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OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, UN VECCHIO ARTICOLO AL GIORNO IN ATTESA DELLA CASSAZIONE (8ª parte): INTERVISTA ALLA CRIMINOLOGA DELLA DIFESA URSULA FRANCO

Ad oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno dato ragione alla difesa di Stefano Binda

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE 

OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, UN VECCHIO ARTICOLO AL GIORNO IN ATTESA DELLA CASSAZIONE (8ª parte): INTERVISTA ALLA CRIMINOLOGA DELLA DIFESA URSULA FRANCO

LIDIA MACCHI


Il 5 gennaio 1987, Lidia Macchi, una studentessa universitaria di 21 anni, viene uccisa con 29 coltellate nel bosco di Cittiglio (Varese). Stefano Binda, un conoscente della Macchi, 19enne all’epoca dei fatti, viene arrestato il 15 gennaio 2016, condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese nell’aprile 2018 e poi assolto dalla Corte d’Appello di Milano, il 24 luglio 2019.

Hanno sostenuto l’accusa con le loro consulenze la psicologa Vera Slepoj, il criminologo Franco Posa e la grafologa Susanna Contessini. Secondo la Procura l’assassino avrebbe scritto IN MORTE DI UN’AMICA, una lettera che era stata recapitata a casa Macchi all’indomani dell’omicidio. Secondo la grafologa Susanna Contessini quella lettera era stata scritta da Stefano Binda.

La consulente della difesa, la grafologa Cinzia Altieri, ha da sempre contestato le conclusioni della collega.

All’indomani della condanna di primo grado gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli hanno chiesto una consulenza alla criminologa Ursula Franco che ha escluso che l’assassino avesse scritto IN MORTE DI UN’AMICA.

Criminologa URSULA FRANCO

Ad oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno dato ragione alla difesa di Stefano Binda.

Abbiamo deciso di pubblicare un vecchio articolo al giorno sul caso Macchi, lo faremo fino al 26 gennaio 2020.
Il 27 gennaio infatti si esprimeranno i giudici della Suprema Corte.

Il 9 ottobre 2018 Stylo24, giornale d’inchiesta diretto da Simone Di Meo ha pubblicato un’intervista alla criminologa della difesa:

“Delitto Macchi, una poesia ha portato un innocente in carcere

Intervista alla criminologa Ursula Franco sull’omicidio della studentessa uccisa a coltellate 30 anni fa in un bosco nel Varesotto

Lidia Macchi è stata uccisa a 21 anni, il 5 gennaio 1987 in un bosco non distante dall’ospedale di Cittiglio (Varese) dove si era recata a trovare un’amica.

Stylo24 ha intervistato la criminologa Ursula Franco su questo caso di omicidio vecchio di decenni, un omicidio per il quale un ex conoscente della vittima, Stefano Binda, è stato condannato all’ergastolo dopo che allo stesso è stata attribuita una missiva anonima recapitata a casa della vittima 4 giorni dopo il delitto.

Dottoressa Franco sappiamo che lei sostiene che l’omicidio di Lidia Macchi non sia un caso di interesse grafologico, perché?

Perché la poesia “IN MORTE DI UN’AMICA” non è stata scritta dall’assassino ma da un soggetto che non aveva altre informazioni riguardanti il delitto se non quelle rese pubbliche dai media e dalla famiglia. Attribuire la lettera a Stefano Binda equivale ad escludere che lo stesso sia l’autore dell’omicidio. Chi scrisse la lettera ipotizzò infatti un “movente condiviso” da familiari e giornalisti, ovvero un tentativo di stupro che non c’è mai stato. Vi rimando all’analisi completa della poesia che ho pubblicato sul mio blog (MALKE CRIME NOTES) dove ho analizzato anche la cosiddetta “lettera d’amore” ritrovata nella borsa di Lidia che in realtà non è che una preghiera/confessione in cui la Macchi si rivolge al Signore Gesù Cristo.

Riguardo al fatto che l’assassino possa essere stato un conoscente di Lidia, che può dirci?

Dagli atti non emerge nulla che lasci pensare che Lidia conoscesse il suo assassino.
Il contesto è la chiave: Lidia raccolse il suo assassino in un luogo particolare, un ospedale, questo soggetto può essersi spacciato per un medico o per un infermiere o per un parente addolorato o per disabile ed aver convinto la povera Lidia ad accompagnarlo da qualche parte, forse alla stazione di Cittiglio, che si trova poco distante dal bosco di Sass Pinin, luogo del ritrovamento del cadavere.

Può dirci chi si trovava alla guida dell’auto al momento dell’aggressione?

Lidia. Lo provano la posizione avanzata del sedile del guidatore e la dinamica dell’aggressione.

Come andarono i fatti?

