Blog

ALESSANDRO BARBANO : Manifesto per una democrazia liberale dotata di un futuro

A chi ancora obietta che non c’è tempo per discutere di idee e di programmi, perché i tempi stringono ed è necessario armare gli eserciti, rispondiamo che una prospettiva politica nuova per la democrazia italiana ha una possibilità di imporsi e di durare solo se è capace di volare oltre l’urgenza dei tempi, di cui il populismo è figlio. Non sono le prossime elezioni l’imperativo a cui rispondere, ma l’idea del Paese che abbiamo coltivato al confronto con l’immagine del Paese che vediamo declinare sotto i nostri occhi. Per questo chiunque si riconosca nei principi qui enunciati è chiamato ad assumere l’iniziativa, nei modi e con i mezzi di cui dispone.

C’è un errore di fondo nella fittizia e impotente alleanza del “tutti contro Salvini e Di Maio”, e poi del “tutti contro Salvini”, che tiene in stallo la democrazia italiana dal 4 marzo 2018 e che rischia di replicarsi alla vigilia di nuove elezioni.
ALESSANDRO BARBANO

È l’idea adolescenziale di costruire consenso sul destruens, cioè sulla critica radicale di un nemico comune. Racconta una politica svuotata di ogni cultura politica. Non a caso si ferma a una censura dell’avversario sostenuta da una mera condivisione tattica, mai strategica. Per quanto divisi su tutto, i litigiosi soci della maggioranza gialloverde hanno potuto richiamarsi, almeno fino alla rottura, al fantasma di un contratto di governo. Tutti quelli, che gialloverdi non sono, tra di loro non hanno fin qui dialogato e non si sono riconosciuti, né nelle sedi parlamentari né in quel che resta delle relazioni tra le segreterie dei partiti. Hanno perpetrato un disconoscimento che ha segnato il quarto di secolo della defunta Seconda Repubblica.

Eppure tra di loro c’è chi adesso enfatizza il pericolo del consolidarsi di un potere populista dai tratti marcatamente autoritari, paventando una regressione della democrazia italiana verso forme illiberali. È strano che questa preoccupazione non suggerisca nessun passo concreto per cercare e condividere punti di vista comuni nel campo che, a torto o a ragione, si ritiene “non populista”. I due principali soggetti di quest’area, il Partito democratico e Forza Italia, sono sostanzialmente rimasti arroccati dentro l’assetto che aveva caratterizzato la loro storica contrapposizione bipolare. Come se la democrazia italiana fosse ancora maggioritaria. E, soprattutto, come se il 4 marzo 2018 non fosse accaduto nulla. Nessun confronto esterno, se si eccettua i contatti delle ultime ore tra chi vorrebbe impedire il ritorno al voto all’insegna di un tatticismo disperato. Nessun autentico sforzo trasformativo al loro interno. La crisi di consenso li ha svuotati di energie vitali e li ha paralizzati. Il Pd e Forza Italia a quasi un anno e mezzo dalle ultime elezioni sono morti viventi.

