di Francesca Berillo
L’arte è una dimostrazione di esistenza, similmente a quella umana e naturale, ha molteplici forme e possibilità di mostrarsi all’esterno, con una sola differenza: è immortale. Nell’opera sopravvive l’artista, la figura umana corrotta dal tempo, e si fissa l’istante emotivo che, altrimenti, sarebbe un elemento evanescente e stimolato soltanto, fin quando sia concesso, dal ricordo. Nonostante ciò, la sua eternità può deteriorarsi, essere dimenticata, fallire. Gallerie, musei, pinacoteche ed esposizioni permettono all’arte di sopravvivere, di ricevere ospitalità. Il termine “pinacoteca” deriva dal greco “πίναξ” pinax, “quadro” e “θήκη” théke, “scrigno”, “ripostiglio”, e proprio la Pinacoteca Provinciale della città di Potenza è forziere dei tesori lucani, e non. Oltre ad essere la sede di mostre personali e collettive, essa accoglie l’esposizione permanente di opere pittoriche e scultoree di proprietà della Provincia di Potenza.

L’ingresso si apre con le tempere della bottega di Antonio Stabile, pittore nato a Potenza che ha operato durante la seconda metà del Cinquecento. La “Resurrezione” e la “Deposizione” affiancano un altorilievo di Martinez, “Allegoria della musica” e la scultura “Vergine con bambino”, i colori della tela si fondono alla profondità del marmo e inaugurano la visita ad un’esperienza sensoriale vivida e intensa. Le pareti della sala successiva sono allestite con le opere della mostra permanente, di artisti appartenenti alla fine dell’Ottocento e del corso del Novecento. Spiccano i ritratti femminili di Giuseppe Mona, e quello di Vincenzo La Creta, ai quali si accostano i paesaggi quotidiani e contadini di Squitieri, il “mercato di paese” di Brando e la natura della Valle d’Agri raffigurata da Bianchi e Petroni. La realtà e l’espressività dei volti umani sono trasfigurate straordinariamente sulla tela di Renato Guttuso “L’occupazione delle terre”, e su quella di Carlo Levi “Bambini di Eboli”. Mentre i quadri esposti degli svariati autori si allineano in armonia, la sala superiore custodisce unicamente le opere di Rocco Falciano, significativa donazione della famiglia dopo la sua scomparsa avvenuta il 18 gennaio 2012.
L’artista lucano, allontanatosi dalla propria terra per poter esibire e accrescere il suo talento, coglie una visione del mondo singolare e concreta. La tensione di una tecnica immediata e spontanea riprende un concetto di semplicità, come si può osservare nella “Natura morta su un tavolo” o nell’acquerello su carta “Intero giorno”. È un contesto di esistenze nitide e riordinate. Campi, figure umane, oggetti e circostanze si rivelano all’occhio dell’osservatore veritieri e puri, nella loro più consueta regolarità. La produzione si figura come il frutto dell’introspezione personale proiettata nella materia. La donazione è il ritorno dell’essenza di un genio che ha vissuto la lontananza delle proprie origini, ma mai l’abbandono. Non potrebbe esserci esempio più tangibile, l’arte non si sospende e prosegue il suo istintivo cammino. La morte di un’artista è nulla, c’è un avvenire infinto nell’esposizione artistica, l’uomo deve ascoltarlo e avvertire il bisogno di vivere anche in ciò.
