamotage linguistici per apparire convincente, in specie non ha riferito il vero in merito alla telefonata intercorsa tra lei e Stefano Binda il 7 gennaio 1987 in cui fu la stessa Bianchi a parlare di una eventuale arma del delitto. I giudici dell’Appello si sono così espressi su di lei: “Non vi è un solo fatto riferito (da Patrizia Bianchi) che possa dirsi rilevante per il processo penale, solo e soltanto la descrizione di un profondo trasporto emotivo (…) Non è una sua responsabilità se fin dai primi colloqui ‘informativi’ con la vice ispettrice NANNI e, poi, da presunta informata sui fatti, ogni sua dubbiosa congettura ed ogni suo labile sospetto siano stati valutati alla stregua di un “Ipse dixit” (…) Né, infine, è sua responsabilità se una mera confabulazione, un suo falso ricordo (giacché, viceversa, occorrerebbe configurare smaccata mala fede), immeritevole non solo di approfondimento ma persino di interesse investigativo, abbia comportato nientemeno che lo ’sbancamento’ con l’intervento dell’Esercito – del Parco Mantegazza”. Vede, nei casi giudiziari, il problema non sono i testimoni che falsificano o dissimulano perché sono intimamente convinti di essere paladini di una nobile causa, il problema sono coloro che gli danno ascolto.

L’identikit del molestatore dell’ospedale di Cittiglio e una foto di Giuseppe Piccolomo scattata nel 1987
– Riguardo ad un eventuale coinvolgimento di Giuseppe Piccolomo, che ha commesso due omicidi in tempi diversi e che ha confessato alle figlie l’omicidio di Lidia Macchi, cosa può dirci?

Posso dirle che poiché non è mai stato isolato il DNA dell’assassino di Lidia, non si può escludere un eventuale coinvolgimento di Piccolomo.

Intervista di Paolo Mugnai

Ursula Franco è medico e criminologo, è allieva di Peter Hyatt, uno dei massimi esperti mondiali di Statement Analysis, si occupa soprattutto di morti accidentali e incidenti scambiati per omicidi e di errori giudiziari. È stata consulente dell’avvocato Giuseppe Marazzita, difensore di Michele Buoninconti; è consulente dell’avvocato Salvatore Verrillo, difensore di Daniel Ciocan; ha fornito una consulenza ai difensori di Stefano Binda dopo la condanna in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Lidia Macchi.

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