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L’analisi di Paride Leporace in memoria del cosentino Stefano Rodotà

PER STEFANO RODOTÀ (1933-2017) di Paride Leporace La notizia mi è giunta come un fulmine inatteso mentre ero impegnato nei

PER STEFANO RODOTÀ (1933-2017)

di Paride Leporace

La notizia mi è giunta come un fulmine inatteso mentre ero impegnato nei lavori di un consiglio di amministrazione e ho sentito subito il dolore al cuore come quello quando perdi una persona cara. Un punto di riferimento della sinistra con un’indipendenza ammirevole tutta segnata dal pensiero laico e dalla difesa dei valori della libertà e del Diritto.

A fornirmi la ferale novella l’amico Luca Addante, storico,politologo e uno dei massimi conoscitori della storia di Cosenza, nostra città che diede i natali a Stefano Rodotà nel 1933, e che da par suo digita nel telefonino le segnanti poche righe che vi trascrivo: “Perdiamo tantissimo noi laici, noi progressisti che crediamo in Giustizia e Libertà e sempre più diritti, noi radicali, in tutti i sensi, un grandissimo italiano-europeo, ma pure Cosenza perde uno dei suoi più grandi figli di sempre, con Telesio, Gioacchino, Parrasio, Serra, Salfi. Ne sono persuaso per noi il livello è quello. Fortunatamente in termini di pensiero ci ha lasciato una ingente eredita”.

In questa mia nota non avrò l’ardire di tracciare una biografia monumentale di Rodotà ma di fornire tasselli di una personalità estremamente significativa della storia repubblicana. Nella sua giovane vita contò molto la libreria di famiglia,la radice di albanesi illustri di San Benedetto Ullano partecipi del Risorgimento, un padre azionista che dava ripetizioni a Giacomo Mancini. E poi la Roma degli anni Cinquanta dove approda incontrando Elena Croce, il Mondo di Pannunzio dove scrive in prima pagina appena ventenne, l’adesione al Partito Radicale.

Apprezzai molto Rodotà scoprendo alcune pagine di un libro, non di diritto né di politica della sua illustra bibliografia, curato da Walter Veltroni per la collana “Il pane e le rose” e titolato “Il Calcio è una scienza da amare”. Era quello, in pieni anni Settanta, un significativo tentativo di sdoganare alcune pesantezze della sinistra su un fenomeno antropologico di enorme rilevanza e quindi si erano raccolte testimonianze illustri sull’arte pedatoria. In quelle pagine Rodotà confessa a cuore aperto la sua passione sviscerata per il Cosenza. Un tratto di quanto fosse identitaria la sua appartenenza alla città.

Fu lieto che questo piccolo aneddoto fosse incipit dell’intervista che gli feci all’edizione del Premio Sila del 2015, in cui fui onorato per come meritava, in cui chiosò con simpatica provocazione “la migliore cosa che ho scritto”, dando poi la stura al rapporto con la sua città. Il liceo Telesio, e i suoi professori, la campagna elettorale del ’48 con i comizi di Nenni e Togliatti, la piccola città che aveva una sola libreria dove lui comprava “La fiera letteraria” e quel desiderio di trovare confini più larghi approdando a Roma. Ma sempre rimanendo legato all’Atene di Calabria e i suoi pensatori. Soprattutto Campanella posto in esergo con citazione ad una delle sue opere più amate.

Fu molto bello e indimenticabile il dopo premio alla cena di tradizione a casa di Enzo Paolini (Rodotà era anche gourmet) dove conversammo nel suo nuovo ruolo di figura che dialogava con la gioventù democratica della Rete. Siamo stati tifosi illusi di vederlo salire al Quirinale al ritmo di “Ro-do-tà”. E non era solo una personale tifoseria campanilista. L’inedito schieramento che coinvolgeva i Cinque stelle, Sel e pezzi del Partito Democratico attraverso la sua funzione indipendente dava una speranza che fu bloccata. La pedestre buonuscita del capocomico grillino alle giuste critiche date da Rodotà alla politica pentastellata forniscono ulteriore prova sull’autonomia culturale di un gigante della Repubblica che sarebbe stato un Capo dello Stato da ricordare.

