ESCLUSIVA, PROCESSO A STEFANO BINDA: INTERVISTA ALLA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO SULLE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA EMESSA DAI GIUDICI DELL’APPELLO NEL LUGLIO SCORSO
La dottoressa Franco, da noi intervistata più volte in merito al caso Binda/Macchi, ha sempre sostenuto che la lettera-poesia IN MORTE DI UN’AMICA non era stata scritta dall’assassino e che, di conseguenza, il caso non era da ritenersi un caso di interesse grafologico: “Attribuire a qualcuno la lettera-poesia IN MORTE DI UN’AMICA equivale ad escludere che lo stesso sia l’assassino, perché chi la scrisse mostrò di non essere a conoscenza della dinamica omicidaria. La ricostruzione di un omicidio è il punto da cui partire, una ricostruzione senza smagliature conduce alla verità storica, una ricostruzione sbagliata all’errore giudiziario, come in questo caso, un caso che resterà irrisolto a causa degli errori investigativi”
Per l’omicidio di Lidia Macchi, una studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto, Stefano Binda, 19enne all’epoca dei fatti e conoscente della Macchi, che era stato condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese, il 24 luglio 2019, è stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano
A Binda era stata attribuita una missiva intitolata IN MORTE DI UN’AMICA che era stata recapitata a casa Macchi all’indomani dell’omicidio, una missiva che secondo l’accusa era stata scritta dall’assassino.
Abbiamo intervistato la criminologa Ursula Franco, che è stata consulente della difesa di Stefano Binda, avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli
La dottoressa Franco, da noi intervistata più volte in merito al caso Binda/Macchi, ha sempre sostenuto che la lettera-poesia IN MORTE DI UN’AMICA non era stata scritta dall’assassino e che, di conseguenza, il caso non era da ritenersi un caso di interesse grafologico: “Attribuire a qualcuno la lettera-poesia IN MORTE DI UN’AMICA equivale ad escludere che lo stesso sia l’assassino, perché chi la scrisse mostrò di non essere a conoscenza della dinamica omicidaria. La ricostruzione di un omicidio è il punto da cui partire, una ricostruzione senza smagliature conduce alla verità storica, una ricostruzione sbagliata all’errore giudiziario, come in questo caso, un caso che resterà irrisolto a causa degli errori investigativi”
In questo caso giudiziario non sono mancati scontri tra la criminologa Ursula Franco, consulente della difesa di Stefano Binda e l’avvocato della madre di Lidia Macchi, Daniele Pizzi
Il 6 febbraio di quest’anno la Franco aveva rilasciato un’intervista a Paolo Grosso e il quotidiano di Varese “La Prealpina” aveva titolato così: “La criminologa Ursula Franco scagiona Stefano Binda: l’assassino è un predatore sconosciuto”, il contenuto dell’intervista aveva scatenato le ire di Pizzi che aveva così replicato: «(…) dire che “il nome dell’assassino di Lidia non è agli atti” non è altro che l’ennesimo oltraggio alla sua memoria! L’unica cosa che ad oggi conta è la sentenza della Corte di Assise di Varese. Ed è soltanto rispettando questa sentenza che si rispetta la memoria di Lidia. La famiglia Macchi è rimasta esterrefatta dinanzi alle esternazioni della dottoressa Ursula Franco a proposito della morte di Lidia, dal momento che il nome di questa dottoressa non è mai entrato in nessun atto processuale e in nessuna aula giudiziaria. Inoltre mi sorprende leggere che nel processo di appello la difesa di Stefano Binda utilizzerà la consulenza della dottoressa Franco (…) ad uccidere Lidia è stata una persona che lei conosceva bene, come sentenziato dalla Corte d’Assise di Varese che ha condannato Binda all’ergastolo. Quanto sostenuto dalla dottoressa Franco cozza totalmente con quanto riconosciuto anche da tutti gli altri giudici che si sono pronunciati sinora, ovvero il Gip di Varese nonché il Tribunale del Riesame di Milano e la Suprema Corte di Cassazione di Roma, quando decisero sulla richiesta di scarcerazione di Binda, stabilendo che sarebbe dovuto rimanere in carcere. Dire che “nessuno ha mai approfondito i movimenti di Lidia e di altri di quel pomeriggio” è una scorrettezza bella e buona nei confronti di tutti gli sforzi investigativi profusi dalla Procura Generale di Milano per circostanziare al meglio le ultime ore di vita di Lidia. Mi si accappona la pelle leggendo che “Stefano Binda è la vittima ideale di un errore giudiziario”: questo significa voler screditare a tutti i costi l’operato attento e meticoloso della Corte d’Assise di Varese nel processo che ha portato alla condanna di Stefano Binda. Quelle che, a questo punto, sarebbero da approfondire sono le competenze specifiche della dottoressa Franco (…)». Nel luglio scorso, durante il processo d’appello, sempre l’avvocato di parte civile, Daniele Pizzi, legale della madre della Macchi, aveva detto: ”Noi siamo in attesa che Stefano Binda dica cosa è successo a Lidia”, la dottoressa Franco aveva così replicato: “Binda ha detto la verità, non ha ucciso lui Lidia Macchi. E’ paradossale che si chiedano risposte in merito ad un caso di omicidio ad un imputato estraneo ai fatti. Sono le procure italiane che devono ricostruire nei dettagli gli omicidi di cui si occupano e dare risposte ai familiari delle vittime, non gli imputati, soprattutto quando sono estranei ai fatti”.