Lo sanno bene anche quei dirigenti democratici che pure hanno brindato, il giorno delle Europee, alla pioggierellina di voti piovuti nel loro recinto, come rimbalzo di una tempesta che ha investito la leadership di Di Maio. Non a caso il dibattito che si è aperto all’interno riguarda, tra un’abiura e un occhieggiare più o meno esplicito ai Cinquestelle, il destino delle future alleanze e non la sostanza dell’offerta riformista. Allo stesso modo il conflitto che si è aperto nell’universo berlusconiano riguarda il tentativo di sottrarre con le primarie il potere di designazione al vecchio leader, trasformandolo in un innocuo padre nobile, mentre è marginale, se non inesistente, la preoccupazione di ridefinire il contenuto dell’offerta liberale distinguendola da quella della destra salviniana. La democrazia, che i partiti tradizionali s’intestano, è muta. E, quando non è muta, parla ma non dice. Perché o è senza idee, o è reticente. Non a caso è scomparsa dal radar del dibattito pubblico. Se pure avanza timidamente con la parvenza di una qualche proposta, basta una battuta del populista di turno a farla ripiombare nell’irrilevanza.
Ma pure chi sta o si sente fuori dal populismo e dagli sconfitti dal populismo commette spesso un errore che è figlio dei tempi. Riconosce la consustanziale identità di Salvini e Di Maio. Disconosce il loro comune assistenzialismo, statalismo, pauperismo, dirigismo e giustizialismo. Crede che sia possibile un racconto altro del Paese, diverso da quello “per estremi” dei due populismi di governo. Intuisce che questo racconto vada costruito oltre il recinto dei contenitori politici attualmente sul campo. Ma sbaglia pensando di poterlo proporre a partire dalla propria identità. Così di questi tempi ritorna l’idea di rifare la Democrazia cristiana, di rilanciare il partitino dei liberali, di rispolverare il Craxismo, di resuscitare il Renzismo, di inventare il Calendismo, e chi più ne ha più ne metta. Questa tentazione diffusa si fonda sulla convinzione che sia possibile occupare con una proposta alternativa al populismo uno spazio indistinto che si apre al centro della contrapposizione tra la Lega da una parte e i Cinquestelle e il Pd dall’altra. È anzitutto un errore tattico. Con una metafora calcistica potremmo definirlo come il tentativo di puntare sull’uno contro uno per bucare una difesa avversaria arroccata in catenaccio, dribblando tutti gli avversari per giungere alla porta. Nessun Maradona della politica da solo oggi potrebbe farcela. Riuscì a Berlusconi nel ’94, ma contro un vecchio quadro partitico in disfacimento e grazie a mezzi finanziari che raramente la storia consegna a un capo politico. Ma riuscì, soprattutto, perché il tycoon fece della sua offerta liberale il punto di incontro di culture diverse, presenti nella politica e nella società italiana. Oggi questo sforzo di sintesi pare assente in tutte le iniziative che da più parti sembrano prendere corpo e annunciare un nuovo soggetto politico, salvo poi repentinamente fare marcia indietro. Da Renzi a Parisi, passando per Calenda, dai socialisti ai liberali, passando per i cattolici, tutte le novità fin qui immaginate o immaginabili patiscono di quello che potremmo definire un deficit di rappresentatività.

Parlano a segmenti molto limitati della società italiana e rischiano perciò di tradursi nelle urne in fenomeni definibili da “zero virgola”.

Questa tentazione di professare una propria identità antipopulista per fermare il populismo è ciò che, purtroppo, può allungargli la vita. Risponde a un riflesso contrappositivo presente nella cultura politica di un Paese che viene da venticinque anni di bipolarismo aggressivo. E accende di questi tempi l’illusione di individuare tra le sacche di resistenza del sistema politico o della società civile l’anti-Salvini che può ribaltare il corso della storia. È lo stesso atteggiamento mentale che ascrive la crisi delle opposizioni a una mancanza di leadership. In realtà questo schema duplica, in parziale inconsapevolezza, le semplificazioni del populismo in una sua brutta copia, priva peraltro, come tutte le brutte copie, di qualunque forza seduttiva. Cosicché l’anti-Salvini è destinato a non arrivare mai.

La sfida al populismo invece deve iniziare dalla complessità che il populismo vuole ridurre.