Il suo ragionar e scrivere chiaro e netto, giurista di fama internazionale, politico delle idee. L’indipendente di Sinistra per eccellenza. In queste ore, Franco D’Ambrosio, ha raccontato come da segretario della Federazione giovanile socialista di Cosenza nel 1979, venne investito da Ermanna Carci Greco, intima amica del professore, di accettare una candidatura nel Partito Socialista. Scelse invece l’approdo del Pci recando rabbia anche a Marco Pannella che lo voleva nei radicali. Si candidò in Calabria e mi par di ricordare il suo comizio in cui legava quella scelta anche alle questioni del caso Moro sulla trattativa. Ma fu uomo libero sempre. Lo mostrò da par suo, difendendo gli arrestati dell’Autonomia del processo 7 aprile, che oggi abbiamo persino le prove fu orchestrata dal Pci in stretta connessione con il giudice Calogero. Stessa autonomia dimostrerà nei confronti delle leggi liberticide del periodo. Rodotà non fu mai intruppato nella logica del centralismo democratico come uomo politico. Pur essendo un fondatore di Repubblica e per tutta la vita editorialista di quel partito-giornale non aderirà mai alla tesi giustizialiste di Eugenio Scalfari.

Tre legislature nella Sinistra indipendente che erano quegli intellettuali senza tessera che si presentavano nelle liste del Poi. Fu presidente del Pds , senza mai essersi iscritto, accendendo speranze che saranno nel meno di un anno abbattute. Convinto proporzionalista nel 1994 lascia il partito ma non farà mai venir meno la sua parola netta e il suo pensiero nitido in difesa dei diritti. E’ stato sentinella dei nuovi temi della democrazia digitale diventando garante della privacy con un dialogo aperto con i cittadini e la società che spero venga studiato con serietà.

Nell’opera smisurata di Stefano Rodotà mi preme ricordare una delle sue tante azioni civili che non ho visto nei numerosi articoli dedicati alla sua scomparsa. Nel 1976 i radicali avanzano una serie di modifiche legislative per via di iniziativa popolare significativamente chiamate “Carta della libertà” e che si propone di favorire “l’attuazione della libertà e delle garanzie costituzionali come premessa ineliminabile di qualsiasi programma comune della sinistra”. I radicali si avvalgono di un gruppo di giuristi in cui è presente anche Stefano Rodotà che ne plasma significativi principi. Ancora oggi quella Carta della libertà rimane la bussola necessaria.

Al momento in cui scrivo non ho letto parola di Renzi su Rodotà. Ed è giusto nel momento del commiato ricordare chi furono i suoi avversari. Da Giuliano Ferrara e al suo seguito che lo videro come peste al Quirinale ma anche attribuendogli la patente di “padre del pensiero che ha dato origine all’ossessione italiana per la privacy”. Ma è da comprendere considerato che Rodotà non fece mai sconti a Berlusconi. Infatti da quelle sponde lo definirono “Il capo dei parrucconi italiani” arrivando a sostenere che non era neanche un costituzionalista. Per la cronaca Rodotà era professore emerito di diritto civile alla Sapienza, la cattedra più prestigiosa e ambita dai giuristi italiani se non bastassero le docenze nelle più prestigiose università internazionali.

Mi pare significativo che Enzo Tatò, il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer , nel 1978 annoveri Rodotà assieme a Giuliano Amato e la redazione di “Mondo operaio” nel mazzo “degli intellettuali un po’ cialtroni, un po’ baroni, novatori pur che sia, anticonformisti per civetteria, fragili, pronti a ogni moda, già venduti e in vendita”.

La verità che un uomo libero dotato di grande ingegno non è amato da partiti e potentati.

Questo unito al resto rende alla mia piccola analisi immenso il grande italiano Stefano Rodotà.

Sperò che la mia Cosenza sappia rendergli Memoria al pari di Telesio.

Domenico Leccese 

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