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LAURA LANGONE presentazione del libro : “Nietzsche: filosofo della libertà”

Una predilezione della forza per quei problemi
per cui oggi nessuno ha il coraggio; il coraggio del proibito;
la predestinazione al labirinto. Un’esperienza di sette solitudini.
Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il più lontano.
E una nuova coscienza per verità restate fino a oggi mute.
E la volontà dell’economia in grande stile;
mantenere compatta la propria forza, la propria esaltazione…
Rispetto di sé, amore di sé, libertà assoluta verso di sé…
F. Nietzsche, L’anticristo

Domani 24 settembre a Potenza, presso la Mondadori in via Pretoria 222, il Prof. Raffaello Antonio Mecca, già Preside del Liceo Classico “QUINTO ORAZIO FLACCO”, presenterà il libro “Nietzsche:filosofo della libertà” . Seguirà l’ntervento dell’autrice Laura Langone

 

Prefazione

Nietzsche: la natura «fluida» dell’io e della libertà

Con questo libro dedicato al tema della libertà nella filosofia di Nietzsche – lavoro che ha il pregio, tra l’altro, di inserirsi con disinvoltura in una vastissima bibliografia presente sull’argomento – Laura Langone delinea un percorso interpretativo attraverso una disamina interna ai principali testi di Nietzsche, partendo in particolare da luoghi celeberrimi di Così parlò Zarathustra, ovvero da quelle tre «metamorfosi dello spirito» – ricordiamolo, in cammello, leone e fanciullo – che inaugurano nuove esperienze per la soggettività, esperienze destinate a rimettere radicalmente in discussione l’esercizio della libertà, la modalità di vivere il tempo, le forme del linguaggio e della conoscenza, l’esperienza morale e religiosa, il rapporto mente/corpo e persino i fondamenti ultimi della realtà. L’attenzione riservata a questi nuclei tematici fondamentali della filosofia di Nietzsche consente a Langone di sottolineare l’importanza decisiva che in essa riveste l’atto creativo nell’esercizio pratico della libertà, proprio laddove l’allentamento delle certezze metafisiche tradizionali consente di concepire i valori di bene e male come interrogativi aperti, riformulabili a partire dall’esperienza esistenziale del deserto e dal crollo della teleologia storica e morale. È in questo quadro decostruttivo che si annuncia la figura proteiforme dello Übermensch – Nietzsche lo propone, non a caso, come metafora di uno sguardo capace di rivolgersi verso la dimensione bissale dell’«oltre », beneficiando di quell’atto di volontà che è costitutivo di un più completo sviluppo della personalità e del Sé – il quale rivela il fondo magmatico della natura umana, inteso comunque come un insieme di possibilità rese tra loro compatibili. Entro questa cornice, acquista rilevanza, da un lato, l’esperienza della solitudine e dell’isolamento come funzionali ad una comprensione più radicale del destino e della necessità di «diventare se stessi» – come rileva giustamente Langone, qui come altrove la lettura giovanile di Emerson da parte di Nietzsche gioca un ruolo fondamentale – radicandosi nelle contraddizioni della vita, dall’altro, la decisione etica di accettare l’eterno ritorno di tutte le cose su un doppio livello di esperienza, gnoseologico ed etico. Esperienza, quest’ultima, che consente a Nietzsche di individuare – benché soltanto in un abbozzo disorganico di «volontà di potenza», dalla Gaia scienza, allo Zarathustra fino agli appunti postumi – la metafora di un’incarnazione più completa di tutti i valori a partire dalle origini dell’umanità fino alla «morte di Dio», appellandosi – non è un caso – alla forza assommante e giustificante del Geist, dello «spirito», che consente all’io – su un versante opposto ma correlato al primo – di estrinsecarsi mediante il «sentire» di molte anime mortali che l’io ospita dentro di sé. Sulla base di questi assunti fondamentali, Langone riserva giustamente una particolare attenzione al tema del linguaggio – merita qui ricordare, tra gli altri, gli studi di Sarah Kofman sulla metafora in Nietzsche – sottolineando chiaramente come la funzione «pratica» e l’origine «sociale» del linguaggio – su questo punto si rivela una evidente affinità di Nietzsche con la posizione di Bergson – permetta all’io di orientarsi in un universo pluralistico. Se, come confermerà proprio William James, per un verso la verità  corrisponde ad una convenzione – giacché i concetti che ne scandiscono l’articolazione logica sono costituiti da immagini fisse – per un altro, la metafora, impiegata da Nietzsche come loro imprescindibile alternativa, si rivela essere costituita da immagini fluide che strutturano la realtà come un «flusso» dinamico, confermando in questo caso una certa prossimità di Nietzsche alle tesi del pragmatismo americano, come del resto è stato evidenziato in più occasioni da autorevoli studiosi. Nietzsche, nel definire la natura fluida dell’io e della realtà, recupera