Ciò vuol dire in primo luogo rivalutare un istituto chiave della democrazia rappresentativa: il compromesso. È il metodo per rimettere in connessione alcune culture senza voce del Paese: i liberali, i cattolici e i riformisti, con tutti gli accenti e le sfumature che questi pensieri portano con sé. Ma è anche una prima chiara differenza di segno rispetto al populismo: perseguire il compromesso come la sostanza di una propria offerta politica significa tornare a far coincidere l’identità con la rappresentatività. Che vuol dire: noi siamo anzitutto quelli che si riconoscono nel dialogo e nella sintesi tra la cultura liberale, la cultura cattolica e la cultura riformista. Ma non siamo più nessuna di queste culture prese singolarmente. E ancora: noi intendiamo con questo confronto rifondare il patto rappresentativo che, disfacendosi, ha aperto la strada alla nascita del populismo.
Tuttavia, se il compromesso è la forma e la sostanza prima del mettere in dialogo liberali, cattolici e riformisti, a quali risultati questo dialogo approda? La risposta a questa domanda è ineludibile se si vuole davvero costruire un racconto della democrazia diverso e alternativo a quello per estremi del populismo. Formuliamola a partire dalla storia e dalla geografia politica del nostro tempo: noi siamo quelli che danno un giudizio critico ma sostanzialmente positivo di due fenomeni che segnano la contemporaneità: la globalizzazione e l’Europa. E qui sta una prima netta differenza con i populisti, i quali tutti, di destra o di sinistra, della globalizzazione e dell’Europa offrono un giudizio ugualmente liquidatorio. Il populismo imputa alla globalizzazione la crescita delle diseguaglianze e all’Europa la morte della sovranità popolare.
Proviamo allora a definire un punto vista comune alle culture che abbiamo messo in dialogo rispetto ai due fenomeni. Se la globalizzazione ha portato in venti anni la povertà assoluta nel mondo da due miliardi a 800 milioni di persone, se questa riduzione della povertà è concentrata in aree del pianeta diverse dall’Europa, se pure in Europa il potere d’acquisto del cosiddetto ceto medio è diminuito, non tanto rispetto a ciò che si ha, quanto rispetto a ciò che si aspira a possedere, se insomma tutta questa complessità ha messo in crisi la democrazia liberale, i liberali, i cattolici e i riformisti devono maledire la globalizzazione o devono piuttosto sostenerla, correggendone alcuni suoi effetti paradosso e alcuni eccessi? La risposta è scontata. E definisce la frontiera dove finisce la democrazia e inizia il populismo. C’è nella cultura liberale, cattolica e riformista una quota di irriducibile cosmopolitismo che áncora il giudizio di un’offerta politica all’avanzamento universale della condizione umana, che legittima l’anelito a promuovere il modello democratico e che impone di considerare il problema della solidarietà pregiudiziale rispetto a qualunque progetto politico e civile. Il giudizio sulla globalizzazione non può sfuggire a queste coordinate.
Allo stesso modo il giudizio sull’Europa non verte sui vincoli imposti dall’esterno alla nostra sovranità, ma anzitutto sulla responsabilità che il Paese assume verso le generazioni future ed entro la quale va perseguito l’interesse nazionale. Tale responsabilità è tutt’uno con il nostro modo di intendere la delega democratica. Questa non si esaurisce nel voto, perché la legittimazione popolare, per ampia che sia, non definisce per intero il perimetro della sovranità. Che non è una scatola vuota da riempire con le maggioranze di turno, ma tiene insieme, invece, potere e sapere, parlamenti e istituzioni non elettive, in un bilanciamento che è la sostanza del patto europeo, la forma più evoluta di democrazia che si conosca. Non a caso la democrazia europea è detta rappresentativa, in un senso che il populismo non comprende e cerca perciò di ridurre alla difesa di interessi di parte e del momento, da perseguire contro il nemico di turno.
Il giudizio sulla globalizzazione e sull’Europa traccia una prima linea di demarcazione tra la politica che vive e muore nel presente e quella protesa verso il futuro. Ma per quanto netta sia la distinzione tra queste due prospettive, una nuova alleanza tra liberali, cattolici e riformisti non può fermarsi ad essa. Non può fermarsi a condividere una carta degli ideali. Deve dare risposte complesse, ma credibili, a problemi specifici del nostro Paese che il populismo taglia con l’accetta e affronta con le sue false verità. E che qui di seguito proveremo a tracciare in sintesi.

Il primo di questi problemi è connesso con la nostra appartenenza all’Europa e riguarda il modo con cui la politica economica affronta il fardello del debito pubblico.

