Cronaca

PETROLGATE, L’ENI CALA I SUOI ASSI

Cova, dai rifiuti alle sfiaccolate: in aula colpi di scena, di parte, a gogo


«Nessuna omissione nelle comunicazioni e nessuna falsità nelle dichiarazioni date dall’Eni agli Enti e agli organi competenti di controllo». Non è tutto, le contromosse della multinazionale dell’oro nero si sono susseguite in rapida sequenza nell’udienza svoltasi ieri nel Tribunale di Potenza, riunito in collegio presieduto da Rosario Baglioni. Il “bisturi” del processo Petrolgate si sta addentrando, udienza dopo udienza, nella “carne viva” delle accuse che hanno al centro del mirino le presunte illecite attività connesse alle estrazioni petrolifere del Cane a 6 zampe nel Centro oli Cova di Viggiano. Le difese si stanno prodigando nello sforzo di delineare quanto più possibile un quadro totalmente distante e opposto da quello descritto nell’impianto accusatorio. Con la parola al consulente Eni, l’ingegner Filauro, nelle attività dibattimentali di ieri, i “colpi di scena”, seppur di parte, sono stati plurimi. Tra articolati inquadramenti tecnici, come quelli relativi al sistema di circolazione delle ammine, e decine di slide proiettate in aula, sono stati scandagliati una serie di eventi, dal settembre 2013 allo stesso mese del 2014, quali sforamenti nelle emissioni e le sfiaccolate della torcia del Cova. Due dati su tutti ha inteso fissare il consulente Eni: nel complesso le anomalie sono state poco frequenti e non rilevanti come incidenza significativa sulla qualità dell’aria. Gli sforamenti dai camini del Cova, ha precisato Filauro, non sono direttamente collegabili con eventuali sforamenti delle centraline “a terra”. Il Cova, è stato sostenuto in aula, da questo punto di vista ha, nel periodo considerato, funzionato correttamente al 99,9 per cento. Particolare attenzione è stata dedicata allo “spegnimento” del Cova del 13 gennaio 2014. L’impianto è andato in protezione per l’errore umano di un contrattista elettrico che ha eseguito una manovra errata durante un’attività di manutenzione ordinaria, la quale ha causato una mancanza di alimentazione elettrica al sistema di controllo dinamico. Gli sforamenti registrati nelle emissioni registrati dal 13 al 21 e poi 24 gennaio di quell’anno, fino in pratica al completo “riavviamento” del Cova, per l’Eni non vanno considerati. Poichè in quel breve periodo non si applicavano i limiti alle emissioni, e quindi, in assenza di valori massimi, non potevano esserci di conseguenza anomalie. Per il consulente tecnico della Procura, invece, al Cova i superamenti dei valori limite di emissione erano di «elevata frequenza». Ciò indicava «chiaramente» che «l’assetto impiantistico e i sistemi di controllo», in particolare quelli del termodistruttore E20, «non sono in grado di assicurare in maniera stabile il rispetto dei limiti imposti in autorizzazione». Per l’accusa tra l’aprile 2013 ed il settembre 2015 sono avvenuti «continui sforamenti e ripetute “fiaccolate”». Non solo. Per la tesi accusatoria riporta anche di un sistema di gestione delle emissioni, contraddistinto da «plurime omissioni», e da indicazioni, nelle segnalazioni degli sforamenti, di cause tecniche o fattori causali diversi da quelli effettivi». L’Eni, in merito, in aula ha risposto che non c’è stata nessuna omissione dei dati, non una, e che non ha mai ricorso a dichiarazioni false riscontrando piena difformità tra i dati ambientali e le giustificazioni degli eventi anomali. Dove c’è stato qualche dubbio, ha rimarcato il consulente in aula, ossia in assenza di motivazione certa, è stata fornita quella più verosimile e probabile. Ma il colpo finale, la multinazionale petrolifera lo ha riservato al capitolo rifiuti. Per l’impianto accusatorio intorno alle attività estrattive al Cove si è sviluppato un traffico illecito di rifiuti finalizzato all’ingiusto profitto conseguito a seguito del mancato esborso dei costi per la corretta gestione dei rifiuti prodotti. Non applicando ai rifiuti pericolosi e non i codici giusti, l’Eni, per l’accusa rappresentata in aula dal Pm Laura Triassi, avrebbe risparmiato una montagna di milioni di euro. Il consulente Filauro ha sostenuto, come forse prevedibile, l’opposto.Sempre in riferimento al lasso temporale compreso tra settembre 2013 e il settembre 2014, se l’Eni avesse applicato ai reflui liquidi delle acque di produzione non reiniettabili nel pozzo Costa Molina2, e alle acque di controlavaggio, i codici Cer indicati dalla Procura, invece di quelli effettivamente utilizzati, avrebbe risparmiato quasi un milione di euro. Da circa 19milioni e mezzo di euro, il costo per il Cane a sei zampe, con i contratti all’epoca vigenti, sarebbe sceso a circa 18milioni e 600mila euro. Nel processo Petrolgate sulle estrazioni petrolifere in Basilicata, sono imputate 47 persone e dieci società, tra cui l’Eni.

Ferdinando Moliterni

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