infatti una metafora – quella del «flusso» contrapposto alla «sostanza» – che, da Eraclito al Cratilo platonico, fino a Schopenhauer, Bergson e James, subirà diverse letture e altrettanti impieghi, contribuendo in modo non marginale alla definizione moderna della coscienza che agisce nel tempo. Pur nella sua «eccentricità», anche Nietzsche va dunque ad inserirsi sulla linea di Agostino, Descartes e Maine de Biran che accetta in pieno il primato conquistato dalla dimensione della temporalità nella ricognizione della vita della psiche. Ma è grazie soprattutto all’esplicito interesse di Nietzsche per le scienze naturali – ricordiamo la sua lettura della Storia del materialismo di Lange – che Nietzsche può sottolineare la genesi «organica» del linguaggio a partire dagli stimoli nervosi e dall’istinto di autoconservazione. Egli identifica l’anima con una dimensione rettamente corporea, con un insieme di istinti che non è necessariamente un caos, bensì, osserva Langone, «un flusso dove gli istinti lottano tra loro per il proprio appagamento durante le esperienze che facciamo ogni giorno, dove l’ordine è stabilito dalla gerarchia tra l’istinto vincente che si appaga, e gli altri istinti che perdono la lotta». L’anima indica pertanto solo una pluralità del soggetto temporale destinato a salire, per riprendere una felice espressione di Nietzsche richiamata da Langone, «una scala con cento scalini», imparando così ad incarnare in se stesso il sapere e a renderlo istintivo. All’interno di questo percorso – che oscilla, non sempre con equilibrio, tra la dimensione biologica, quella etica e quella estetica – il soggetto si trova nella continua tensione tra libertà e necessità, fino a sentirsi costretto a riconoscere la necessità della libertà, proprio rigettando l’idea – tema centrale nella Genealogia della morale, se riletta in particolare alla luce delle tesi di Paul Rée e di Spencer – di una presunta naturalità e spontaneità degli istinti. In questo senso può essere inteso l’invito nietzschiano alla libertà come capacità di trasformarsi consapevolmente in più direzioni, appunto senza dover rinunciare alla conoscenza o ad una dimensione morale dell’agire. Se è vero – come sostiene Langone – che è possibile conoscere il divenire soltanto attraverso la contraddizione, con il concetto di «esperimento» Nietzsche definisce, in questo caso particolare, il processo di ascesa a sempre maggiori gradi di potenza, in quanto l’eterno ritorno libera dalle catene del passato e consente di tracciare nuovi circoli di esperienze, nelle quali viene comunque conservato il quantum di potenza di volta in volta raggiunto. In questo senso, i valori della metafisica, della religione e dell’arte risultano in ogni modo indispensabili tanto al raggiungimento di una conoscenza più profonda della storia e della cultura – di qui la necessità del metodo genealogico rivendicato dall’ultimo Nietzsche – che ad uno sviluppo originale del carattere individuale – anche su questo punto l’incidenza di Emerson è notevole – giacché l’esperienza della morte di Dio lascia incustodita una grande eredità storica con la quale tanto l’«ultimo uomo» che lo «spirito libero» non possono non confrontarsi. Così, grazie ad una lettura «lenta» di Nietzsche, è possibile riscoprire il valore delle «piccole cose» che scandiscono il quotidiano, imparando ad «approssimarsi» ad esse secondo una prospettiva di cambiamento e inattualità. In questo quadro, resta comunque aperto e insoluto il problema del tempo – soprattutto il «nostro» modo di vivere il tempo, in quanto eredi diretti della temperie culturale nichilistica – una volta preso atto della più o meno completa «reversibilità» dell’esperienza passata – appunto secondo quel «redimere» quelli che sono passati e trasformare ogni «così fu» in «così volli che fosse!» – aspetto senza dubbio centrale della riflessione matura di Nietzsche, destinato però a suscitare dubbi e interrogativi proprio nei casi in cui si considerino le implicazioni etico-politiche di una così radicale consapevolezza, come mostravano già le critiche che egli rivolgeva a Spencer, il «Darwin della psicologia», proprio in relazione alla possibilità di un completo adattamento dell’individuo alla società. Ma una volta preso atto che l’uomo, in fin dei conti, non è altro – l’immagine la impiega Nietzsche in Umano, troppo umano I, af. 292 – che una «necessaria catena di anelli della cultura», resta il confronto con la vecchiaia e con la morte a dissipare ogni comoda illusione, perché «la stessa vita che ha il suo vertice nella vecchiaia, ha anche il suo vertice nella saggezza, in quel mite splendore di sole di una costante letizia intellettuale», e quando la morte si avvicina al soggetto non resta che un ultimo movimento verso la luce accompagnato da un giubilo di conoscenza, essendo entrambi quei due momenti «limite» in cui culmina l’esperienza umana della libertà.