La sua riduzione, prima ancora che ai vincoli del patto di stabilità, risponde all’obiettivo di ricomporre una frattura generazionale che si è aperta nella nostra società. Dichiarare questa priorità significa segnare un prima necessaria discontinuità da un’offerta politica distributiva fondata su promesse non sempre mantenibili, o mantenute perché finanziate in deficit e caricate sul destino delle generazioni future. Ma significa anche assumere un impegno duplice: da una parte a ridurre la spesa pubblica, totem intangibile di tutte le politiche degli ultimi decenni, e dall’altra a investire sulla crescita strutturale, sulla difesa e promozione del capitale umano, sullo spostamento della protezione sociale dai padri ai figli e sulla riduzione del divario tra il sud e il nord.
Senonché il taglio della spesa e le misure per lo sviluppo sono due obiettivi potenzialmente confliggenti o piuttosto convergenti, a seconda del modo in cui si declinano. Se lo statalismo populista li pone in aperta contraddizione, ciò che può armonizzarli è uno spirito riformatore che punti a ripristinare una dialettica virtuosa tra pubblico e privato, attraverso un arretramento dello Stato nell’economia. Di questo spirito, presente nella tradizione del loro pensiero, liberali, cattolici e riformisti laici sono chiamati a fornire una sintesi. La stessa auspicata riduzione delle tasse ha un senso solo se non è l’oggetto di una mera promessa distributiva a favore di determinate categorie – “far pagare meno tasse a un bel po’ di gente”, come dice Salvini -, ma se si collega alla liberazione di energie che da un centro pubblico vanno verso la società. Rimettere in moto questo flusso, nella giusta misura e nella direzione di una maggiore giustizia sociale, è la sfida che abbiamo di fronte. E che il populismo ha del tutto mancato.
Ma la responsabilità che la democrazia liberale italiana deve assumere verso l’Europa riguarda anche l’impegno a costruire alleanze per rimettere le politiche pubbliche, nazionali e soprattutto sovranazionali, in connessione con il ciclo economico, gestire gli choc proteggendo le fasce più deboli e promuovere la crescita e l’inclusione. Questo impegno è credibile se muove da un’analisi equilibrata e condivisa dei limiti e degli errori tanto della costruzione europea, quanto del ruolo che in questo processo ha giocato il nostro Paese e la sua classe dirigente.

Il secondo problema riguarda la riforma dello Stato, storica incompiuta della politica italiana, a cui ha fatto seguito l’anarchia costituente della maggioranza gialloverde, che ha espropriato il Parlamento e lo stesso governo della sua potestà decisionale, sostituendoli con una diarchia pattizia e personalistica che ha avuto per lungo tempo protagonisti i leader dei due partiti di maggioranza.

Il punto di originalità e di convergenza tra liberali, cattolici e riformisti è la ricomposizione della delega: verso questo obiettivo va indirizzata tanto una riforma dei poteri, quanto la legge elettorale, quanto ancora il sistema di finanziamento dei partiti e il linguaggio di una nuova cultura politica. Che cosa in concreto intendiamo per ricomposizione della delega? Che la legge elettorale e il finanziamento della politica, per fare due esempi, devono rispondere all’obiettivo di ripristinare un equilibrio tra rappresentatività e governabilità, ma anche tra potere e sapere. Perché non sono solo le leve per far funzionare il sistema, ma anche lo strumento di selezione e di formazione della classe dirigente del Paese. In concreto una legge elettorale proporzionale, o maggioritaria, o mista, non va valutata solo per la sua attitudine a garantire il pluralismo o piuttosto a produrre maggioranze stabili, ma anche per la sua capacità di avvicinare alla politica le energie migliori della società.
All’obiettivo di restituire alla politica la maestà perduta si collega anche il recupero di una visione nazionale, oggi estranea a quasi tutte le forze presenti in Parlamento. Che non significa centralismo, ma significa che qualunque articolazione territoriale di poteri e di funzioni va disegnata pensando sempre l’Italia come un intero. Questo racconto d’insieme impegna liberali, cattolici e riformisti a ricostruire una pedagogia e una retorica della responsabilità, capace di contrapporre all’angustia di un’autonomia differenziata pattiziamente concordata tra le regioni più forti e il governo centrale un disegno organico, in cui c’è spazio per premiare il protagonismo dei territori, senza perdere l’obiettivo di riavvicinare un Paese diviso. È una sfida difficile, da costruire sul piano culturale prima ancora che politico.