Lidia si trovava alla guida della sua auto, l’assassino, che era seduto sul sedile del passeggero, scese, si diresse dalla parte del guidatore, aprì la portiera e le inferse le prime coltellate, Lidia tentò di parare i colpi, uno dei primi la attinse alla mano sinistra. La ragazza si difese con la mano sinistra perché tra l’aggressore e la sua mano destra si trovava il volante dell’auto. La Macchi, dopo aver parato uno dei primi colpi con la mano sinistra si mosse verso il sedile del passeggero, spostò il busto verso destra e mise il piede destro avanti, poi il sinistro, lasciando indietro la gamba destra allungata che venne attinta dal colpo sotto il gluteo. A questo punto Lidia crollò temporaneamente sul sedile del passeggero e lo macchiò di sangue. Il sangue repertato sul sedile del passeggero non è sangue proveniente dalla mano sinistra ma dalla ferita sotto il gluteo destro. Poco dopo Lidia si mosse e i suoi pantaloni assorbirono, all’altezza del gluteo sinistro, parte del sangue presente sul sedile che era fuoriuscito dalla ferita infertale sotto il gluteo destro. Lidia riuscì infine ad uscire dall’auto ma venne raggiunta dall’aggressore che fece il giro dell’auto dall’esterno e l’accoltellò prima anteriormente e poi posteriormente e si dileguò.

Gli inquirenti ipotizzarono che ad uccidere la Macchi fosse stato un conoscente in quando il suo cadavere fu ritrovato sotto un cartone.

Non fu l’assassino a coprire con il cartone il cadavere della Macchi, il lungo tempo intercorso tra l’omicidio e il ritrovamento del cadavere ed il tipo di omicidio, un omicidio premeditato e a sangue freddo, dove non c’è spazio per il rimorso, ci permettono di inferire che a coprire il corpo esanime di Lidia fu un soggetto estraneo all’omicidio che, forse, in quanto pregiudicato, non si rivolse alle forze dell’ordine, posto che la zona era frequentata da coppiette, prostitute, transessuali, tossicodipendenti e spacciatori.

Che può dirci delle stelline presenti negli scritti dei protagonisti di questa vicenda?

Negli anni ’80 era molto comune tra i liceali di tutta Italia aggiungere delle stelline ai propri scritti senza attribuire alle stelle a 5 punte alcun significato politico. E’ pertanto da escludere che una sorta di codice in uso a Stefano Binda venisse condiviso da Lidia Macchi e da Patrizia Bianchi anche perché Binda disegnò una sorta di stella al fianco di una mezzaluna in due sole occasioni, in una cartolina inviata alla Bianchi e in un foglio di una sua agenda.

E riguardo alla poesia di Cesare Pavese, “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”, definita cavallo di battaglia del Binda, ritrovata nella borsa di Lidia?

Lidia è stata uccisa nel 1987, mentre era iscritta al secondo anno di università, e proprio nell’epoca in cui del poeta Cesare Pavese si parlava negli incontri di Comunione e Liberazione, pertanto il fatto che all’interno della sua borsa sia stata ritrovata una poesia di Pavese non la collega a Binda che peraltro di sicuro, neanche al liceo, era l’unico a detenere una conoscenza esclusiva delle opere del noto poeta.

Abbiamo letto la sua analisi delle dichiarazioni di quella che è stata considerata dall’accusa una super teste, l’ex amica di Binda, Patrizia Bianchi.

La teste Patrizia Bianchi non ha fornito informazioni di alcun interesse ai fini investigativi. Durante la sua deposizione, la Bianchi ha dissimulato e ha usato alcuni escamotage linguistici per apparire convincente; in specie non ha riferito il vero in merito alla telefonata intercorsa tra lei e Stefano Binda il 7 gennaio 1987 in cui fu la stessa Bianchi a parlare di una eventuale arma del delitto.

Dottoressa, allo stato degli atti lei ritiene che si possa identificare l’assassino di Lidia?

No. In specie nei casi vecchi di decenni, l’unica certezza viene dalla prova scientifica, solo un DNA ritrovato sul cadavere o sulla scena del crimine, che non possa essere finito lì se non durante la commissione del delitto, permette di individuarne l’autore. Gli abiti di Lidia Macchi, gli unici reperti sui quali si sarebbe potuto isolare il DNA dell’assassino, sono stati distrutti. Infatti le uniche tracce di DNA che sarebbero state utili ad identificare l’omicida con certezza sarebbero state eventuali tracce ematiche presenti sugli abiti della vittima. Di frequente un aggressore che si serve di un’arma da taglio e colpisce la sua vittima con numerose coltellate, come in questo caso, si ferisce, perché dopo i primi colpi il coltello si sporca di sangue e gli scivola facilmente dalle mani, in specie quando lo stesso, dopo aver colpito il tessuto osseo, si arresta. Pertanto, all’epoca dei fatti si sarebbe dovuto analizzare ogni singola traccia ematica presente sugli abiti di Lidia nel tentativo di identificarne almeno una non appartenente alla vittima.

Lidia Macchi è stata da subito equiparata ad una Maria Goretti, che ne pensa?

In un caso giudiziario, il più grande regalo che si possa fare alla famiglia di una vittima non è idealizzarla trasformandola in un’icona contro la sua volontà, è invece cercare la verità e attraverso questa la giustizia. In generale, idealizzare una vittima impedisce alla verità di emergere e conduce a conseguenze disastrose: spalanca la porta all’errore giudiziario e la chiude proprio alla giustizia.”

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