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R COME RESISTENZA

Emanciparsi dalle “lotte tristi”

di Rosella Corda (PhD Filosofia e Storia)

Come al solito partiamo dal pretesto di una riflessione sulla etimologia della parola per addentrarci poi in un discorso che sviluppi la nostra traccia, in questo caso particolarmente impegnativa. A volte ci è capitato, nel corso di questa rubrica, di affrontare alcuni temi di petto, altre volte, invece, abbiamo assunto strategie di discorso indiretto, nel senso che attraverso una parola, siamo poi approdati a un significato altro che si è mostrato essere il vero obiettivo del ragionamento. Diremo “resistenza”, dunque, per dire cosa? Diremo “resistere”, allora, in che senso? Resistere contro/per/in vista dicosa? Ha senso parlare di resistenza solo secondo un paradigma che prediliga, nel suo schema, un confronto-affronto tra forze di segno opposto? Qual è la complessa “ragione fisica” sottesa a questa dinamica? E soprattutto, ce n’è solo una possibile? Com’è nostra abitudine, abbiamo scelto per questi interventi uno stile “leggero”, sebbene non facile. Continueremo così e, per chi fosse particolarmente interessato ad approfondire, attingendo riferimenti bibliografici qui sottintesi e non espressi, indicherò una mail personale a cui indirizzare eventuali spunti nel merito. Anche questa volta non menzioneremo alcun autorevole riferimento? I maestri li riconosci dalla generosità, da quella cifra di eccedenza capace di superare soglie spazio-temporali. Un maestro ha sempre qualcosa da dirti, nel senso di risvegliare sempre la tua attenzione senza mai esaurirne la forza. Un allievo, dunque, lo si riconosce dall’attenzione che mostra. E, forse, una delle migliori condizioni possibili è quella per cui si riesca a essere sempre attenti a qualcosa grazie a qualcuno – a proposito di amicizia, un’amicizia che sia sempre un fare-segno-a, indicando e aprendo strade verso nuovi orizzonti, nuovi valori. In deroga alle nostre consuetudini, forse questa volta menzioneremo, a questo proposito, qualcuno di molto autorevole. Ma torniamo alla parola “resistenza”. È una parola composta e una parola complessa: dal latino re-sistentia, a sua volta da re-sistere. Se da un lato la particella “re” significa, in questo caso, “indietro”, “sistere” cosa significa? Ha la stessa radice del verbo “stare” (vicino anche al tedesco “stellen”=porre/situare e “stehen”=stare in piedi/stare saldi) e vuol dire “stare fermo”, “stare saldo”. Re-sistenza vorrebbe dire “opporre una fermezza”, ma nel senso del non cedimento, della chiusura, dell’opposizione, o cosa? Guarda caso, questa parola rima con un’altra parola, altrettanto composita e complessa. Esistenza. Esistenza e resistenza costituiscono un binomio decisivo. A guardar bene una si spiega nell’altra. Come intendere la “ex” che compone la parola “ex-sistentia” da cui la nostra “esistenza”? Come una sottrazione? Come il “fuori” di uno stare? Il “fuori” di quella stessa “fermezza” di cui dicevamo più sopra, come una sorta di “fuoriuscita”? Parole complesse, che sembrano togliere (re/ex) mentre forse aggiungono. In realtà dire “esistenza” è insieme dire il dentro di un fuori o, meglio, la consapevolezza come riflessione sul propriumdi qualcosa, del proprio-stare come stare-fuori, tra-scendere, andare-oltre. La consapevolezza di una resistenza, appunto – oltre un ordine dato, oltre un confine presunto, oltre una serie di valori stanchi. Resistere indicherebbe sì uno stato di ferma opposizione, ma questa “fermezza” come va intesa? Con quanta e quale determinazione si è infine “fermi” in un proposito di resistenza? La soglia è quella dell’auto-determinazione, il paradosso di quella stessa “fermezza aperta” di cui abbiamo avuto modo di parlare a proposito della parola “dignità”. Se per resistenza intendessimo solo una forma di opposizione-a qualcosa, perderemmo proprio il senso di quell’autodeterminazione che fa sì che appunto possiamo riconoscere come nostro, proprio nel senso di “mio”, quel dentro del fuori, l’esistenza stessa come forma di resistenza. C’è uno stare, un vivere, che è tanto più saldo, più resistente, perdurante, nella misura in cui non si limita al negativo, ma lo trasvaluta. Lo oltre-passa. E come si supera il negativo? Come ci si emancipa dalle “lotte tristi”, quelle vissute nella sottomissione categoriale ed esistenziale alla logica del nemico? Con una resistenza affermativa, ovvero nel segno di un’autodeterminazione “piena di merito”, una forma di vita creativa. Ma attenzione! Quando si parla di “creativo” non si parla di cliché pop. Per “creativo” si intende esattamente il “fuori”, il dissonante, l’unicum che caratterizza ciascuno di noi nel suo profilo vivente, necessariamente aperto. Resistere, allora, è innanzitutto quell’atto di auto-poiesi per cui si dice ancora una volta “io”, si “sta”, ci si oppone ma come atto di generosità. Ci si afferma, offrendo quella piccola differenza che rappresentiamo. Sono queste le “lotte felici”, non perché riescano per forza, ma perché costituiscono sicuramente “fuoriuscite”, linee di fuga. Bisogna lottare, senza confondere la resistenza con il risentimento, ma piuttosto rivendicando un ordine più inclusivo per tutti.“Non ogni atto di resistenza è un’opera d’arte” – scrive G. Deleuze. L’atto di creazione sì. L’esistenza è una ri-creazione di resistenze quando afferma se stessa come “una vita”,inesauribile ricchezza. Chi è il campione della resistenza, oggi? Sicuramente il migrante. Che rappresenta, oltre tutto, la più alta opportunità attuale di costruzione di un ordine affermativo, aperto, nuovo – a dispetto della quantità di infinita tristezza si produca continuamente sotto il marchio del risentimento più bieco. Per contributi e informazioni scrive alla mail: rcorda06@gmail.com

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