Il terzo problema riguarda la protezione dell’opinione pubblica contro l’ubriacatura plebiscitaria della società, diventata malattia del consenso.

Su questo tema di straordinaria complessità, che non è sintetizzabile in poche parole, c’è tuttavia una convergenza naturale tra i liberali, i cattolici e i riformisti. Riguarda la necessità di rifare le élite, cioè di rifondare quella delega del sapere che il populismo ha annientato. Il primo passo di una reintermediazione civile è una pedagogia della libertà e della qualità del pensiero, fondata sul sistema educativo e formativo e sull’informazione pubblica e privata. Una indifferibile riforma della Rai s’inscrive pienamente in questo progetto.

L’investimento sul sapere è da assumere come un obiettivo di qualunque progetto riformatore del sistema, ribaltando la china burocratica che la questione del merito ha assunto nel Paese negli ultimi decenni. Si tratta di ridefinire il metodo della qualità nella pubblica amministrazione, nell’accademia, negli ambienti pubblici della ricerca: il merito deve tornare a essere l’esito e insieme la ragione legittimante di un’autonomia decisionale saldamente collocata dentro una preesistente e condivisa gerarchia del sapere. Si tratta di riaffidare alla responsabilità delle élite il compito di riconoscere e tutelare in concreto i diritti, evitando che il principio di legalità, fondamento del potere in uno Stato di diritto, si traduca nell’adozione deresponsabilizzante di regole asettiche e oggettive e in un controllo ottusamente burocratico, che peraltro non ha fin qui impedito al familismo e al nepotismo di infiltrarsi nei meccanismi di selezione del merito e di piegarli a opachi interessi.

Significa rilegittimare le posizioni apicali, che nel settore pubblico sono state espropriate della loro potestà discrezionale e trasformate in centri di burocrazia autoreferente, monopolizzati da corpi intermedi trasformatisi in gruppi corporativi. Significa, ancora, rimettere il magistero, di qualunque disciplina, nella condizione di valutare, in piena autonomia e senza conseguenze giudiziarie, le promozioni nella scala gerarchica funzionali allo sviluppo della democrazia. Ciò vuole dire azzerare una narrazione del Paese scritta con il diritto penale e surrogarla con una retorica pubblica centrata sulla promozione dei doveri sociali e sull’obiettivo di valorizzare i talenti e affidare loro le sorti dell’Italia. È un’inversione di rotta. Un compito difficile ma non impossibile: sostituire la democrazia dei peggiori, che nega le differenze in nome dell’egualitarismo ma finisce per sortire una giungla di privilegi non legittimabili, con una democrazia dei migliori, che riconosce le differenze e áncora a queste la responsabilità sociale dei primi nei confronti di tutti.

Il quarto problema riguarda la manutenzione del rapporto tra diritti e doveri, a cui si collega l’urgenza di una vera riforma della giustizia.

C’è nella cultura liberale, in quella cattolica e in quella riformista una premessa che le accomuna e le distanzia dal populismo dei tempi: è l’idea che il diritto penale sia l’extrema ratio della democrazia liberale e non la sua lingua. Questa premessa è l’architrave di una visione con cui ridefinire l’assetto e le regole della giustizia, invertendo la tendenza di un diritto penale no-limits, la cui pervasività ha un impatto sociale ed economico non debitamente considerato. In concreto occorre convergere su un sistema di diritto sostanziale che ritorni a mettere il fatto costituente reato al centro, contro la tentazione dei tempi di sostituirlo con il reo, e un diritto processuale che renda finalmente compiuto il sistema accusatorio, garantendo così una effettiva parità delle parti in giudizio. Allo stesso modo è necessario ridefinire, senza ridurne l’ampiezza, il senso di quell’indipendenza del magistrato che una prassi distorsiva ha tradotto in irresponsabilità, e connettere a una recuperata responsabilità anche l’obbligatorietà dell’azione penale, senza svuotarne la funzione di garanzia per il cittadino. La separazione delle funzioni e delle carriere tra giudicanti e inquirenti è, di questo progetto, la naturale conseguenza e non la premessa.
Ma il rapporto tra diritti e doveri è anche l’occasione di ricostruire una dialettica non divisiva tra laici e cattolici.