Ad oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno dato ragione alla criminologa Ursula Franco su tutta la linea, riguardo all’avvocato Daniele Pizzi, nell’elaborato dei giudici del secondo grado che hanno assolto Binda, si legge tra l’altro: “Strada (…) più profittevole di quella invocata ancora oggi, inspiegabilmente, dal Patron di Parte civile (avvocato Daniele Pizzi) d’inseguire sterilmente l’agognata verità attraverso la confessione dell’imputato che suona, per un verso, inutilmente irridente nei suoi confronti e, per altro verso, in aperta contraddizione con i continui proclami pubblici di voler solo la verità e non un colpevole pur che sia”.
– Dottoressa Franco, che effetto le hanno fatto l’assoluzione di Stefano Binda e le motivazioni della relativa sentenza?
Ho provato la soddisfazione che si prova quando accade una cosa “giusta”, una soddisfazione che non è quantitativamente equiparabile allo sconforto che assale quando viene condannato un innocente. Sono contenta per Stefano Binda, personalmente non mi esprimo se non ho certezza delle mie conclusioni e attendo le conclusioni dei giudici per l’imputato, non per avere conferme o smentite ai miei convincimenti. Purtroppo, spesso, l’errore giudiziario non viene riconosciuto ma, anzi, viene consacrato dalla Suprema Corte di Cassazione, perché con il tempo la verità viene sommersa da una quantità ingombrante di ricostruzioni fantastiche, in questo caso, fortunatamente, i giudici hanno potuto contare sul dettagliato atto d’appello redatto dagli avvocati della difesa, Patrizia Esposito e Sergio Martelli.
– Ricordiamo ai nostri lettori che la dottoressa Franco ha sempre sostenuto come la teste dell’accusa Patrizia Bianchi, spacciata da tutti come “superteste”, non abbia apportato alcun contributo alle indagini e di come la stessa, durante le sue deposizioni, avesse invece dissimulato, si fosse auto censurata ed avesse fatto ricorso ad escamotage linguistici per apparire convincente; ebbene, i giudici così si sono espressi sulla cosiddetta “superteste” dell’accusa: “Non vi è un solo fatto riferito (da Patrizia Bianchi) che possa dirsi rilevante per il processo penale, solo e soltanto la descrizione di un profondo trasporto emotivo (…) Non è una sua responsabilità se fin dai primi colloqui ‘informativi’ con la vice ispettrice NANNI e, poi, da presunta informata sui fatti, ogni sua dubbiosa congettura ed ogni suo labile sospetto siano stati valutati alla stregua di un “Ipse dixit” (…) Né, infine, è sua responsabilità se una mera confabulazione, un suo falso ricordo (giacché, viceversa, occorrerebbe configurare smaccata mala fede), immeritevole non solo di approfondimento ma persino di interesse investigativo, abbia comportato nientemeno che lo ’sbancamento’ con l’intervento dell’Esercito – del Parco Mantegazza”, dottoressa cosa vuole aggiungere?
Sono d’accordo con i giudici dell’Appello e l’ho spesso dichiarato: nei casi giudiziari, il problema non sono i testimoni che falsificano o dissimulano perché sono intimamente convinti di essere paladini di una nobile causa, il problema sono coloro che gli danno corda. Nel caso Macchi esiste un Faldone nel quale sono raccolte le testimonianze di diversi soggetti che si erano convinti di poter essere d’aiuto alla soluzione del caso, è in quel Faldone che andavano archiviate le ‘informazioni’ fornite dalla signora Patrizia Bianchi alla vice ispettrice Nanni.
– Dottoressa Franco, che ruolo hanno avuto i Media in questo caso?
Quasi tutti i Media non sono stati super partes, infatti, invece di dar voce ad accusa e difesa, hanno spesso ridicolizzato le ragioni della difesa e sostenuto la procura contribuendo a creare un “mostro” che non esiste. Andrebbero perseguiti per questo. Tra i giornalisti ci sono state alcune voci fuori dal coro, la sua, Domenico Leccese, quella di Simone Di Meo, direttore del giornale d’inchiesta Stylo24 e quella dell’ottima Monica Terzaghi di Telesettelaghi, una giornalista equilibrata e preparata che merita un encomio in quanto ha preso una posizione personale netta a difesa di Stefano Binda.
– Dottoressa Franco, si arriverà mai alla soluzione del caso?
Non credo. A volte occorre rassegnarsi. In questo caso le mancanze investigative non lasciano scampo e, soprattutto, l’errore più grosso fatto dagli inquirenti una volta riaperto il caso è stato quello di aver preso per buona la prima ricostruzione della dinamica omicidiaria. L’errore nella ricostruzione dei fatti non ha permesso, infatti, né di ricostruire il giusto profilo dell’assassino, né di inferire il movente.