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P COME PAURA

Un termine che ha radici lontane, indoeuropee, mediato “essere percosso”

di Rosella Corda (PhD Filosofia e storia)

Che in questo spazio si coltivi il piacere (spero condiviso!) per il discorso filosofico, credo non si abbia più alcun dubbio. Forse si potrà nutrire qualche dubbio sullo stile, o sul modo, attraverso cui tale discorso è condotto e reso, così come sull’opportunità di tutto ciò in una cornice “quotidiana”, benché a frequenza settimanale. D’altronde, un conto è avere un dubbio, così, come si ha un’esitazione tra le altre davanti a una scelta; un’altra cosa è coltivare il dubbio come pratica della modestia intellettuale. A quel punto, rimuovere un dubbio sarà come sollevarne un altro. Se si volesse indicare una caratteristica tipica del nostro tempo, quella sarebbe proprio l’incertezza, la stessa che, per certi versi, mosse Cartesio a compiere quell’atto di pensiero, che è il “cogito”, in maniera straordinariamente tanto radicalequanto carica di conseguenze. Nel dubbio, il cui correlato è il punto interrogativo, si esprime così tutta la forza e tutta l’umiltà dell’intelligenza. E oggi a maggior ragione. Quindi non è il dubbio a far paura… Al dubbio si risponde con le domande, quelle essenziali. E le domande, l’attitudine al pensiero filosofico, non può e non deve essere una pratica elitaria, isolata e isolabile. Deve invece essere qualcosa che si propaga e si diffonde, perfino nell’anomia, come una sorta di virus dell’intelligenza attiva, ogni giorno, ogni momento, per ogni istante del tempo che viviamo. La riflessione richiede tempo, è vero. Ma è proprio la velocità del nostro tempo a lanciarci nell’incertezza e quindi nel dubbio, e quindi nel bisogno di riflettere. Dunque, mai come ora, proprio in questo momento, occorre prendersi il tempo di ragionare, poiché quando l’onda arriva ci sono due possibilità: o si surfa o si affonda.  Così col pensiero. O ci si fa pensare, assorbire, affondare; o si pensa, con umiltà, ma con determinazione. Sfidando le determinazioni: quelle prigioni che talvolta sono le convenzioni e le abitudini. Senza paura. Ma che significa “paura”? Che vuol dire “aver paura”? Si tratta di affetti, cioè di quell’insieme di stati dell’animo umano in cui prendono forma i sentimenti veri e propri, nonché i pensieri. Spesso quando si corre troppo, si tende a frenare, perché si ha paura. In tal senso la paura funziona come interruttore biologico, programmato in anni di evoluzione, al fine di condizionare utilmente le strategie di sopravvivenza. Ferma o in alcuni casi accelera, ma si tratta spesso di aggressività o violenza subita o agita. Si può parlare di valore, come di disvalore, della paura? Gli affetti sono interessanti perché costituiscono il luogo, l’amalgama, in cui si profilano le idee e le scelte. Comprenderli è un po’ come giocare con l’acqua – ma sapendo che si tratta di un oceano e non di un bicchiere. Ovviamente si può annegare anche nell’onda di un bicchiere d’acqua, ma a quel punto bisogna aver maturato davvero poca pratica della riflessione filosofica. La parola “paura” fa paura anch’essa. Sia che la si usi a scopo catartico, scenico, caricaturale; sia che la si ponga a tema di un discorso. Molto più che della paura, la filosofia ha parlato di “angoscia”. Perché questo? Forse perché si è detto che l’angoscia èquel singolare affetto che non ci fa temere qualcosa tra le altre, ma è quell’interruttore che ci arresta di fronte al Nulla. Facile. L’angoscia si presta così alla massima astrazione. E la massima astrazione fa il gioco della massima filosofia. Quella che tenta il parlare per tutto e per tutti una volta sola, per tutte le volte possibili. Quella filosofia che non parlerebbe mai al quotidiano, che ha orrore del quotidiano! Quella filosofia che il dubbio, a modo suo, lo rimuove, affondando nel Nulla come fosse la massima conquista della modestia – e invece è un atto di arroganza fra i tanti possibili. L’arroganza di misconoscere la paura. Quel sentimento che proviamo tutti, nel bene e nel male. Che significa “paura”? è un termine che ha radici lontane, indoeuropee, a noi mediato dal latino nel senso di “essere percosso”. La parola paura è legata a qualcosa di concreto, alla paura-di essere abbattuti in qualche modo, subire violenza. La paura è legata sì all’annichilimento, ma in termini empirici, concreti, non astratti. In tal senso, il cuore impavido è quello dell’eroe, colui che vuol dire sfidare i limiti stessi dell’esperienza e della concretezza umane. Ma più dell’inumanità, perfino nei suoi nobili eccessi, qui interessa l’umanità. E aver paura è umano, è legato a quella condizione di “cattiveria” propria di chi vive in “cattività”, gettato nell’oscurità di un’epoca che consente davvero poche vie di fuga, a tutti i livelli. E chiude i porti. Il “porto”, che è assurto a simbolo di fecondità di ogni attraversamento, oggi si sterilizza nella paura-di. Come se il nemico fosse sempre alle porte. Il fatto è che bisogna comprendere la paura, per comprendere come, se il nemico si avverte sempre alle porte, è perché un nemico ben più subdolo è entrato a minare la nostra vita. Il nemico siamo noi, quando per fare argine al dubbio, alziamo muri di risposte esclamative, invece di porre domande, capire, cercare di accogliere, innanzi tutto la nostra paura stessa. Perché la paura, se rimossa, diventa strumento di qualcuno altro contro le risorse del nostro coraggio. Dell’angoscia si può far poco. Della paura si fa molto. Sulla paura si può costruire un indotto di marketing e politica che neanche sul “piacere”. Perché la paura è sempre di qualcosa e quel qualcosa assume i tratti di un qualcuno su cui scaricare la colpa, il male, l’indice del nostro abbattimento. La paura ci è utile, ma la paura può diventare un freno mortifero. Accogliere la paura come si accoglie un dubbio, con modestia e apertura.Per comprendere.Senza incorrere in pratiche sacrificali dalle fattezze tribali. Aver paura come fonte di coraggio, non come resa di fronte al pericolo e all’incertezza che quindi altri ci travestono-da, a seconda delle circostanze – politiche, culturali, esistenziali.

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