Questa è la sintesi insieme più difficile e più stimolante. Perché rappresenta la pietra d’inciampo di tutti i tentativi fin qui compiuti negli ultimi anni per rimettere in connessione le libertà individuali con le responsabilità collettive. Temi come la protezione della famiglia o piuttosto la promozione delle unioni civili e del matrimonio gay, l’autodeterminazione e la libertà di cura o piuttosto i diritti del nascituro, per fare solo degli esempi, sono diventati il monopolio di visioni radicali per la rinuncia del pensiero moderato laico e cattolico ad affrontarli e a transigere. C’è una frontiera ecologica, figlia dei tempi, su cui è possibile e urgente proiettare queste problematiche e tornare riconoscerle come parte di una relazione tra diritti e doveri, riannodando l’io al noi, facendo della sostenibilità la formula che regola il rapporto tra le aspettative di sviluppo di una società e la responsabilità che questa assume nei confronti di chi verrà dopo.

Il quinto problema riguarda il rapporto con le altre culture, reso urgente dall’impatto civile e sociale delle migrazioni nelle nostre società.

La propaganda leghista ha avuto l’effetto di schiacciare l’intera problematica nello spazio simbolico del pathos, ribaltando i rapporti di forza: per una minoranza che coltiva il dirittismo universalista e cosmopolita di un’Europa senza frontiere, ignorando peraltro che non esiste politica senza un’idea di spazio e che non esiste spazio politico senza frontiere, c’è oggi in Italia una maggioranza sovranista che le frontiere pretende di impermeabilizzarle, ignorando che lì è in gioco il rapporto tra le civiltà e perfino ciò che resta della forza spirituale dell’Europa. Tra le due posizioni estreme c’è il vuoto, cioè l’assenza pressoché totale di opzioni intermedie, non in quanto genericamente terziste, ma in quanto saldate a una complessità che non si taglia con l’accetta. Così la polarizzazione ha indotto quel che resta dei moderati a inseguire la Lega sui suoi accenti xenofobi.

La sfida di liberali, cattolici e riformisti è quella di ridefinire la misura della solidarietà, il cui risultato inclusivo dipende dalla concreta, e mai illimitata, capacità di accoglienza, di riconoscimento e di scambio, in condizioni di sicurezza. Ma questa misura sarà tanto più saggia e immune ai rovesci della storia, quanto più frutto di una convergenza sul senso e sui limiti del dialogo tra culture e fedi diverse. E qui si tratta di intendersi sulle condizioni di questo dialogo, cercando un punto di sintesi tra il cristianesimo e una laicità non ideologizzata. C’è nelle culture considerate una parola che, diversamente declinata, definisce le condizioni di partenza: l’identità. Si tratta di sottrarla alla storica contrapposizione tra un modello di derivazione illuministica, fondato sull’adesione a valori condivisi, e un altro di derivazione romantica, fondato sulla nascita e su una presunta unicità etnicamente attribuibile all’individuo. Nella sintesi a cui sono chiamati i liberali, i cattolici e i riformisti, l’identità va concepita non più come «data una volta per tutte», ma come la costruzione di un’intera esistenza: in quanto fondata su molteplici appartenenze, alcune legate a una storia etnica e altre no, alcune legate a una tradizione religiosa e altre no, essa è sempre più la risultante delle relazioni di socializzazione diretta tra gli individui e tra gli individui e le istituzioni. Concepire l’identità come un fattore di inclusione e di trasformazione non significa però rinunciare al diritto di una comunità, quella europea, di difendere le condizioni della propria riproducibilità sociale e della propria continuità civile e amministrativa, anche in momenti di rapidi cambiamenti. Da queste coordinate è possibile riportare l’intera problematica dell’immigrazione dal pathos al logos.