Riccardo Roni

 

Prologo.

Zarathustra annuncia il segreto della libertà Dio è morto. I progressi della scienza hanno mostrato la visione cristiana del mondo come un racconto privo di veridicità. Il mondo non è stato creato in sei giorni o la donna non è nata dalla costola dell’uomo, per citare alcune delle presunte verità che ci sono state tramandate per secoli. Alla base di queste verità il cristianesimo ha costruito una morale che prescrive una volta per tutte cosa sia bene e male, come ci dobbiamo comportare in Terra per guadagnarci una vita eterna nell’aldilà accanto a Dio. La morale è diretta espressione del verbo divino, le sue regole sono perenni e immutabili, valgono per sempre, in ogni tempo. Per secoli noi abbiamo seguito ciecamente questa morale, abbiamo orientato la nostra esistenza in base alle sue regole, essa è stata il faro onnipresente in qualsiasi situazione che accadeva nel corso della nostra esistenza. Non ci siamo mai interrogati sulla natura di bene e male, ciò è stato per noi sempre qualcosa di scontato, qualcosa che ci è stato detto sin dalla nascita. Bisogna fare questo ed evitare quest’altro perché così Dio vuole. Sapere che Dio ha stabilito per l’eternità come dobbiamo agire ci ha consentito di vivere con una buona dose di sicurezza, abbiamo potuto contare su punti di riferimento fissi in ogni evento della nostra esistenza. Qualunque cosa succedeva, Dio era presente. Egli aveva una risposta a tutto. Con la morte di Dio, queste risposte vengono a mancare e con esse la sicurezza da loro generata. Ci viene a mancare il terreno sotto i piedi, quel terreno dove avevamo ancorato tutte le nostre certezze. Se la visione del mondo che si credeva frutto del verbo divino perde ogni pretesa di veridicità, lo stesso accade per la morale che in tale visione del mondo aveva le sue fondamenta. Svanite tutte le risposte si fa avanti un grande punto interrogativo: come agire? Ora bene e male non sono più qualcosa di fisso e definito che apprendiamo sin dalla nascita ma un tarlo che comincia a divorare la nostra esistenza. Dove prima c’era la sicurezza, ora c’è il vuoto. Dove prima avevamo dei punti di riferimento fissi a cui aggrapparci in qualsiasi situazione, ora c’è il caos, l’indefinito. Il mondo non appare più ai nostri occhi come uno schema stabilito una volta per tutte e dal significato compiuto ma assume il volto di un vortice misterioso pronto a inghiottirci. Senza Dio, ogni cosa perde il suo significato, nulla ha più senso. E questa mancanza di senso ci getta nella disperazione, non sappiamo più cosa fare, come comportarci.

Laura Langone

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