Il sesto e ultimo problema riguarda il rapporto tra gli italiani e la storia.

Se la mancanza di una memoria condivisa è il contesto in cui l’opinione s’impone sulla verità, non c’è dubbio che il populismo ha scavato, con più facilità qui che altrove, una breccia nella permeabilità del racconto che il Paese fa di sé. Mani Pulite resta la pagina più controversa della sua storia recente, e allunga sul presente tutte le contraddizioni irrisolte di un stagione che ha cambiato irreversibilmente il rapporto tra magistratura e politica. Se ne è avuta prova alla morte di Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo di Milano e di quella stagione protagonista assoluto: la politica e il giornalismo si sono divisi tra una santificazione e una censura, rinunciando di fatto a un’analisi dell’impatto che l’azione della magistratura ha avuto sul destino della delega.

È da questa analisi che l’impegno comune di liberali, cattolici e riformisti deve ricostruire una memoria condivisa, da cui sola può venire una risposta al quesito che Craxi pose in Parlamento nell’ormai lontano 1992: come si riporta nella legalità il finanziamento della politica?

E cioè, come si regola il rapporto tra poteri pubblici e interessi privati o, piuttosto, come si giustifica un finanziamento pubblico esaustivo dei costi del sistema, di fronte alla crescente crisi di legittimazione dei partiti?

I sei problemi qui descritti definiscono il perimetro ideale di un’area di pensiero e sensibilità tanto ampia nella società italiana quanto silenziata dalla mancanza di una rappresentanza e di un linguaggio comune e adeguato ai tempi. Entro quest’area è necessario approfondire ulteriori punti di convergenza per la definizione di una piattaforma civile prima e di un programma politico poi, prima ancora di cercare il personaggio nuovo, o piuttosto il tycoon che può diventarlo, a cui affidare la leadership dell’antipopulismo.

Si tratta in concreto di sperimentare la prospettiva del compromesso come il contenuto stesso dell’offerta politica e di costruire, su queste basi, una pedagogia e una retorica attraverso cui tornare a comunicare al Paese quanto già detto all’inizio di questo articolo: noi siamo quelli che si riconoscono nel dialogo e nella sintesi tra la cultura liberale, la cultura cattolica e la cultura riformista, ma non siamo più nessuna di queste culture prese singolarmente.

E ancora: noi intendiamo con questo dialogo rifondare il patto rappresentativo che, disfacendosi, ha aperto la strada alla nascita del populismo.

A chi obietta che quest’area non è maggioritaria nella società, rispondiamo con la seguente domanda:

quanto sarebbe diversa la democrazia italiana se oggi, alla vigilia di elezioni che possono consegnare il Paese a una sola polarità populista, esistesse un forza politica liberale, popolare e riformista, estranea ai vecchi contenitori, svincolata da vassallaggi e autonoma rispetto alle future alleanze, in grado di raccogliere anche solo il 10 per cento dei consensi?

A chi ancora obietta che non c’è tempo per discutere di idee e di programmi, perché i tempi stringono ed è necessario armare gli eserciti, rispondiamo che una prospettiva politica nuova per la democrazia italiana ha una possibilità di imporsi e di durare solo se è capace di volare oltre l’urgenza dei tempi, di cui il populismo è figlio. Non sono le prossime elezioni l’imperativo a cui rispondere, ma l’idea del Paese che abbiamo coltivato al confronto con l’immagine del Paese che vediamo declinare sotto i nostri occhi. Per questo chiunque si riconosca nei principi qui enunciati è chiamato ad assumere l’iniziativa, nei modi e con i mezzi di cui dispone.

Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com
error: Contentuti protetti